La carica dei rabbini Usa contro i coloni di Eretz Israel di Umberto De Giovannangeli
La loro voce è di quelle che contano. Negli Stati Uniti e non solo. Talmente forte, quella voce, di arrivare fino a Tel Aviv e nei palazzi del potere israeliani. In risposta all'assalto con lancio di pietre contro un villaggio palestinese nelle colline di Hebron Sud all'inizio di questa settimana, che ha lasciato più di una dozzina di palestinesi gravemente feriti, tra cui un bambino di tre anni, T'ruah, un'organizzazione rabbinica per i diritti umani che rappresenta oltre 2.300 rabbini e cantori e le loro comunità in Nord America, ha espresso sdegno e ha chiesto al governo israeliano di avviare immediatamente un'indagine completa per rendere giustizia alle persone attaccate.
Rabbini contro
Il rabbino Jill Jacobs, Ceo di T'ruah, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
"Siamo inorriditi da questo disgustoso attacco a Khirbet al-Mufkara da parte di coloni estremisti, che hanno distrutto case e ferito più palestinesi, tra cui un bambino che è stato ricoverato in ospedale con una ferita alla testa. Questo incidente non è un attacco isolato. Dall'inizio dell'anno al 20 settembre, le Nazioni Unite hanno documentato 333 attacchi di coloni contro palestinesi della Cisgiordania, 93 dei quali hanno provocato feriti. Come abbiamo visto nei video degli attacchi di questa settimana, l'esercito sta regolarmente a guardare e si astiene dall'arrestare o fermare gli israeliani che compiono tali violenze, mentre i palestinesi e i difensori dei diritti umani israeliani sono spesso arrestati su ordine dei coloni.
"Ho osservato personalmente i coloni di questi avamposti minacciare gli attivisti israeliani per i diritti umani e i loro ospiti. Quando si tratta di palestinesi, questi estremisti non esercitano alcun ritegno ma si sentono autorizzati a compiere attacchi violenti contro adulti e bambini.
"È particolarmente offensivo che questo attacco abbia avuto luogo durante Shemini Atzeret/Simchat Torah (secondo il calendario delle festività israeliane), la celebrazione annuale della Torah, che la nostra tradizione vede come una forza che dà vita e un simbolo di amorevolezza, purezza e grazia. Nonostante le loro affermazioni di essere spinti da impegni religiosi, questi coloni hanno profanato uno dei giorni più sacri dell'anno ebraico per compiere violenze contro i palestinesi. Gli aggressori che hanno compiuto un pogrom in questo giorno hanno violato la Torah e portato vergogna a Israele e al popolo ebraico.
"Accogliamo con favore quanto affermato dal ministro degli Esteri Yair Lapid che etichetta questo incidente come un attacco terroristico. Ma Lapid deve anche agire, sia contro questi autori che contro altri che compiono violenze quasi quotidianamente contro i palestinesi e le loro proprietà. Israele deve lanciare immediatamente un'indagine completa per identificare e arrestare tutte le dozzine di colpevoli coinvolti e assicurarsi che siano assicurati alla giustizia, cambiare la politica dell'esercito in modo che i soldati non stiano più in disparte a guardare questi attacchi, e smantellare avamposti come Havat Maon, dove vivono alcuni degli aggressori, e che sono illegali anche secondo la legge israeliana. La continua mancanza di ripercussioni per gli estremisti israeliani coinvolti in attacchi violenti, insieme al rifiuto di smantellare gli avamposti illegali anche mentre si demoliscono regolarmente le case palestinesi costruite senza permesso, testimonia la politica pro-insediamento e anti-pace del governo israeliano, che premia la violenza, mentre viola anche i diritti umani e minaccia la sicurezza dei palestinesi.
"I rabbini e i cantori di T'ruah continueranno ad essere voci morali impegnate nella difesa dei diritti umani sia per gli israeliani che per i palestinesi. Continuiamo a stare dalla parte delle comunità palestinesi minacciate dalla violenza dei coloni, dagli ordini di sfratto e dalle demolizioni delle case, e stiamo anche dalla parte dei nostri partner israeliani - le organizzazioni dei diritti umani e della società civile che lavorano per garantire i diritti umani sia dei palestinesi che degli israeliani."
Così il rabbino Jacobs.
Lo “Stato” dei coloni
Settecentocinquantamila abitanti. Centocinquanta insediamenti. Centodiciannove avamposti. Il 42 per cento della West Bank controllato. L’86 per cento di Gerusalemme Est “colonizzata”. Uno Stato nello Stato. Dominato da una destra militante, fortemente aggressiva, ideologicamente motivata dalla convinzione di essere espressione dei nuovi eroi di Eretz Israel, i pionieri della Grande Israele. Quella che si svela è una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono già: c’è lo Stato ufficiale, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto”, consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato” dei coloni in Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank).
A dar conto della dimensione di questo “Stato” sono i dati di un recente rapporto di B’tselem (l’ong pacifista israeliana che monitorizza la situazione nei Territori). Lo Stato “di fatto” ha le sue leggi, non scritte, ma che scandiscono la quotidianità di oltre 750mila coloni.
Lo “Stato di Giudea e Samaria” è armato e si difende e spesso si fa giustizia da sé contro i “terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con l’intera popolazione della Cisgiordania. Molti attacchi contro i palestinesi sono stati registrati nelle aree di Ramallah e Nablus (Cisgiordania occupata). In particolare, nella zona vicina agli avamposti della Valle Shiloh e in quella in prossimità degli insediamenti israeliani di Yitzhar (Nablus) e Amona (Ramallah), quest’ultimo da poco evacuato dal governo israeliano. Nel villaggio di Yasuf (governatorato di Salfit), i residenti palestinesi si sono svegliati con i pneumatici di 24 auto bucati e alcune scritte razziste in ebraico (“Morte agli arabi” tra le più diffuse) lasciate sulle loro abitazioni. Sono i cosiddetti “price-tag” (tag mechir in ebraico) ovvero gli atti di ritorsione (il “prezzo da pagare”) compiuti dagli attivisti di destra e coloni israeliani contro i palestinesi in risposta ad un attacco da parte di quest’ultimi.
Citando ufficiali della difesa, Haaretz scrive che gli attivisti di destra più estremisti sono “i giovani delle colline”, molti dei quali vivono negli avamposti illegali della Cisgiordania e il cui numero è stimato intorno alle trecento unità. Un dato interessante è che la maggior parte dei responsabili delle violenze è giovanissima (tra i quindici e i sedici anni). Nel 1997, a un anno dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, c’erano circa 150.000 coloni in Cisgiordania. Due decenni dopo il numero dei coloni è vicino ai 600.000, esclusi i quartieri di Gerusalemme est oltre la Linea Verde. Questi dati non includono i coloni che vivevano negli avamposti illegali (complessivamente si superano i 750.000).
Il “cuore” ideologico dello “Stato” dei coloni è a Hebron.
Le categorie della politica non possono, da sole, spiegare perché ottocento coloni siano disposti a vivere blindati, e sfidare duecentomila palestinesi. Perché a spiegarlo è altro: è l’essere convinti che quella presenza ha una valenza messianica, perché qui, ti dicono, è stato incoronato Davide, perché questa è “Eretz Israel”, la Sacra Terra d’Israele, e abbandonare il campo significherebbe tradire Dio, la Torah, il popolo eletto. Hebron racconta di una bramosia di possesso assoluto che esclude l’altro da sé, ne cancella storia e identità, in nome di una “Fede” che non ammette compromessi.. Nello “Stato dei coloni” non c’è partita: qui non c’è spazio per pacifisti, sinistri e sionisti. Qui il sionismo è morto.
La denuncia di Hrw
“Un rapporto pubblicato da Human Rights – scrive Michela Perathoner inviata di Unimondo in Palestina- dimostra con chiarezza la discriminazione perpetrata da Israele nei confronti della popolazione palestinese. ‘I bambini palestinesi che vivono in aree sotto controllo israeliano studiano a lume di candela, mentre vedono la luce elettrica attraverso le finestre dei colonii, dichiara a tale proposito Carroll Bogert, vice-direttore esecutivo per le relazioni esterne di Human Rights Watch.
Il rapporto Separati ed ineguali, ultimo di una serie di documenti pubblicati dall’organizzazione per la tutela dei diritti umani sulla questione palestinese, identifica pratiche discriminatorie nei confronti dei residenti palestinesi rispetto alle politiche che vengono invece promosse per i coloni ebrei. Un sistema di leggi, regole e servizi distinto per i due gruppi che abitano la Cisgiordania: in poche parole, secondo Human Rights Watch le colonie fiorirebbero, mentre i palestinesi, sotto controllo israeliano, vivrebbero non solo separati e in maniera ineguale rispetto ai loro vicini, ma a volte anche vittime di sfratti dalle proprie terre e case.
‘E’ assurdo affermare che privare ragazzini palestinesi dell’accesso all’istruzione, all’acqua o all’elettricità abbia qualcosa a che fare con la sicurezza’, spiega ancora Bogert. Perché il problema, come sempre, è la sicurezza, e le motivazioni indicate dal Governo israeliano qualora si parli di discriminazioni o trattamenti differenziati tra coloni e palestinesi residenti in Cisgiordania, vi vengono direttamente o indirettamente collegate.
Il rapporto, insomma, identifica pratiche discriminatorie che non avrebbero ragione di esistere neanche in base a questo genere di motivazioni. Come denunciato da Human Rights Watch, infatti, i palestinesi verrebbero trattati tutti come dei potenziali pericoli per la sicurezza pubblica, senza distinguere tra singoli individui che potrebbero rappresentare una minaccia effettiva e le altre persone appartenenti allo stesso gruppo etnico o nazionale. Atteggiamenti e politiche discriminatorie, insomma. ‘I palestinesi vengono sistematicamente discriminati semplicemente sulla base della loro razza, etnia o origine nazionale, vengono privati di elettricità, acqua, scuole e accesso alle strade, mentre i coloni ebrei che vi abitano affianco godono di tutti questi benefici garantiti dallo Stato’, ha dichiarato Bogert. Il risultato ottenuto dalle politiche discriminatorie di Israele, che secondo Hrw renderebbero le comunitá praticamente inabitabili, sarebbe, insomma, quello di forzare i residenti ad abbandonare i loro paesi e villaggi.
Secondo l’analisi realizzata da Human Rights Watch sia nell’area C che a Gerusalemme Est, la gestione israeliana prevederebbe in entrambe le zone generosi benefici fiscali e di supporto a livello di infrastrutture nei confronti dei coloni ebrei, mentre le condizioni per i locali palestinesi sarebbero tutt’altro che vantaggiose. Carenza di servizi primari, penalizzazione della crescita demografica, esproprio di terre, difficoltà amministrative per l’ottenimento di ogni genere di permessi: vere e proprie violazioni dei diritti umani, in quanto si tratterebbe di discriminazioni effettuate solo ed esclusivamente sulla base di un’appartenenza razziale ed etnica. Tutte misure che, secondo quanto denunciato da Human Rights Watch, avrebbe limitato, negli ultimi anni, l’espansione delle comunità palestinesi e peggiorato le condizioni di vita dei residenti”.
Così l’inviata di Unimondo.
La denuncia di Save the Children
IL REPORT “IL PERICOLO È LA NOSTRA REALTÀ”
Nel report Il pericolo è la nostra realtà, Save the Childrem ha raccolto le testimonianze di oltre 400 bambini delle comunità più colpite dal conflitto in Cisgiordania e gli attacchi più comuni segnalati dagli studenti consistono nell'uso di gas lacrimogeni e nelle incursioni militari.
In particolare, 3 studenti su 4 hanno riferito che le loro scuole sono state attaccate, una percentuale che sale al 93% per i bambini e i ragazzi di Nablus. Tre bambini su 4, inoltre, hanno paura di incontrare militari o coloni mentre vanno a scuola e temono di essere insultati o minacciati con gas lacrimogeni o aggressioni fisiche. Uno studente su 4, ancora, non si sente al sicuro quando è a scuola e molti soffrono di ansia e stress che si manifestano attraverso sintomi fisici come tremori incontrollabili e svenimenti oppure perdita di autostima e paura. Quasi un terzo dei bambini ha poi raccontato di avere difficoltà a concentrarsi in classe a causa delle situazioni che si trovano ad affrontare quotidianamente e, tra questi, 8 su 10 hanno detto che sullo svolgimento delle loro attività in classe incide fortemente la paura.
Alcuni studenti hanno iniziato a piangere e altri stavano soffocando quando i soldati hanno sparato i gas lacrimogeni. Non riuscivamo a respirare, anche a causa della paura e dell’ansia che provavamo. C'era un odore di gas e ci bruciavano gli occhi. A scuola non eravamo equipaggiati per affrontare una simile esperienza. È stato doloroso e ho avuto molta paura, è la testimonianza di Rima*, 13 anni, che ha ricordato l’attacco contro la sua scuola a Betlemme.
"I soldati hanno attaccato la mia scuola tre o quattro volte l'anno scorso. Hanno gettato lacrimogeni e sparato munizioni vere. Alcuni insegnanti e studenti non riuscivano a respirare, è arrivata l'ambulanza e siamo andati tutti a casa", ha raccontato Farea*, 12 anni, di Hebron.
Questa è la “normalità” nei Territori occupati. Una “normalità” che fa orrore. Raccontarla è un dovere. Cancellarla è un crimine. Anche mediatico.
(*nomi di fantasia per tutelare l’identità dei bambini intervistati).
Approfondimento
Commenti
Posta un commento