Stefania Consonni«La shoah non può essere il collante dell'unità nazionale»



Nel libro emerge un'analogia fra la Germania pre-nazista e un possibile destino disegnato per Israele da un'«industria della Shoah». Non ha paura di radicalizzare il dibattito?Senza analogie qualsiasi libro diventa astratto. Volevo uno specchio attraverso cui guardare la mia nazione. Conosco la storia tedesca perché mio padre veniva da lì, e tedesche sono le due opere che hanno cambiato la storia ebraica: l'Altneuland di Herzl e il Mein Kampf di Hitler. Ho notato una somiglianza fra quanto sta accadendo in Israele e ciò che accadde in Germania fra Bismark e la fine della Repubblica di Weimar. Perché dopo la prima guerra mondiale in Germania si è instaurata una competizione fra due forze. Da un lato il trauma della sconfitta sul campo di battaglia, l'umiliazione nell'arena internazionale; dall'altro un incredibile risveglio della creatività, ad esempio nelle arti liberali. Trauma e speranza si sono fronteggiati. Ha vinto il trauma, portando all'Olocausto. Io non ho fatto che mettere la mia società davanti allo specchio e dire: «stavolta il trauma non vincerà»Perché, come ha detto in un'intervista su «Haaretz», è «comodo, romantico, nostalgico» ma soprattutto «esplosivo» associare a Israele le parole «ebraismo» e «democrazia»?
Definiamo Israele uno «stato ebraico democratico». Bello, ma pericoloso. Per fortuna, si potrebbe dire, ci sono gli arabi: guerre, problemi enormi. Ma ipotizziamo cent'anni di cessate il fuoco. Cosa scopriremo non avendo più occasione di ignorare i nostri conflitti interni? Intanto quello fra ebraismo e democrazia. In senso strutturale: democrazia o teocrazia? È inevitabile che prima o poi la tensione esploda. Per chi si riconosce nella componente ebraica dell'equazione, Israele è l'inizio di una redenzione, è qualcosa di escatologico. Ma è un rischio mescolare politica e messianismo. La dimensione memoriale sembra svolgere nel libro un ruolo maieutico rispetto a una psicologia collettiva del trauma.Sì, è perché non sono affatto sicuro che esista una sola storia collettiva di Israele. Israele è una società giovane, lacerata da una tragica competizione. Chi è più traumatizzato e da cosa? Chi ha vissuto l'Olocausto? O chi ha vissuto Stalin? O i regimi dell'America latina? È difficile, è straziante, ma io dico: è possibile che non ci sia nulla dopo il trauma? Alcuni ne hanno bisogno come di una esperienza fondante, ma non può essere il collante di un'unità nazionale. In America l'elezione di Obama ha rappresentato molte cose fra cui la fine di un trauma, la schiavitù. Israele però ha ancora testimoni viventi del suo trauma. Forse il libro è uscito troppo presto, ma bisognava scriverlo.Non è tanto la percezione di un nemico, non è solo la memoria di una persecuzione, a fondare un'identità, lei dice. Come si può può farlo in Israele oggi?
Ci sono tre modi di affrontare il problema dell'identità. Primo: una neutralità irrilevante. Perché mai chiedersi chi si è? Secondo: «ho subìto, dunque esisto». Hitler definisce per me la mia identità. Terzo: la percezione di un'interiorità. Se ripenso a come sono stato educato, l'idea era che noi ebrei non siamo sopravvissuti per caso. Il grido di libertà dell'Esodo echeggia ancora in molti conflitti sociali: viene dalla profondità antica della tirannia, dal percepirsi rispetto a una «ragione superiore». Io sono un utopista e credo, anche oggi, in una ragione superiore. Non so come sarà la sinfonia, ma per me l'ouverture dice: «Mai più». Non perché sono ebreo: «Mai più» per chi sta in Darfur o a Gaza, perché le vittime di ieri devono fare il possibile per evitare qualunque nuova vittima. Nel libro si parla di un sedicenne israeliano indignato dal pacifismo. Alla domanda, «Che auto avete in famiglia?», il ragazzo dice: «Bmw.» E aggiunge: «i tedeschi li perdono, gli arabi no». Un complesso incrocio di prospettive. Ce ne vuole parlare?
Noi siamo il popolo a cui la Bibbia ha ordinato: «ricorda». Eppure io ho corso la maratona a Berlino; eppure tanti israeliani vivono e lavorano in Germania. Cos'è successo? Ci sono molti fattori politici, ma soprattutto c'è stato un salto psicologico: abbiamo cominciato a trasferire odio e paura sugli arabi. Ripensiamo a Menachem Begin negli anni '80. A Reagan che gli chiede di bombardare Beirut, risponde: «Quando bombardiamo Arafat mi sembra di bombardare Hitler a Berlino». È una retorica onnipresente. Netanyahu, parlando di Ahmadinejad, non può che dire: «Siamo tornati al 1938». Non posso certo farne una colpa alla gente, perché come quel sedicenne molti sono nati in un'epoca in cui la Bmw è l'auto ministeriale, in cui gli arabi ci uccidono. Ma si è perso il senso di una gerarchia e una coerenza nel percepire i traumi storici: ecco cosa ci è successo.

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