AvrahamBurg: Israele sei militarista e senz'anima




Associare allo Stato d'Israele gli aggettivi “ebraico” e “democratico” equivale a produrre nitroglicerina: il paese è la versione contemporanea della Germania degli Anni '30». Chi turba così le celebrazioni sia pur problematiche del quarantennale della Guerra dei Sei Giorni non è il presidente iraniano Ahmadinejad, sommo teorico del parallelo tra sionismo e nazismo, ma un israeliano blasonato come Avraham Burg, ex presidente della Knesset tra il 1999 e il 2003, ex direttore dell'Agenzia ebraica per l'immigrazione, dirigente storico del partito laburista, ebreo ortodosso e al tempo stesso punto di riferimento della sinistra di governo. Nell'intervista pubblicata oggi dal quotidiano Haaretz sotto il titolo di «Explosive Material», materiale esplosivo, Burg, interpellato sul suo nuovo libro «Lenazeach et Hitler» (Vincere Hitler), invita i connazionali «raziocinanti» a espatriare: «Questa è una nazione militarista, non ce l'hanno ancora detto ma siamo tutti morti». Lui, per sicurezza, si è dotato di passaporto francese: ha appena votato contro Sarkozy.La reazione alle parole di Avraham Burg, annunciate ieri in tv, non si è fatta attendere: un deputato dell'estrema destra ha proposto alla Knesset di negargli la sepoltura tra i Grandi d'Israele, privilegio che spetta, per esempio, agli ex presidenti del parlamento. I forum online non parlano d'altro, la notizia rimbalza nelle redazioni, le radio hanno aperto i microfoni sulle affermazioni più forti, «definire ebraico lo Stato d'Israele è come sancirne la fine» ma anche «l'israelianeità è corpo senza anima». Il conduttore di un talk show di Canale 10, dove Burg era ospite, gli ha consigliato scherzosamente «un giubetto antiproiettile». Per capire quanto questo auto-da-fè turbi la società israeliana, accusata d'essere «un ghetto sionista di giudeo-nazisti», bisogna afferrare l'icona nazionale Avraham Burg. Cinquantadue anni, ebreo praticante, ex paracadutista ferito in missione, laureato in Studi africani alla Hebrew University e simpatizzante della prima ora di Peace Now, politico brillante ma riservato, con una casa spartana nella comunità religiosa di Nataf, vicino Gerusalemme, dove vive con la moglie francese Yael, psicologa, e sei figli: una rara mescolanza di valori tradizionali e cultura pacifista, eccentrica ma rispettata.Il padre Yosef, morto nel '99, occupa un posto d'onore nel pantheon israeliano. Nella memoria collettiva sarà sempre il leader erudito del Partito nazional religioso, che negli anni '60 e '70, sotto la sua guida, era una forza di centro, moderata, l'alleato fedele dei laburisti al governo. Tutti ricordano che durante le proteste contro il massacro nel campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, all'inizio del 1983, Yosef, all'epoca ministro dell'interno, sedeva in parlamento con il premier Begin, mentre il figlio Avraham manifestava in piazza con lo zuccotto ebraico sul capo. Fu allora che un ortodosso lanciò una bomba sui dimostranti: il giovane Burg fu ferito a una gamba e morì un coetaneo, Emil Grunzweig. Il j'accuse del ragazzo ribelle rivelatosi poi uno dei migliori presidenti della Knesset senza mai rinnegare le ragioni dei palestinesi, affonda nella religiosità profonda di Avraham Burg più che nel background movimentista. C'è la critica a una società «paranoica che costruisce muri contro le sue paure», ma anche l'attitudine ebraica all'autoflagellazione. Frasi come «è difficile capire le differenze tra il primo nazionalsocialismo e la teoria nazional-sociale israeliana di oggi» sono una doccia fredda per il Paese. Un conto se avesse parlato Lea Tsemel, l'avvocatessa israeliana che difende i kamikaze palestinesi e molti considerano una traditrice, ma Burg è diverso: è Israele.L'uomo che nel '95 guidava l'Agenzia ebraica, apprezzato per aver recuperato molte proprietà perdute dagli ebrei durante l'Olocausto, rilegge il passato: «La legge del ritorno è l'immagine allo specchio di Hitler, presuppone di accogliere chi lui discriminatoriamente considerava diverso. Ci stiamo facendo dettare l'agenda da Hitler». L'intervistatore, Ari Shavit, uno dei migliori giornalisti di Haaretz, suo compagno dagli inizi in Peace Now, lo incalza e si prende del «disertore» per aver tradito i valori dell'ebraismo: «L'ebraismo si basava sui mutamenti, il sionismo ha ucciso questa attitudine. Non c'è ebreo senza narrativa e qui non c'è più narrativa». Cosa resta, allora? «Un Paese ossessionato dalla forza, violento sulle strade, in famiglia, contro i palestinesi».Gli amici intimi non sono sorpresi, dicono che Avraham si è radicalizzato negli ultimi anni, da tempo sostiene che «il più ebreo di tutti è Gandhi» e «l'Europa è l'ultima utopia ebraica». Ma la sua Israele non lo sapeva ancora
Dalla Stampa di oggi: di FRANCESCA PACI
Dello stesso autore: la morte del SIONISMO qui
ALLEGATI:scappare dal sionismo

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