VIK: UNA SENTENZA GIA’ SCRITTA di GILBERTO PAGANI*


  Gaza, 29 settembre 2011, Nena News – Giovedì 22 settembre, dopo alcune traversie e un viaggio abbastanza avventuroso, sono a Gaza. Il processo inizia alle 10. Per arrivare alla Military Permanent Court costeggiamo la spiaggia e il campo profughi «Beach Camp», dove abita il presidente del governo di Gaza.
L’aula è piccola, sporca , spoglia. Nessuna scritta nessun simbolo politico o religioso. Lo scranno del Tribunale è molto sopraelevato, per il pubblico ci sono delle panchette, le persone presenti sono una trentina, molti gli italiani. I banchi dell’accusa e della difesa sono uno di fronte all’altro, la cattedra della Corte è perpendicolare a loro; il banco dei testimoni è di fronte ai giudici, il teste volta le spalle ad avvocati e pubblico.
Sulla destra la gabbia, nella quale vengono fatti entrare i quattro imputati.
Un militare in tuta mimetica, barbuto come tutti, ricopre la funzione di usciere, è lui che batte con forza il palmo della mano sul banco dei testimoni e lancia un urlo, entra la Corte. Il presidente della Corte avrà circa 30 anni, così come i giudici a latere, il Pm e i suoi assistenti. Tutti vestono camicie militari senza alcun distintivo o grado.
I quattro avvocati portano la toga sopra camicia e cravatta. Sono svogliati, uno di loro durante il processo (un processo per omicidio!) si assopisce, il controesame del testimone e degli imputati è di pura facciata. Mi dicono che gli avvocati sono sconosciuti, con poca esperienza.
L’udienza è brevissima, viene interrogato un agente che conferma i filmati con le confessioni degli imputati. Poi a turno gli imputati vengono interrogati dalla Corte. Uno è accusato di aver aiutato gli assassini, gli altri tre di sequestro di persona e omicidio; questi ultimi si riconoscono nelle immagini che vengono mostrate solo a loro e non al pubblico ma affermano che le confessioni sono state estorte con vessazioni e minacce.
Gli imputati appaiono spauriti e inoffensivi, sono vestiti con jeans e t-shirts, barba; non hanno l’aria dei terroristi e neppure degli imputati di terrorismo islamico che in Italia ho potuto osservare nei processi.
Viene reintrodotto l’agente, che nega ci siano state pressioni. Le dichiarazioni filmate sono state confermate anche in verbali scritti firmati dagli imputati. Nel frattempo l’usciere redarguisce aspramente quelli tra il pubblico che accavallano le gambe (mi dicono che qui sia una forma di maleducazione) e ne allontana uno (non capisco perché) che esce senza fare una piega.
Di nuovo un colpo sul banco e un urlo da parte dell’usciere: l’udienza è rinviata al 3 ottobre per ascoltare il medico legale che oggi non si è presentato.
Alla fine di questa udienza vado a incontrare il Procuratore militare, nel suo ufficio. Gli pongo tre domande: possiamo accedere agli atti delle indagini? «L’inchiesta è militare, il processo è pubblico, venite al processo e saprete quel che c’è da sapere». Sono state fatte indagini sulla morte di due sospettati in un conflitto a fuoco con la polizia? «Un’inchiesta della polizia ha appurato che tutte le regole sono state rispettate, per altre informazioni potete leggere quel che è stato scritto dalla stampa». La Procura chiederà la pena di morte per i colpevoli? «La punizione prevista dalle nostre leggi in questo caso è la pena di morte».
Sono assolutamente stranito. Mi aspettavo una procedura da Corte militare, rapida, forse spietata, comunque finalizzata a cercare una ricostruzione dei fatti, se non la verità, che sia la base per una decisione. Assisto a un processo in cui i tempi sono dilatati senza ragione, la Procura imprecisa e svogliata, gli avvocati assenti, l’interesse pubblico nullo, la Corte inutilmente autoritaria.
Non è plausibile che in una situazione (anche territoriale) come questa il medico legale non si presenti per quello che è il primo atto di un processo per omicidio, cioè illustrare le cause della morte di una persona.
Il processo si basa sulle confessioni, ma nulla viene detto sulle indagini che hanno portato all’individuazione degli imputati, come si sia arrivati alla casa dove gli accusati si erano rifugiati, come si sia svolta l’azione della polizia, quale sia stato il ruolo dei due presunti assassini uccisi durante l’azione. E soprattutto: perchè proprio Vittorio è stato rapito e perchè è stato ucciso. Queste domande elementari non avranno spazio nel processo.
La famiglia di Vittorio, come tutti noi, vuole, oltre alla punizione dei colpevoli, che venga chiarita la verità. Queste domande legittime sono considerate con stupore, quasi con fastidio.
Il ragionamento che le autorità non fanno esplicitamente, ma che si può percepire è: ve ne abbiamo già uccisi due, altri tre forse li impiccheremo, non vi basta? Avete avuto la vostra vendetta, volete anche la verità?
Non ho dubbi che se avessimo avuto la possibilità di costituirci parte civile (nel codice militare introdotto da Hamas non è prevista la parte civile) ed avere quindi un ruolo nel processo i miei colleghi palestinesi avrebbero saputo smontare le falle e le omissioni dell’inchiesta, pur sapendo che la loro posizione già adesso è molto scomoda, per usare un eufemismo.
Prevedo un verdetto di colpevolezza, in quanto non appare realistico che la Corte smentisca le indagini segrete della security e della polizia e ritenga non utilizzabili le confessioni perché estorte. Equivarrebbe a smentire le autorità, in un paese dove il principio della divisione dei poteri non mi sembra abbia una rilevanza particolare.
Ho incontrato persone di fiducia delle famiglie degli imputati che chiedono alla famiglia di Vittorio tramite me di impedire che i loro figli vengano condannati a morte.
La famiglia di Vittorio è ovviamente contraria alla pena di morte e non può accettare che ad una tragedia si assommi un’altra tragedia, per cui farà tutti i passi necessari in questa direzione.
La mia richiesta a queste persone, che non costituisce una contropartita in cambio della loro vita, è stata che essi dicano la verità. Salvare la vita di queste persone, spezzare la logica di violenza e di odio, sarà il più grande lascito di Vittorio, per continuare il suo impegno per cui a Gaza è ricordato con affetto e commozione.
*Avvocato della famiglia Arrigoni. Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre sul quotidiano Il Manifesto.

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