Identità ebraica-israeliana
TEL AVIV. Le colonie israeliane in West Bank sono al centro della disputa tra l'amministrazione Obama e il governo israeliano. All'incirca mezzo milione di ebrei si sono trasferiti in West Bank dall'inizio dell'Occupazione, appropriandosi della terra palestinese con l'aiuto dell'IDF. Tra i coloni israeliani, ci sono moltissimi olim hadashim, nuovi immigrati. Spesso attirati dai forti incentivi finanziari del governo israeliano, a volte spinti dalla chiamata divina alla conquista della “terra promessa.” Molto spesso si tratta di ebrei convertiti: alla ricerca della propria identità, ritrovano una nuova sicurezza abbracciando l'ideologia sionista e razzista dello slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra.” Si sta occupando della questione un regista tedesco, Frank Henne, che ha incontrato e intervistato numerosi ebrei convertiti, tutti provenienti dalla Germania e da background cristiani, trasferiti nel cuore della West Bank.
Cosa spinge così tanti tedeschi a convertirsi al giudaismo e abbracciare l'ideologia sionista estrema dei coloni nei Territori Occupati?
Ogni anno sono decine i tedeschi che si convertono ed emigrano in Israele, secondi per numero solo agli statunitensi. Un'organizzazione governativa israeliana, la NOAM, si occupa specificamente di favorire questo processo. L'argomento più ovvio per la loro conversione è una forte ipercompensazione. Passare “dalla parte giusta” della storia è un grosso problema nell'immaginario collettivo tedesco, anch'io sento questa pressione e sono stato cresciuto con questo senso di colpa. In questo caso, la parte giusta è ovviamente quella delle vittime dello sterminio nazista. Così senti per la prima volta di avere il diritto ad esercitare quel nazionalismo che in Germania è proibito. Non puoi essere un nazionalista tedesco, ma puoi diventare un nazionalista ebraico e camminare a testa alta, perché il sionismo è la parte giusta.
Ma il passaggio dalla conversione alla militanza attiva è un passo di ulteriore rottura.
Si tratta chiaramente di una diversa forma di razzismo. Il concetto di popolo ebraico viene isolato e, invece di rigettarlo con l'antisemitismo, in questo caso viene elevato al di sopra di tutte le altre etnie, come “cartina al tornasole dell'umanità,” fino ad abbracciare acriticamente l'ideologia sionista e combattere per essa. I convertiti vogliono essere “più realisti del re,” anche per il fatto che in Israele in genere i convertiti sono considerati ebrei “di serie B.” Così questi tedeschi si trasferiscono in West Bank e fomentano il clima di violenza e di lotta contro gli arabi: il nemico non è più l'ebreo ma l'arabo. Credono che questa volta nessuno possa più tacciarli di estremismo.
Qual è il vissuto dei coloni convertiti che hai intervistato?
Il primo incontro è stato con Nethanel von Boxberg, che incarna il tipico stereotipo tedesco, rigido e formale; il suo nome in Germania era Andreas, l'ha cambiato ma ha mantenuto il cognome di origine nobiliare. Gli chiedo se ha avuto nazisti in famiglia, e lui si inalbera e risponde offeso “Certo che no!” Anche se, come ben noto, tutta la nobiltà era filonazista. Nethanel ha quarant'anni, si è convertito dieci anni fa e vive in Neve Daniel con la moglie yemenita e due bambini. Proviene da una famiglia della nobiltà tedesca ricca e protestante, fino a quattordici anni è stato fervente cristiano, poi con l'adolescenza si è allonatanto dalla chiesa e ha partecipato al movimento studentesco contro la guerra. Attraverso le organizzazioni religiose protestanti, fin da piccolo aveva incontrato molti ebrei. Dopo il liceo, durante un lungo viaggio in Medioriente, Iran, Siria, Libano e Israele, ha riscoperto un bisogno di spiritualità e un suo amico ebreo lo ha invitato ad approfondire il giudaismo. È venuto in Israele per studiare la Bibbia e poco dopo si è convertito.
Come è arrivato a trasferirsi nei Territori?
Nethanel è un programmatore di software, ha deciso di mantenere il lavoro a Gerusalemme ma traserirsi in una colonia, sia perché per gli stessi soldi di un appartamento a Gerusalemme ti puoi permettere una villa con piscina, ma soprattutto perché sulla “strada di Hebron” sente una forte connessione con la terra. Dice che ha scelto di prendere casa tra le “radici dei Re,” in una zona della Palestina descritta nella Bibbia. Le sue idee politiche sono estreme: “Se un arabo può camminare con la kefyia in Tel Aviv, perché se passeggio in West Bank con la mia kippah devo temere per la mia vita?” Nethanel si sente parte dell'impresa sionista di conquistare uno stato per gli ebrei. “Gli arabi hanno perso la guerra,” mi racconta, “ora devono accettare che ogni nuovo stato per nascere deve conquistare il suo spazio.” L'ironia è tragica: in questi discorsi, fatti da un tedesco, mi di rivedere la propaganda del terzo Reich, ma Nethaniel non coglie il nesso, nemmeno quando lo provoco esplicitamente.
Qual è il rapporto quotidiano di Nethanel con la popolazione palestinese che circonda la colonia?
La colonia è abitata da ortodossi, perlopiù americani recentemente immigrati. È vietato usare la macchina di shabbat e le regole del kashrut vengono strettamente osservate da tutti gli abitanti. La collina su cui sorge l'insediamento è nel cuore della West Bank, sulla strada tra Gerusalemme ed Hebron, una delle zone più calde. Nethanel ha a che fare con i palestinesi tutti i giorni, per lavoro: sono loro a costruire le colonie illegali, e poi ci lavorano come giardinieri e operai. “Se le colonie venissero congelate,” sostiene Nethanel, “questo è il loro unico sostentamento, perderebbero il lavoro e sarebbero i primi a protestare per ottenere l'ampliamento delle colonie!”
In che clima crescono i bambini negli insediamenti in West Bank?
Nethanel è molto eloquente su questo punto, “Non educo i miei figli insegnandoli chi è il nemico: ma lo imparano da soli molto presto. Per i bambini, un arabo è un tizio che guida di shabbat. In Tel Aviv educhi i bambini a fare attenzione alle macchine per la strada; qui li cresco mettendoli in guardia dagli arabi. I miei figli sono nati qui, hanno il diritto di vivere qui, nessuno li può evacuare. Viviamo su una collina, nessun arabo vive sulle colline, quindi siamo venuti e ci siamo presi la terra, che non era di nessuno.” Per capire meglio, gli ho chiesto cosa succederebbe se un giorno suo figlio portasse a casa una goi, una non ebrea. Lui mi ha risposto che non lo accetterebbe mai: “Mio figlio ha delle responsabilità non solo verso la sua famiglia, ma verso tutto il suo popolo, dovrà cambiare idea. Dobbiamo mantenere uno standard morale più alto, noi ebrei siamo i guaritori del mondo. Questo è il motivo per cui fa scalpore che un ebreo uccida un arabo, ma non il contrario: è raro perché gli ebrei sono il popolo più morale della terra.”
Ci sono molti convertiti provenienti da paesi ex-comunisti?
Sì, ho incontrato diversi coloni provenienti dalla Germania Est. Uno di essi, Yair, di madre protestante rappresenta il tipico caso di confusione d'identità. Per molte persone in Germania orientale il problema dell'identità è particolarmente sentito. All'epoca, Israele e la DDR erano in pessimi rapporti, in più la Germania orientale era controllata dall'Unione Sovietica. Essere attivi nella Chiesa era di per sé già un atto di ribellione, essere attivamente pro-israeliano era apertamente sovversivo. Yair è sempre stato affascinato dal fatto che “così pochi ebrei, da soli, abbiano saputo sconfiggere milioni di arabi: è la dimostrazione che sono il popolo eletto.” Durante un viaggio a Gerusalemme resta turbato e infine sei anni fa si converte ed emigra in Israele.
Anche se Yair è un colono religioso, non è monolitico nella sua scelta: per esempio festeggia ancora Natale tutti gli anni, in omaggio ai trentacinque anni di intensa militanza cristiana. Ho incontrato i suoi genitori, liberali protestanti, in visita dalla Germania: non riescono a venire a patti con la conversione del figlio. Yair infatti è completamente confuso, perso tra diverse ideologie, mi ha raccontato che ora vive tra ebrei mizrachim (provenienti dai paesi arabi), ma che li trova rumorosi, sporchi, non riesce ad adattarsi. Caduto il muro di Berlino, Yair lasciò la Germania perché non si sentiva più a casa, trovò la propria forza nel sionismo, e ancora prima di convertirsi andò a vivere in una colonia in West Bank, lavorando per un'altra ebrea tedesca convertita. La potenza dell'ideologia sionista e la vita estrema delle colonie lo portarono ad identificarsi con i coloni e a convertirsi poco più tardi.
Come può un ebreo convertito identificarsi nell'ideologia sionista?
Yair, nella sua confusione, mi ha ripetuto spesso che vuole continuare a vivere in un insediamento religioso in West Bank, perché così i suoi figli conosceranno le proprie origini. Ma quali origini? Tedesche, protestanti, ebraiche? Non mi ha saputo rispondere. Le argomentazioni logiche incontrano un muro ad un certo punto, come quando Yair ammette che, “da un punto di vista morale e politico, dovremmo ridare agli arabi non solo la West Bank ma anche Tel Aviv, ma io sono religioso, questo è quello che Dio vuole e io obbedisco alla legge.” In realtà si tratta spesso di buona volontà protestante trasformata in farsa, lo spirito filantropico di aiutare le vittime dell'Olocausto, trasformato in una grottesca e violenta caricatura. Un'altra donna tedesca che ho intervistato mi ha dato una versione ancora differente. Comunista da sempre, venne in Israele per vivere e lavorare in un kibbutz, per sperimentare la collettivizzazione in prima persona. Ma piano piano cominciò a sostituire Marx con la Bibbia, ed ora lavora per una di queste agenzie ebraiche che reclutano immigranti ebrei in asia.
Ma la storia dei convertiti non è nuova. Un recente libro di Shlomo Sand getta una diversa luce sulla vicenda. Secondo Sand, la maggior parte dei cosiddetti ebrei della diaspora, in realtà non sono discendenti dell'antico popolo ebraico. Al contrario, provengono da popolazioni arabe e si tratta perlopiù di cristiani convertiti al giudaismo: quindi non esistono “veri ebrei,” ma solo ebrei convertiti, che si identificano ora con la potenza dell'ideologia sionista, oggi ancora più forte nell'epoca del relativismo e della retorica dello “scontro di civiltà.”
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