israele, la violenza dei coloni è "terrorismo": lo dicono gli Stati Uniti
Mentre l’attenzione dell'opinione pubblica israeliana è rivolta al possibile attacco all’Iran e la comunità internazionale è concentrata sulla Siria, nei Territori Occupati continua una guerra lontana dai riflettori. Gli attacchi dei coloni, protetti dalle IDF, si protraggono senza sosta. Una violenza dilagante che anche gli Stati Uniti cominciano a chiamare "terrorismo".
di Stefano Nanni
Soltanto negli ultimi dieci giorni, in Cisgiordania si contano almeno otto episodi di violenza condotti da coloni a danno dei palestinesi. L’esercito israeliano è presente e non interviene, e la vicenda termina con l'arresto o il fermo dei palestinesi coinvolti.
UNA SETTIMANA DI ORDINARIA VIOLENZA
Domenica 12 agosto, alcuni coloni provenienti dall’avamposto di Migron hanno attaccato delle automobili guidate da palestinesi, lanciando delle pietre.
Secondo l’Alternative Information Center, che cita fonti vicine ai coloni, gli attacchi sarebbero una risposta ai tre ordini di sfratto emanati dalle autorità israeliane e indirizzati al vicino avamposto di Ravat Migron: una dinamica da ‘price tag’, dunque.
Il giorno successivo, lunedì, nell’ambito di un’operazione di sradicamento di un terreno agricolo nei pressi del villaggio palestinese di al-Khader da parte dell’esercito israeliano, situato nell’area di Betlemme e vicino alla colonia di Elazar, dei coloni hanno rubato le piante di ulivo estirpate. Il tutto sotto la supervisione inerte dei militari.
Nella sola giornata di martedì 14 agosto, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario nei Territori Occupati ha registrato 4 attacchi ad alcune proprietà palestinesi.
Nella comunità palestinese di Mikhmas, nei pressi di Ramallah, un gruppo di coloni ha tagliato e bruciato un centinaio tra alberi di ulivo e fichi.
Sempre nell’area di Ramallah, dei coloni hanno aperto il fuoco contro una macchina sulla strada 60, danneggiando soltanto l’auto.
Nel villaggio di Susiya, alle porte di Hebron, diversi alberi sono stati avvelenati e dieci pecore sono morte a causa di bombole spray spruzzate dai coloni.
Nel villaggio di 'Urif invece, nell’area di Nablus, i coloni provenienti dall’insediamento di Yitzhar si sono scontrati con i residenti nei pressi di una scuola superiore danneggiando le tubature idriche esterne dell’edificio.
Giovedì 16 è avvenuto l’episodio più eclatante.
Al checkpoint 56 di Tel Rumeida, nell’antico quartiere di Hebron, un palestinese di 20 anni, Abd-Elaziz Elfakhouri, è stato circondato e malmenato da un gruppo di giovani israeliani.
Il video riportato da Mondoweiss mostra il ragazzo che cerca di raggiungere un suo compagno fermato poco prima, ma viene accerchiato, picchiato e trascinato all’interno di un edificio sotto lo sguardo imbarazzato di un soldato che intima le telecamere di non riprendere.
Secondo Issa Amr, coordinatore dei 'Giovani contro le Colonie', i ragazzi che hanno picchiato Elfakhouri potrebbero essere dei soldati in borghese.
"Nell’ultimo mese ci sono stati altri casi simili. Con o senza uniforme non si può fare affidamento ai soldati, che mostrano quotidianamente il loro deliberato supporto ai coloni".
Tuttavia, i coloni non sono l’unica fonte di violenza e non è sempre vero che i soldati sono passivi durante i loro interventi: succede che a volte intervengono per agevolare gli stessi insediamenti dei coloni.
Come venerdì 17, quando durante una manifestazione di protesta contro la chiusura di una strada che connetteva direttamente Nablus con il villaggio di Kafr Qaddum (per raggiungere la città occorreranno 40 minuti anziché 15, ndr) l'esercito israeliano ha arrestato due palestinesi e sei giornalisti, due dei quali hanno riportato gravi ferite.
La scelta di negare l'accesso della strada ai palestinesi è dovuta al fatto che la stessa viene utilizzata dai vicini coloni di Kedumim.
E per evitare probabili scontri, le forze armate hanno deciso che i coloni potranno continuare ad utilizzare la strada principale mentre i palestinesi dovranno provvedere autonomamente ad un percorso alternativo.
A chiudere questa settimana di ordinaria violenza c’è l’ennesimo atto di vandalismo nelle campagne palestinese nelle colline a sud di Hebron.
La mattina di domenica 19, nella valle di Humra, in prossimità dell’avamposto illegale di Havat Ma’on, sono stati scoperti trenta alberi di ulivo tagliati e danneggiati. Con questi il numero di alberi distrutti in quest’area a partire da gennaio sale a 97.
IL RITORNO DEL "TERRORISMO"
La violenza nei Territori Occupati da parte dei coloni, in particolare nell’Area C, dove il governo civile e militare è di responsabilità israeliana, ha raggiunto negli ultimi anni dei livelli mai registrati prima.
Se infatti negli ultimi 5 anni la violenza dei palestinesi sembra essere diminuita del 95%, gli attacchi nei confronti di questi ultimi sono in costante aumento.
Un'escalation che non è passata inosservata neanche negli Stati Uniti, come dimostra l'articolo pubblicato la settimana scorsa dalla rivista accademica di politica internazionale Foreign Affairs, in cui le azioni violente dei cittadini israeliani residenti nelle colonie sono definite - senza mezzi termini - dei veri e propri "atti di terrorismo".
"Appiccare incendi e distruggere alberi non appartengono alla stessa categoria degli attentati suicidi, e l’utilizzo del termine terrorismo per descrivere tale vandalismo rischia un’ostica equivalenza morale", specificano Daniel Byman, professore della Georgetown University, e Natan Sachs, ricercatore.
Ciononostante per "terrorismo" non s'intende solo l’atto in sé stesso, ma anche lo scopo che persegue: creare terrore per promuovere un’agenda politica.
Le azioni dei coloni si rivolgono contro un nemico dichiarato – i palestinesi – e vengono utilizzate come deterrente per prevenire ed indebolire la loro resistenza, soprattutto psicologica.
Nel loro 'mirino' finiscono anche gli attivisti, israeliani ed internazionali, così come i giornalisti e le stesse autorità che possono rappresentare un ostacolo al raggiungimento dei loro fini politici.
"Cercando di spaventare una popolazione rivale ed intimidire un governo, il linguaggio estremista dei coloni adotta i metodi tipici dei gruppi terroristici di tutto il mondo", affermano i due autori dell’articolo.
Posizione che assume un carattere ufficiale nei Country Reports on Terrorism 2011pubblicati qualche giorno fa.
Si tratta di un insieme di documenti ufficiali diffusi annualmente dal Dipartimento di Stato americano, nel quale tre attacchi dei coloni (avvenuti nel 2011) sono classificati sotto la categoria "incidenti terroristici", insieme ad altri episodi commessi dai palestinesi.
Di terrorismo si era parlato in passato, come ricordato proprio da Byman e Sachs, quando all’interno delle colonie agiva il Gush Emunim – Blocco della fede, ndr -, un riconosciuto movimento politico-religioso che aspirava alla realizzazione dell’obbligo divino di conquistare 'Eretz Israel' (la terra di Israele), comprendente tutto il territorio promesso della tradizione ebraica, quindi anche la Cisgiordania, quella che i coloni chiamano con i nomi biblici di 'Giudea e Samaria'.
Un altro gruppo molto attivo nelle colonie, considerato dagli stessi Stati Uniti un’organizzazione terroristica, era il Kach, fondato dal celebre rabbino Meir Kahane e da cui proveniva Baruch Goldstein, che il 25 febbraio 1994 entrò nella Moschea di Abramo e sparò all’impazzata uccidendo 29 palestinesi e ferendone altri 129.
Entrambi i gruppi erano portatori di un’ideologia, che tutt’ora anima alcuni ambienti ultraortodossi, secondo cui non c’è posto per gli arabi nella Terra Promessa.
Tuttavia, per quanto i loro atti fossero deplorevoli e radicali, essi mantenevano un rapporto di collaborazione e cooperazione con le autorità israeliane, credendo che i loro obiettivi politici fossero raggiungibili attraverso lo stato.
SE È LA 'MINACCIA' È INTERNA
Nel corso degli ultimi anni la comunità delle colonie è cambiata notevolmente. Non solo a livello numerico, arrivando a raggiungere una popolazione di circa 350.000 abitanti (che supera 500.000 includendo gli insediamenti di Gerusalemme Est), ma anche a livello ideologico.
Molti israeliani scelgono infatti di andare a vivere nei Territori Occupati perché per loro rappresenta un'opportunità economica: comprare una casa in queste aree costa di meno grazie agli incentivi governativi.
"Alcuni preferirebbero evitare di occupare la terra di altri e sono pronti ad accettare forme di compensazione adeguate dal governo in caso di un accordo di pace", sottolineano ancora Byman e Sachs, convinti inoltre che questa evoluzione della comunità dei coloni e la sua conseguente frammentazione ideologica abbia determinato la nascita di un piccolo ma significativo gruppo di giovani estremisti, conosciuti come gli 'hilltop youth' (la gioventù delle colline, ndr), che mostrano poca, se non alcuna, deferenza nei confronti dell’autorità, che si tratti del governo centrale o della leadership delle colonie.
A tal proposito, recentemente il presidente dello Yesha Council, il forum politico che rappresenta le municipalità di tutti gli insediamenti, Dani Dayan, ha denunciato "il terribile e vergognoso fenomeno di israeliani mascherati che vanno in giro con pietre e fionde", rimproverando la stessa comunità delle colonie per "non aver fatto abbastanza per contrastarlo":
"Sono la maggiore minaccia per tutta la comunità", ha affermato Dayan.
Questi giovani radicali – circa 2.000 – sono coloro che portano avanti gli attacchi di tipo 'price tag' e per i quali l’esercito e lo Stato possono essere considerati, all’occorrenza, dei nemici di rango pari ai palestinesi.
Per Dayan "hanno perso fiducia nell’idea che sia lo Stato il mezzo per ottenere l'Eretz Israel" e lo vedono come un "ostacolo al volere divino".
Va però ricordato che raramente i responsabili degli attacchi ricevono una pena adeguata, oltre al fatto che vengono giudicati da corti civili contrariamente ai palestinesi, per i quali è prevista la giurisdizione militare.
Dal 2005 su 781 capi d’accusa contro i coloni, il 90% dei casi si è concluso con un nulla di fatto: "E' il governo che deve intervenire, per dimostrare che ha la capacità di far rispettare la legge, che deve essere garantita ed uguale per tutti", si legge ancora nell’articolo di Foreign Affairs.
"Israele deve adottare un atteggiamento esemplare per prevenire e reprimere tali atti di terrorismo in previsione di un graduale reintegro degli abitanti degli insediamenti all’interno del suo territorio. Ciò si potrà rivelare molto complesso, ma è l’unica strada nell’ottica di una pace con i palestinesi".
E qualche timido segnale positivo da parte di Tel Aviv sembra intravedersi.
Per esempio, lo scorso dicembre, il ministro della Difesa Barak ha utilizzato il termine ‘terrorismo’ per descrivere un attacco condotto dai coloni contro una base dell’esercito. Così come nell’ultimo anno la Corte Suprema israeliana ha emesso diverse sentenze in favore dello smantellamenti di villaggi costruiti abusivamente sul suolo palestinese, come nel caso di Ulpana e Migron.
27 agosto 2012
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