Alberto Negri - Perché Al Sisi e l'Islam egiziano non possono perdere il Sinai

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Non è una moschea qualunque quella scelta dai jihadisti per compiere uno degli attentati più sanguinari nella storia dell’Egitto. La moschea di Rawdah, nel nord del Sinai egiziano, è considerata una “zawia”, un luogo di riferimento per i fedeli sufi, il ramo più spirituale dell’islam, ritenuto eretico dagli estremisti. Dopo le forze di sicurezza, i turisti e i cristiani copti, ora il terrorismo colpisce i mistici sufi. Ma il bersaglio non sono soltanto i miti seguaci di uno dei molteplici volti dell’Islam, minacciati da ondate di violenza non solo in Egitto ma anche in Libia, Tunisia, Mali e nel Sahel.
Nel mirino è lo stesso presidente, Abdel Fattah Al Sisi che forse non a caso ha ordinato l’immediata costruzione di un mausoleo sul luogo della strage. Il generale il primo gennaio 2015 lanciò un appello, in un discorso a Al Azhar, simbolo del mondo sunnita, per una “rivoluzione religiosa” che rendesse compatibile l’Islam con la democrazia. Il problema è: quale Islam e quale democrazia? Al Sisi, infatti, prima di essere eletto presidente, nel 2013 ha deposto con un violento colpo di stato il suo predecessore Mohamed Morsi, ha dichiarato la Fratellanza Musulmana un’organizzazione terroristica, mettendola fuori legge, ha incarcerato migliaia dei suoi membri e viene visto dai reduci delle “primavere arabe” come il nuovo Faraone. Ma la repressione da sola non basta e può sfociare in guerre civili devastanti come la Siria, l’Iraq o l’Algeria degli anni Novanta.
Il discorso di Al Sisi ad Al Azhar allora fece comunque sensazione. Un discorso inusuale per un leader musulmano davanti a un consesso di imam e ulema: «È inconcepibile che il pensiero che noi riteniamo più sacro faccia dell’intera umma (comunità musulmana mondiale, ndr) una minaccia e sia causa di ansietà, morte e distruzione per il resto del mondo».

Qual è il pericolo maggiore per il generale? Lo scopo dei movimenti come l’Isis è di frantumare e radicalizzare la società egiziana oscurando le voci più articolate dell’Islam e costringendo i credenti, per paura o convinzione, a schierarsi su posizioni intolleranti. In Siria e in Iraq il bersaglio erano gli sciiti, gli alauiti o anche soltanto i sunniti più aperti. L’accusa è che gli altri sono eretici e miscredenti.
Il sufismo è agli antipodi del jihadismo. Perché i jihadisti detestano i sufi? Il sufismo rappresenta la dimensione interiore e contemplativa dell’islam autentico e quindi per i salafiti, che vogliono diventare il cuore puritano dell’islam, è il nemico peggiore.
È paradossale ma i jihadisti sono in un certo senso la parodia dei sufi. Dal XX° secolo, con la nascita del radicalismo, il sufismo è stato oggetto di ulteriori critiche e di attacchi feroci: il wahabismo dei sauditi e i jihadisti la pensano allo stesso modo perché il sufismo esprime una sensibilità religiosa inconciliabile con un’interpretazione univoca del Corano.
Questo è il punto chiave del conflitto dentro l’islam, una battaglia culturale strumentalizzata politicamente.

Non solo: la violenza contro i “miscredenti” fa parte anche di un conflitto interno ai jihadisti, tra quelli più estremisti dell’Isis e i membri di Al Qaeda, lo abbiamo già visto in Afghanistan, in Siria e Iraq.
Negli attacchi dei jihadisti c’è, poi, una posta immediata, la più concreta: il Sinai è il crocevia di pipeline gasdotti, un’area strategica per i confini con Gaza e Israele, che guarda al Mediterraneo, al Mar Rosso e al Canale di Suez. Se Al Sisi non vince in Sinai perde anche l’Egitto.
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