Siria.L’altra verità di Daraya la città dell’ultimo massacro

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Uno scambio di prigionieri si è trasformato in una strage con almeno 245 vittime tra cui molte donne e bimbi È quanto alcuni testimoni hanno raccontato al primo inviato occidentale giunto in uno dei luoghi simbolo della rivolta
di Robert Fisk
DARAYA. La città del massacro, è un luogo di spettri e domande, che ieri riecheggiava dei boati dei mortai e dei crepitii delle armi da fuoco, con i pochi abitanti ritornati che parlavano di morti, aggressioni, terroristi stranieri, e con il suo cimitero di carneficine infestato dai cecchini. Le donne e gli uomini con cui ho potuto parlare, due dei quali avevano perso dei congiunti nel giorno dellinfamia a Daraya, cinque giorni fa, hanno raccontato una storia diversa da quella che si sente ripetere in tutto il mondo, il racconto di una cattura di ostaggi da parte dellEsercito libero siriano e di frenetiche trattative per uno scambio di prigionieri fra gli oppositori armati del regime e lesercito siriano, prima che le forze lealiste del presidente Bashar Al Assad prendessero dassalto la città per sottrarla ai ribelli.
                                

Ufficialmente non è stata fatta parola di questi colloqui fra i due fronti. Ma alti ufficiali dell’esercito siriano hanno raccontato che «avevano esaurito ogni possibilità di riconciliazione» con le forze che tenevano la città, mentre i residenti di Daraya hanno detto che da entrambe le parti era stato fatto un tentativo di organizzare uno scambio tra civili e soldati non in servizio attivo — apparentemente rapiti dai ribelli per i loro legami familiari con membri dell’esercito lealista — e prigionieri nelle mani dell’esercito. Quando le trattative sono fallite, l’esercito di Assad è avanzato su Daraya, a una decina di chilometri dal centro di Damasco. 
Essere il primo testimone oculare occidentale in città ieri era tanto frustrante quanto pericoloso. I corpi di uomini, donne e bambini erano stati trasferiti dal cimitero, dove molti di loro erano stati ritrovati; e quando siamo arrivati in compagnia delle truppe siriane al camposanto sunnita i cecchini hanno aperto il fuoco contro i soldati, colpendo la parte posteriore del vecchio veicolo blindato con cui ci siamo dati alla fuga. Ma siamo riusciti a parlare con dei civili lontano dalle orecchie dei funzionari siriani — in due casi all’interno delle case di queste persone — e il loro racconto dell’ultima strage, con l’uccisione di massa, sabato, di almeno 245 fra uomini, donne e bambini, indica che le atrocità sono state molto più ampie del previsto. 
Una donna, che ha detto di chiamarsi Leena, ha detto che stava attraversando la città in macchina e che ha visto almeno 10 cadaveri di uomini abbandonati in strada vicino a casa sua. «Non ci siamo fermati, non abbiamo avuto il coraggio, abbiamo semplicemente visto questi corpi per strada », ha detto, aggiungendo che le truppe siriane non erano ancora entrate a Daraya. 
Un uomo, anche se non aveva visto i morti nel cimitero, si è detto certo che si trattava per lo più di persone legate all’esercito lealista e che tra di loro c’erano diversi coscritti non in servizio. «Uno dei morti era un postino, lo hanno preso perché era un dipendente pubblico », ha detto l’uomo. Se queste storie sono vere, allora gli uomini armati — che secondo un’altra donna, che mi ha raccontato che hanno fatto irruzione in casa sua e che lei li ha baciati nel tentativo di impedirgli di sparare sui suoi cari, indossavano cappucci — non erano soldati siriani, ma ribelli. 
La casa di Amer Shaykh Rajav, autista di carrello elevatore, secondo quanto racconta lui era stata requisita da uomini armati per essere usata come base delle forze dell’Esercito libero, come i civili definiscono i ribelli. Hanno sfasciato le stoviglie e bruciato tappeti e letti — la famiglia ci ha mostrato queste devastazioni — e oltre a questo hanno estratto e portato via i chip dei computer portatili e dei televisori presenti nell’appartamento. Forse per usarli come componenti per bombe? 
Su una strada ai margini di Daraya, Khaled Yahya Zukari, camionista, stava lasciando la città sabato a bordo di un minibus, insieme alla moglie Musreen, di 34 anni, e alla figlioletta di 7 mesi. «Stavamo andando verso Senaya quando improvvisamente hanno cominciato a spararci addosso. Ho detto a mia moglie di mettersi giù, ma una pallottola è entrata nel bus e ha colpito la nostra bambina e mia moglie. Era la stessa pallottola. Sono morte tutte e due. Gli spari venivano dagli alberi, da una zona verde. Forse erano i guerriglieri che erano nascosti dietro il terreno e gli alberi e hanno pensato che fossimo un pullman militare, che trasportava soldati». 
Indagare approfonditamente su una tragedia di queste proporzioni e in queste circostanze ieri era praticamente impossibile. In certi casi, al seguito delle forze armate siriane, abbiamo dovuto attraversare di corsa strade deserte con cecchini anti-Assad agli incroci; molte famiglie si erano barricate in casa. 
Il racconto forse più triste di tutta la giornata di ieri è stato quello del 27enne Hamdi Khreitem, che stava seduto in casa insieme a suo fratello e sua sorella e ci ha raccontato che i suoi genitori, Selim e Aisha, sabato erano usciti per andare a comprare il pane. «Avevamo già visto in televisione le immagini del massacro — le reti occidentali dicevano che era stato l’esercito siriano, la televisione di Stato diceva che si trattava dell’Esercito siriano libero, ma non avevamo più da mangiare e mamma e papà hanno preso la macchina e sono andati in città. Poi è arrivata una telefonata dal loro cellulare ed era mia madre, che ha detto solo: “Siamo morti”. Lei non era morta. Era stata ferita al braccio e al petto. Mio papà era morto, ma non so dove sia stato colpito o chi lo abbia ucciso. Lo abbiamo riportato a casa dall’ospedale, lo abbiamo coperto e lo abbiamo seppellito ieri».
(©The Independent La Repubblica Traduzione Fabio Galimberti)

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