Striscia di Gaza, un dicembre infame
(Milano) - Alluvioni, tagli all’energia elettrica, mancanza di carburante. Nel quinto anniversario dell’inizio dell’operazione militare israeliana Piombo Fuso, la Striscia di Gaza vive una delle sue peggiori crisi umanitarie. Difficile chiamare emergenza una situazione ormai strutturale, ma i livelli raggiunti sono inimmaginabili.
La vigilia di Natale a Gaza è tornato il buio: Israele ha chiuso il valico di Kerem Shalom, in risposta all’uccisione di un operaio che stava effettuando delle riparazioni al muro di separazione, danneggiato dalle intense piogge della prima decade di dicembre. E dopo aver bombardato con jet F16 Khan Younis, a Sud della Striscia, uccidendo un uomo e una bimba di 4 anni, le autorità israeliane hanno chiuso il valico da cui passano beni di prima necessità. Tra questi il carburante, senza il quale l’unica centrale elettrica di Gaza non può funzionare.
Così, il milione e 700mila residenti palestinesi da settimane devono fare i conti con il razionamento dell’elettricità: ogni quartiere usufruisce di 4 o 5 ore di energia al giorno. Si fa a turno, organizzando le normali attività quotidiane in base al funzionamento o meno di un interruttore di corrente.
La carenza di energia elettrica ha reso la Striscia più invivibile: gli ospedali lavorano a stento, le sale operatorie possono essere utilizzate solo a determinati orari e i reparti di terapia intensiva sono quasi del tutto bloccati. Colpito anche il sistema di raccolta delle acque: le pompe elettriche non riescono ad assorbire l’acqua che ha invaso le strade dopo la tempesta che ha vessato la Striscia questo mese. Quattro giorni di piogge intense hanno lasciato dietro di sé 10mila sfollati: in alcuni punti l’acqua ha raggiunto i due metri d’altezza, costringendo intere famiglie a cercare rifugio nelle scuole dell’Unrwa - l’agenzia Onu che assiste i profughi palestinesi - e nelle stazioni di polizia.
La carenza di carburante per alimentare la centrale elettrica e i generatori privati è ormai cronica: ad impedire i regolari approvvigionamenti sono sia le autorità israeliane che quelle egiziane. Dal 3 luglio scorso, giorno del colpo di Stato che ha deposto il presidente islamista Mohamed Morsi, Il Cairo è impegnato in una dura campagna punitiva contro Hamas, governo de facto della Striscia, accusato dall’Egitto di aver sostenuto militarmente e politicamente il regime dei Fratelli Musulmani. Oltre mille gallerie scavate sotto la linea di confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto sono state distrutte impedendo così l’ingresso clandestino di beni di prima necessità, carburante incluso.
Ebaa Rezeq, giovane attivista gazawi di Gaza Youth Breaks Out, ci racconta gli effetti che il blocco della Striscia – ormai cinta d’assedio dal 2007, quando gli uomini di Hamas assunsero, armi in pugno, il controllo del territorio, mettendo fuori gioco i dirigenti di Fatah – sta provocando sulla popolazione palestinese. Alle restrizioni quotidiane segue un trauma psicologico che azzera speranze e creatività.
«Non riesco a ricordare quando è stata l’ultima volta che non mi sono preoccupata dell’elettricità – ci spiega Ebaa –. A dicembre abbiamo avuto a disposizione solo 4 o 5 ore di corrente al giorno. Non che cambi molto: sono anni che dobbiamo fare i conti con tagli e black out, otto ore di elettricità e otto senza. Continuamente. Devi pianificare la tua vita quotidiana e il tuo lavoro in base alla corrente elettrica. Fare una doccia, scrivere al computer, organizzare un incontro di lavoro. Tutto va avanti così da anni ormai».
«La conseguenza è chiara: a livello psicologico la popolazione ha perso la creatività, la voglia di attivarsi, di manifestare la propria opinione. Siamo troppo presi, ogni giorno, a pensare a come risolvere i problemi basilari, a cercare di soddisfare bisogni fondamentali che nel 2013 in gran parte del mondo sono dati per scontato. Quando incontro i miei amici, passiamo metà del tempo a parlare di elettricità e carburante, o a chiedere se il confine è aperto o chiuso, se oggi avremo o no acqua calda. Energie e tempo necessari ad una lotta di base finiscono così assorbiti da altri pensieri, i più immediati».
Se non godi di diritti fondamentali e la tua principale occupazione è garantire alla tua famiglia beni di prima necessità, difficilmente avrai ancora tempo e forza per lottare, per esprimerti: «Ci hanno reso schiavi – continua Ebaa –. Non riusciamo più a pensare fuori dalla scatola, a organizzare una strategia politica popolare, a combattere contro l’occupazione militare e contro il nostro stesso governo, Hamas, che pare quasi crogiolarsi in una tale situazione. Emergenza costante a Gaza significa finanziamenti dall’esterno, soprattutto da Paesi arabi come Turchia e Qatar, e quindi “stabilità”: Hamas è in grado di mantenere la propria autorità e proteggere i propri interessi, senza far nulla per la popolazione gazawi».
Fuori, per le strade e i villaggi di Gaza, la tempesta dicembrina ha lasciato dietro di sé sfollati, morti e feriti, case distrutte, campi allagati e impraticabili, infrastrutture al collasso. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento nelle questioni umanitarie (Ocha), il 10 per cento delle serre e degli appezzamenti agricoli è rimasto seriamente danneggiato. Gli esperti dell’Onu vedono nero e dicono che nel 2020 Gaza non sarà più un luogo abitabile, soprattutto a causa della mancanza di acqua potabile e non inquinata. Oggi il 95 per cento della falda acquifera lungo la cota è contaminata: non può essere bevuta né utilizzata per l’agricoltura. Gli impianti di depurazione sono quasi del tutto inefficaci, vecchi e privati di una manutenzione regolare a causa dell’impossibilità di far entrare nella Striscia materiali da costruzione.
Dopo l’operazione Piombo Fuso – cominciata il 27 dicembre 2008 e terminata il 10 gennaio 2009 – durante la quale morirono 1.400 civili palestinesi, si calcola che ogni giorno finiscano in mare 60-90 milioni di litri di acque reflue non trattate.
«Capite? Ci stanno togliendo tutto, lentamente, direttamente e indirettamente», conclude Ebaa. «Anche i libri, ormai, sono quasi introvabili, qui a Gaza. Stiamo lentamente dimenticando cosa significhi sperare e sognare».
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