Banksy va a Betlemme Intervista al celebre artista


Intervista al celebre artista britannico, che spiega l’obiettivo del progetto legato all’albergo Walled Off in Cisgiordania. Leggi
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L’albergo di Banksy Walled Off (a sinistra) a Betlemme, il 15 marzo 2017.

Banksy va a Betlemme

Alcuni razzi salgono sibilando nel cielo buio, e si aprono con boati assordanti, senza sosta. Il suono di un campo di battaglia. Ma la notte del 2 dicembre si tratta di fuochi d’artificio.
L’occasione è l’accensione annuale dell’enorme albero di natale di piazza Manger a Betlemme. Una folla di persone si raduna attorno all’albero, con i volti all’insù e illuminati dalle luci intermittenti di migliaia di smartphone tenuti in alto. Le persone scandiscono un conto alla rovescia mentre un fascio di luci attraversa i rami, prima che una serie di lampadine appese in alto e su tutto l’albero, s’illumini di colori sgargianti, dando inizio allo spettacolo dei fuochi d’artificio.
Il tutto mentre risuona una musica araba pop. Uno spettacolo che avrebbe fatto fuggire sulle colline il bue e l’asinello, più simile ad Atlantic City che a O little town of Bethlehem. Dall’altra parte della piazza, però, uno o due giorni fa, su una piccola porta ad arco, è apparso un messaggio natalizio diverso, silenzioso e discreto. Dipinto in caratteri corsivi e in inglese, dice: “Pace in terra”. Seguono poi un asterisco, con la forma di stella che guida i re magi, e sotto, in caratteri molto più piccoli, la scritta “offerta soggetta a termini e condizioni”. Pochi giorni dopo, i disordini scaturiti dalla decisione di Donald Trump di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele hanno illustrato in modo chiaro questi termini e condizioni, e l’augurio, opera dell’artista britannico Banksy, si è caricato di una nuova ironia.
Il muro e la pittura
La presenza invisibile di Banksy in questa parte della Cisgiordania è diventata sempre più importante. Intervistato via email (l’unico modo per comunicare con quest’artista noto per voler rimanere anonimo), dichiara scherzosamente che la prima volta che si è recato nella regione era “attratto perlopiù dal muro: la superficie sembrava in grado di assorbire molto bene la pittura”.
Il muro in questione è naturalmente l’impenetrabile barriera di cemento e filo spinato alta più di nove metri, dotata di torrette di guardia, che costeggia e attraversa le aree occupate della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Il muro penetra dentro Betlemme seguendo due strane curve a gomito, concepita per lasciare la tomba di Rachele in territorio israeliano.
Questo percorso a serpentina fa sì che una parte spaventosamente consistente della barriera si trovi a Betlemme, così come nel campo profughi di Aida al di fuori della città (e dove abitano più di cinquemila palestinesi). Sul muro in effetti la pittura si attacca egregiamente.
Tutta la sua estensione è un tripudio di graffiti, opera di mani differenti, che vi hanno passato vari strati di pittura, più e più volte. Alcuni dei disegni recenti ritraggono Trump in formato gigante, compreso uno in cui abbraccia e bacia una torre di guardia. Bansky ha lavorato qui in maniera saltuaria dai tempi della sua prima visita nel 2003.
All’epoca era già molto noto nel Regno Unito come artista di strada che lavorava in clandestinità, prima nella sua città, Bristol, poi anche a Londra e altrove. Ma il più ampio successo commerciale doveva ancora venire. Le tecniche per rimuovere illecitamente le sue opere dai muri si stavano perfezionando rapidamente mentre il gallerista di Banksy dell’epoca, Steve Lazarides, era un tipo sveglio e capace. Quando nel 2007 Angelina Jolie e Brad Pitt offrirono la discreta somma di un milione di sterline per un’opera di Banksy, altre celebrità, tra cui Christina Aguilera, Damien Hirst e Kate Moss, seguirono il loro esempio.
Nonostante, o forse a causa del suo successo sul mercato, Banksy si è attirato una schiera di critici
Justin Bieber si era tatuato sull’avambraccio la famosa immagine della bambina con un palloncino. Come ha detto Lazarides all’epoca, in questa Banksy-mania gli acquirenti arrivavano dal “settore dell’abbigliamento, erano ragazzi della City o celebrità, [di solito] di età inferiore ai 45 anni”.
Nel 2008 l’opera Keep it spotless (Defaced Hirst) è stata battuta da Sotheby’s a 1,87 milioni di dollari, a oggi la cifra più alta per un lavoro dell’artista. Da allora varie case, negozi o perfino capannoni che ospitavano opere di Banksy sono stati venduti a cifre varie volte più alte del loro valore immobiliare. Nessuno conosce, tuttavia, i prezzi delle vendite illegali delle opere rubate dai muri.
Nonostante (o forse a causa) del suo successo sul mercato, Banksy si è attirato una schiera di critici. È stato accusato di copiare idee, soprattutto all’artista di strada francese Blek le Rat, ed è spesso considerato come un pagliaccio capace di aforismi visivi mordi e fuggi, più divertenti che profondi. Eppure tutta l’attività commerciale, il merchandising e la vendita delle nuove opere che passano soprattutto attraverso Pest control, l’azienda che l’artista ha creato nel 2009 soprattutto per controllare la marea di falsi in circolazione, ha portato a valutare ad almeno 20 milioni di sterline la fortuna personale di Banksy.
Nonostante tutti gli sforzi dell’artista, le sue opere continuano a essere falsificate, rubate e distrutte in tutto il mondo. Spesso anche a Betlemme alcune immagini significative sono scomparse, talvolta pochissimo tempo dopo essere apparse sulle superfici della città o sul muro stesso. Un murales del 2007, che ritraeva un asino fermato da un soldato israeliano armato fino ai denti per un controllo dei documenti e che aveva suscitato diverse polemiche da quelle parti, era scomparso ed è attualmente, a quanto dice l’agente di Banksy, Jo Brooke, in vendita sul mercato internazionale.

Il parco Dismaland a Weston-super-Mare, nel Regno Unito. - PA Images
Il parco Dismaland a Weston-super-Mare, nel Regno Unito.
Inoltre spuntano ovunque negozi non autorizzati di souvenir, che non si fanno scrupoli a vendere copie e falsi di Banksy. Ce n’è addirittura uno, che contiene il suo slogan “fate l’hummus, non la guerra” proprio sulla parete di fronte all’albergo di Banksy. L’albergo Walled Off – walled significa murato, ma nella pronuncia inglese “walled of” suona come il nome dell’hotel Waldorf – è stato aperto quest’anno e si rivolge perlopiù a visitatori stranieri, con una gamma di stanze che vanno da quelle più lussuose alle soluzioni in letto a castello da sessanta dollari a notte. Dalla statua a grandezza più che naturale di uno scimpanzé vestito da fattorino anni trenta alla porta d’ingresso, con tanto di valigia d’epoca da cui traboccano indumenti intimi femminili, il luogo è pieno di provocazioni visive alla Banksy, oltre che di sue opere. L’albergo sostiene con orgoglio di essere l’hotel “con la peggiore vista al mondo”, poiché si trova ad appena cinque metri dall’imponente barriera, che in quel punto costeggia quella che un tempo era una vivace strada commerciale ed è diventata oggi una stradina piena di buche, semideserta e piena di macerie.
I graffiti spadroneggiano: questo è probabilmente l’unico albergo dove nelle informazioni per gli ospiti si trovano consigli su dove comprare vernice e affittare delle scale. Dalla sua piacevole terrazza, il cemento pieno di graffiti colorati di fronte sembra quasi elegante alla vivida luce del giorno. Con il buio, invece, il sinistro senso di minaccia che proviene dal muro è ineludibile.
Banksy non è nuovo a iniziative ambiziose: due anni fa ha creato Dismaland un “parco di disorientamenti” nella città di Weston-super-Mare. Scuro contraltare al divertimento per famiglie alla Disneyland, Dismaland era un luogo, come dichiarato pubblicamente, “nel quale evadere dalle stupide evasioni”. Due anni prima aveva annunciato una “residenza” a New York, che prevedeva la creazione di un’opera d’arte, in un qualche luogo tra Manhattan e Brooklyn, per ognuno dei 31 giorni della sua permanenza. Tra le sue trovate c’era l’apertura di una bancarella a Central Park, dove ha messo in vendita pezzi autentici firmati a 60 dollari l’uno, vendendone però alla fine solo tre.
Nel tempo, Banksy ha intensificato il suo coinvolgimento nella regione
Ma un albergo? In un luogo del genere? Data la personalità di Banksy, non stupisce che in molti abbiano pensato a uno scherzo. Però stavolta, a quanto pare, il pagliaccio faceva sul serio. “A dirla tutta, sapevo pochissimo sul Medio Oriente quando sono venuto qui la prima volta – dalle notizie veniva fuori che qui abitano persone abituate ad ammazzarsi a vicenda”, racconta. “Nel mio primo viaggio in Palestina sono arrivato di notte e mi hanno portato subito dietro il muro. E quindi ho immaginato che la povertà, gli asini, la mancanza d’acqua e i blackout elettrici fossero un elemento della vita quotidiana in questa parte di mondo. Sono rimasto sconvolto quando, una settimana dopo, ho superato un posto di blocco e sono entrato in Israele dove, ad appena cinquecento metri, scintillavano dei ricchi centri commerciali, con rotonde piene di palme e suv nuovi di zecca dappertutto. Vedere le diseguaglianze tra le due parti è stato scioccante, poiché era chiaro che questa disparità era totalmente evitabile”.
Nel corso del tempo, tuttavia, Banksy ha intensificato il suo coinvolgimento nella regione, passando da graffitaro di passaggio a investitore. La principale ragione per la quale ha comprato un ex laboratorio di ceramica e l’ha trasformato in albergo, dice, “è stato Wisam, il suo tuttofare”. Wisam Salsaa, oggi direttore di The Walled Off, è anche il rappresentante locale dell’artista, un compito impegnativo, a quanto pare, poiché mantenere un totale anonimato richiede collaboratori devoti. “Con Wisam siamo diventati buoni amici”, continua Banksy. “Ma l’occupazione lo faceva arrabbiare al punto che stava per lasciare la Palestina per accettare un incarico da lavapiatti in un ristorante della catena Belgo, a Rotterdam. Stiamo parlando di un uomo che gestiva varie attività, parla cinque lingue, aveva una mezza dozzina di dipendenti, ed è intelligente, coraggioso e ironico. Ho pensato che fosse fondamentale che le persone come lui non se ne andassero”. Infine, concludendo con una delle sue classiche freddure, “e poi non volevo che cominciasse a dormire sul mio divano”.
La mattina dopo la festa di accensione dell’albero a Betlemme, il regista cinematografico Danny Boyle è in piedi in mezzo al polveroso parcheggio accanto all’albergo. Insieme a lui ci sono Salsaa, che come sempre organizza tutto, e anche Riham Isaac, la coregista palestinese di Boyle nel suo nuovo progetto su Banksy. È stato montato un palco, dotato d’impianto d’illuminazione, e ci sono alcune file di sedie di plastica, un grande microfono, un paio di pecore litigiose e un elegante asino bianco legato a un palo, nell’ombra. Non sembra un luogo nel quale, poche ore dopo, allestiranno The alternativity (L’alternatività, o L’altra natività), uno spettacolo di Natale in cui recitano alcuni bambini del luogo. Anche quella mattina, in alto sul muro che sovrasta il parcheggio, è apparsa una nuova opera di Banksy, con il suo classico stile a stencil. Mostra due cherubini alati, uno dei quali ha in mano un piede di porco, con il quale cerca furiosamente di allargare un varco apparso sul muro di cemento.


Anche The alternativity ha un analogo messaggio politico? A quanto pare no. “Un giorno, ho improvvisamente ricevuto un’email da Banksy”, dice Boyle. “Prima non avevamo mai avuto contatti, anche se naturalmente conoscevo le sue opere. Avevo grande rispetto per il suo lavoro. Mi ha semplicemente chiesto di fare questa cosa, e ho detto di sì”. Boyle è stato pagato una sterlina e da contratto ha il ruolo di “presentatore”. Durante una visita precedente, Boyle aveva assunto Isaac, una direttrice di teatro e insegnante del luogo, affinché lavorasse al progetto. Isaac racconta di aver trovato e fatto i provini a vari bambini, affinché cantassero e recitassero, su Facebook. Molte delle persone del luogo coinvolte sono cristiane, anche se sotto i cappelli da Babbo Natale indossati dai coristi emergono uno o due hijab.
A tutta questa esperienza sarà dedicato un film, già in lavorazione, diretto da Jaimie D’Cruz, che ha lavorato con Banksy nel suo documentario del 2010, Exit through the gift shop. D’Cruz mi racconta che qui, anche per Boyle, è stato difficile noleggiare le apparecchiature. E anche se la cosa accade solo a poche centinaia di metri dal posto di blocco più vicino, tre fotografi israeliani si sono rifiutati di scattare alcune fotografie per il Financial Times. Eppure l’atmosfera appare pacifica, quasi assonnata.
Da queste parti, nei pomeriggi invernali, il sole tramonta presto. Dopo che sono trascorse varie ore calde e polverose, durante le quali due cori di bambini, i ballerini, gli attori e perfino l’asino hanno provato per lo spettacolo, l’inizio, previsto per le cinque, avviene quando fuori è già buio. Alcune robuste guardie di sicurezza in stivali militari, con giubbotti antiproiettile dall’aria stranamente confortevole e con su scritto Palsafe (sicurezza palestinese), si muovono avanti e indietro ad ampie falcate, mentre le luci cominciano a brillare e la trasformazione dello squallido parcheggio si completa. L’odioso muro che incombe minaccioso appena dietro di noi è dimenticato.

Un’opera di Banksy a Betlemme. - banksy.co.uk
Un’opera di Banksy a Betlemme.
Le persone arrivano, ben vestite ed esaltate: famiglie con bambini rumorosi che mangiano gelati, anziani, alcuni dignitari locali che ottengono le poche sedie mentre tutte gli altri gironzolano. Ci sono anche alcuni stranieri. Poi lo spettacolo comincia: carole natalizie e altre canzoni, intonate dolcemente in arabo con qualche aggiunta di inglese. Qualche gag in duetto, qualche ballo, naturalmente Maria sull’asino, tre comiche ed energiche “guaritrici” al posto dei re magi, e la storia di Natale è raccontata.
Nonostante il tocco di un regista noto in tutto il mondo e alcuni dettagli particolarmente costosi (come una rumorosa macchina della neve), è uno spettacolo natalizio simile a migliaia di altri nel mondo: stranamente rassicurante, assurdamente commovente. La partecipazione di varie decine di bambini e famiglie del luogo in The alternativity è stata il coronamento di varie settimane di lavoro compiuto da Isaac.
Banksy rivela anche un differente aspetto del progetto: “Era nato come uno spettacolo di Natale senza pretese”, racconta. “Ma nel momento stesso in cui è arrivata la troupe cinematografica, le persone hanno cominciato a dire, ‘dobbiamo fare emergere il disagio degli abitanti del luogo nei confronti dell’albergo’. Al che ho chiesto, ‘quale disagio?’. È venuto fuori che molte persone qui sono piuttosto sospettose nei confronti del progetto. Alla fine lo spettacolo della natività è risultato estremamente popolare e ha coinvolto molti bambini e le loro famiglie. La natività, insomma, ha fatto emergere il problema e poi l’ha risolto. Buon Natale”.
Uscire allo scoperto
Anche Salsaa, a quanto pare, aveva i suoi dubbi, anche se per altri motivi. “Mi chiedevo se la gente sarebbe venuta. Voglio dire, perché qualcuno dovrebbe portare i suoi figli qui, sotto questo muro? Perché mai dovrebbero volere che i loro figli vedano questo?”. Anche i suoi tre figli, si scopre, non sapevano dell’esistenza del muro prima dell’apertura dell’albergo. Il più grande ha 14 anni. “Ma le persone sono comunque venute a vedere lo spettacolo, e non sembravano troppo turbate”.
Il progetto dell’albergo The Walled Off mette in primo piano la questione dell’anonimato di Banksy. L’artista sembra infatti estremamente presente, basti pensare alle notizie che circolano, alla maniera disinvolta che hanno le persone di dire, dopo lo spettacolo, “oh, Bansky ha davvero apprezzato la macchina della neve”. Ma era presente? Osservava dall’alto, da una finestra? Oppure si era mescolato nella folla? O qualcuno ha ritrasmesso tutto lo spettacolo in diretta solo per lui? E se così fosse, dove si trovava fisicamente? In un’epoca ossessionata dalla celebrità e dai nomi, Banksy è una sorta di celebrità alternativa, ma comunque una celebrità.
Uscire allo scoperto oggi significherebbe rovinare il marchio, e qui risulta molto chiaro quanto il segreto della sua identità sia nelle mani di poche persone devote intorno a lui, che rendono possibile la sua vita e il suo lavoro. Evidentemente ispira una lealtà che è oggi profondamente radicata. Neanche Boyle lo ha mai incontrato di persona. “Quando ho accettato di fare lo spettacolo della natività, Banksy mi ha detto, ‘vuoi che c’incontriamo?’. E io ho risposto ‘no!’. Abbiamo fatto tutto via email”. La questione più ampia su tutto il progetto è: perché? Banksy e i suoi sostenitori credono davvero che la sua arte, o quella di chiunque altro in realtà, possa produrre cambiamenti significativi?
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Durante una visita ad Aida, il vicino campo profughi palestinese, mi ha stupito come la mia guida, Marwan Frarjeh, parlasse dell’artista con calore e familiarità. Creando un albergo in una zona che prima era off limits, mi ha detto, ha portato un po’ di vita e di speranza, oltre che di visitatori stranieri.
Boyle ha le idee chiare sul ruolo della cultura all’interno di realtà politiche così difficili. “Ho lavorato in Irlanda del Nord per anni”, dice. “A dire il vero pensavo che niente sarebbe mai cambiato da quelle parti, sembrava impossibile. E invece, è proprio quel che è successo”. Anche a Berlino ha imparato alcune scomode verità sui muri. “E poi, alla fine, pure quel muro è caduto”. Oggi sta lavorando in Sudafrica, dell’apartheid fanno ancora male, e anche se non arriverebbe ad attribuire questi importanti cambiamenti politici al potere dell’arte, dice che “il punto è portare cultura. È sempre importante. Anzi, è fondamentale”.
Quanto allo stesso Banksy, l’artista dà prova di modestia quando deve rispondere alla domanda sulla possibile efficacia pratica della sua arte e anche se le sue risposte, come il progetto stesso, appaiono talvolta incredibilmente ingenue, rimane ottimista. “Non ci sono molte situazioni in cui quali un artista di strada possa essere di qualche utilità”, dice. “La maggior parte della mia attività politica si limita a mostrare. Ma in Palestina esiste una piccola possibilità che l’arte abbia qualcosa di utile da aggiungere. Qualsiasi cosa possa interessare i giovani, e in particolare i giovani israeliani, non può che essere d’aiuto”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul Financial Times.

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