Sternhell: il socialismo tradito da Israele


i kibbutz servirono soprattutto a conquistare il territorio D i recente hai scritto un importante lavoro sulla nascita dello Stato israeliano «Nascita d' Israele. Miti, storia, contraddizioni». Come è nato? E come si collega con gli altri tuoi lavori? «Qui c' è un aspetto autobiografico. Quando giunsi in Israele, nel 1951, sentivo sempre parlare di socialismo israeliano. Ma non capivo di che socialismo si trattasse. Non capivo il concetto di comunità di lavoro. Quando andavo a scuola vedevo i contadini della comunità di Magdiel (una delle prime quattro comunità di lavoro ebraiche, moshavot, fondate nel 1924) che andavano a lavorare molto presto alla mattina. Poi, oltre ai contadini proprietari, c' erano anche dei lavoratori salariati che lavoravano altrettanto duramente ma non erano considerati sullo stesso piano. Io non capivo la differenza tra questi due gruppi. Il punto è che il kibbutz originariamente era stato concepito anche come un' entità politica dove realizzare gli ideali socialisti. Infatti, quando dopo la guerra arrivarono nuove ondate di immigrati, nei kibbutz si discuteva sull' importanza del lavoro indipendente, senza assumere forza lavoro dall' esterno. Eppure, al di là della fedeltà al principio teorico-ideologico socialista del non-sfruttamento, c' era la necessità di dar lavoro ai nuovi arrivati. Inoltre, il lavoro è un grande fattore di integrazione. «Nel mio lavoro, che copre il periodo dal 1905 - inizio della seconda immigrazione sionista - al 1948 - fondazione dello Stato di Israele - analizzo le vicende della Confederazione del lavoro, l' Histadrut e poi del partito laburista, il Mapai. Entrambi parlavano di socialismo: ma che tipo di socialismo avevano in mente? Il socialismo era nel kibbutz, che voleva essere una società socialista esemplare. Ma fuori, la società non era diversa da quella borghese; in più, era anche povera. «Il mio interrogativo centrale si rivolgeva al rapporto tra socialismo e nazionalismo. Da un lato volevano costruire una società ebraica che avrebbe potuto costituirsi come Stato, e dall' altro volevano costruire una società giusta, egualitaria e democratica. Ma non riuscirono a mantenere un equilibrio tra i principi del nazionalismo che sono particolari e quelli del socialismo che sono universali. La costruzione dello Stato e la conquista dell' indipendenza si scontrarono con i principi del socialismo. Aaron David Gordon, il pensatore sionista e protosocialista di inizio secolo, diede un significato classico della nazione seguendo l' impostazione organicista e nazionalista. Per Gordon è la nazione che crea l' individuo, la cultura e il linguaggio. Intervenendo dal proprio kibbutz, Degania, il primo ad essere fondato, Gordon sosteneva che i lavoratori ebrei vogliono unirsi con gli ebrei borghesi, e non con i lavoratori di un altro Paese. Non pensava di modificare l' ordine sociale esistente. Non c' era alcuna intenzione di rompere con il capitalismo. «La lotta di classe non era prevista mentre, al contrario, la cooperazione tra le classi era considerata necessaria per la costruzione della nazione. E infatti, negli anni Venti e Trenta si stringe un' alleanza tra il partito socialista e la borghesia. I sindacati non lottano per un mutamento sociale e, in sostanza, accettano il capitalismo, mentre la borghesia «rinuncia» a esercitare direttamente il potere politico lasciando spazio ai laburisti. Ad esempio, Ben Gurion fin dall' inizio degli anni Trenta cerca di eliminare le scuole operaie gestite dall' Histadrut (ci riuscirà completamente solo negli anni Cinquanta). I sostenitori del progetto "nuova educazione", tutti giovani immigrati dall' Urss, volevano scardinare l' impostazione esistente e creare una educazione libera che forgiasse bambini autonomi e consapevoli. Costoro vennero emarginati e indirizzati in kibbutz dove potevano mettere in atto i loro esperimenti»Ma che interpretazione dai del kibbutz?«Pensiamo a 200 giovani donne e uomini che sbarcano da una nave a Jaffa o ad Haifa e si disperdono nel Paese. Queste persone, quando fondano un kibbutz e prendono possesso della terra, diventano un vero e proprio corpo combattente. Il kibbutz diviene una postazione militare. Moltiplichiamo questi 200 per 10, 15 o 20 e si ha il controllo della Galilea, della Valle del Giordano e di altre aree strategiche. In realtà il kibbutz fu uno strumento per la conquista del territorio e la nascita del Paese; non fu uno strumento per il cambiamento dell' ordine sociale. L' unico tentativo per riprodurre il kibbutz fu quello del "battaglione del lavoro" che però venne presto eliminato da Ben Gurion, il quale voleva mantenere il ruolo centrale dell' Histadrut. Un altro progetto egualitario fallì quasi subito. «Negli anni Trenta, quando la situazione economica migliorò, venne introdotto il salario famigliare per finanziare soprattutto le spese mediche e di istruzione. Quest' idea egualitaria venne però abolita poco dopo la nascita di Israele. E questo comportò anche l' abbandono di ogni ipotesi di modifica del sistema capitalistico. Allo stesso tempo si rinunciò anche all' idea di una cooperazione tra i lavoratori arabi e quelli ebrei. Questo problema creava una forte conflittualità tra i vecchi insediamenti ebraici in Galilea, che impiegavano forza lavoro araba, e quelli nuovi, della quarta immigrazione, che impiegavano solo manodopera ebraica. I leader sindacali rinunciarono presto all' egualitarismo perché questo confliggeva con gli interessi nazionali. Il socialismo era concepito per favorire la costruzione dello Stato e della nazione. Il sindacato si identificava con i lavoratori ebraici della terra di Israele e quindi la collaborazione con gli arabi era praticamente inconcepibile. Del resto, nel 1922, lo stesso Ben Gurion disse che erano arrivati in Palestina non per organizzare qualcuno ma per conquistare la terra». Come vedi il futuro dello Stato di Israele? «Nella mia opinione l' acquisizione e occupazione delle terre fino al 1948 fu legittima in quanto necessaria: era una questione di sopravvivenza. Gli ebrei avevano bisogno di un pezzo di terra in cui vivere. Del resto nessuno li voleva. Dopo la Seconda guerra mondiale c' erano 300 mila rifugiati ebrei che non sapevano dove andare. Per questo non ho mai avuto nessun dubbio sulla legittimità del sionismo fino alla nascita dello Stato di Israele; per questo penso che tutto quello che è stato fatto fino al 1949 fosse giusto, nonostante la Nakbah e l' espulsione degli arabi-palestinesi: era un' esigenza vitale. Ma allo stesso tempo credo che tutto quello che è stato fatto dopo il 1967 non sia stato né legittimo né giusto, perché non riguardava alcun interesse vitale. «Tra il 1949 e il 1967 fu chiaro che tutti gli obiettivi del sionismo potevano essere raggiunti all' interno dei confini di allora (la Linea Verde). In precedenza, invece, vi era stata una situazione di guerra più o meno continua tra ebrei e arabi. Gli insediamenti impiantatisi al di là della Linea Verde dopo il 1967 sono la più grande catastrofe nella storia del sionismo, perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quella situazione che il sionismo voleva evitare. La divisione tra lavoratori arabi ed ebrei lastricava la strada verso il colonialismo, e questo fu chiaro dopo il 1967. Pur tenendo conto di tutti i disagi inflitti agli arabi-palestinesi il sionismo salvò più di mezzo milione di ebrei che, se non avessero abbandonato l' Europa, non sarebbero sopravvissuti. Il sionismo però, a mio avviso, si fonda sui diritti naturali dei popoli all' autodeterminazione e all' autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l' esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. «Tutto ciò deve essere messo in pratica e richiede una visione liberale della nazione che non si è mai realizzata praticamente da nessuna parte. I diritti nazionali sono un' estensione dei diritti individuali e per questo sono universali: i diritti degli israeliani non sono differenti da quelli dei palestinesi. Per questa ragione gli insediamenti devono fermarsi e l' unica soluzione logica sia per gli ebrei sia per gli arabi è quella di due Paesi per due popoli. L' ipotesi di un unico Stato non solo porta all' eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe o al colonialismo o alla eliminazione di Israele in uno Stato binazionale»

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