Naftali Kaminski Le guerre nei campus USA. Un’ignobile campagna per sfruttare l’antisemitismo e reprimere le voci filo-palestinesi

 


Tutte le reazion dicembre 2023 – Haaretz




In quanto docente di Yale e israeliano figlio di sopravvissuti all’Olocausto, temo l’aumento dell’antisemitismo negli USA. Ma il furore orchestrato contro le rettrici delle università sta prendendo di mira i discorsi filo-palestinesi, non l’antisemitismo – ed è alimentato da una sinistra coalizione di fanatici antidemocratici.

Nella valanga di denunce, editoriali e post sulle reti sociali dopo le testimonianze al Congresso delle rettrici di tre prestigiose università, le successive dimissioni della rettrice dell’università della Pennsylvania Elizabeth MaGill e la risoluzione senza precedenti del Congresso che chiede alle rettrici di Harvard Claudine Gay e del MIT Sally Kornbluth di fare altrettanto, inizia ad emergere un quadro che mi ricorda minacciosamente una poesia letta quando ero ragazzino in Israele.

Scritta nel 1943 da Nathan Alterman, uno dei poeti israeliani più amati, la poesia utilizza l’affermazione del filosofo greco Archimede sulla legge della leva, “Datemi un punto di appoggio e solleverò la terra”, come metafora del ruolo dell’antisemitismo in politica. Egli suggerisce che demagoghi e tiranni usino l’antisemitismo come ultimo “punto di Archimede”, un punto d’appoggio che consente loro di raggiungere i propri obiettivi più indegni.

Penso che ciò sia quello a cui stiamo assistendo, ma ora il punto di appoggio di Archimede è l’affermazione secondo cui le rettrici universitarie “non stanno facendo abbastanza riguardo all’antisemitismo”. Viene utilizzato con l’immediata intenzione di reprimere le voci a favore dei palestinesi, così come con lo strategico e, come ora è stato detto più esplicitamente, vergognoso intento di lungo corso di tornare indietro rispetto ai progressi verso la diversità, l’equità e l’inclusione nelle università americane.

Sono consapevole che si tratta di una dichiarazione di vasta portata. In quanto israeliano, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, la storia della mia famiglia è di oppressione, discriminazione e genocidio. Prima di arrivare a Yale, i miei familiari hanno vissuto a Pittsburgh e facevano parte della congregazione Tree of Life [Albero della Vita], luogo dell’attacco più letale da sempre contro ebrei sul territorio statunitense.

Le atrocità di Hamas il 7 ottobre hanno prodotto timori e pensieri che non avrei mai creduto di provare. Ho trovato deprecabili le manifestazioni di appoggio o i tentativi di minimizzarle. Temo l’aumento di antisemitismo negli USA e credo che dovrebbe essere combattuto. Ho anche la sensazione che l’attuale furia contro le rettrici di istituzioni d’élite non stia prendendo di mira l’antisemitismo. E questa sensazione è segnata dalla mia stessa esperienza negli ultimi mesi.

Quando mi sono svegliato quella maledetta mattina di ottobre e ho sentito degli attacchi di Hamas sono stato immediatamente intrappolato in un flusso di comunicazioni, in quanto ho affannosamente cercato di confermare che amici e familiari in Israele stessero bene, per offrire aiuto, simpatia, raccapriccio e sostegno.

Ma poi ho ricevuto un diverso tipo di messaggio. Era di un docente ebreo americano di Yale. Non c’era alcuna espressione di preoccupazione o empatia, nessun tentativo di sapere se io o i miei amici o familiari stessimo bene. Invece parlava di “antisemiti a Yale” e chiedeva che “agissimo preventivamente” per “mettere in guardia” i dirigenti di Yale. Il messaggio suggeriva una campagna con invio di lettere. Mi risultava evidente l’intenzione di contribuire a promuovere un’atmosfera che avrebbe etichettato come antisemita ogni manifestazione a favore dei palestinesi.

Quel messaggio e quelli che sono seguiti sono stati profondamente angoscianti per me. Era come se presumessero che il rettore di Yale, lui stesso ebreo e molto legato a Israele, non avrebbe fatto alcunché finché non fosse stato blandito e sollecitato. Non c’era alcuna manifestazione di preoccupazione riguardo a me o ad altri israeliani nel campus, salvo che con un’ottica: lottare contro la minaccia percepita di antisemitismo utilizzando gli orrori per ottenere risultati dal punto di vista ideologico.

Nei giorni seguenti, mentre le incommensurabili dimensioni delle atrocità di Hamas venivano alla luce, la mia attenzione era concentrata sulle sofferenze e le uccisioni nella regione. Ho aiutato l’Ufficio per la Diversità, l’Equità e l’Inclusione della Scuola di Medicina di Yale a organizzare un evento di solidarietà in cui membri israeliani della comunità di Yale con familiari o amici vittime degli attacchi del 7 ottobre ne parlassero e condividessero la loro esperienza. L’evento è stato pubblicizzato e sostenuto dalla dirigenza, che vi ha anche partecipato.

Nei giorni successive sono stato impegnato in un giro di lezioni già previsto, cinque conferenze in dieci giorni in diverse istituzioni e luoghi di incontro. Sentivo di non poter parlare solo di scienza e medicina e ho deciso di iniziare ogni conferenza presentandomi come ebreo israeliano e dicendo: “Sono rimasto scioccato e infuriato dalle atrocità commesse la scorsa settimana nel sud di Israele, e sono anche profondamente preoccupato e orripilato dalla continua violenza e dalle minacce immensamente aumentate per i civili nella regione. Spero e prego che la violenza finisca, che gli ostaggi vengano liberati, le minacce per i civili finiscano e che tutta le persone della regione, indipendentemente dall’identità etnica o religiosa, possano finalmente vivere in pace, libertà e dignità.” Questa dichiarazione è stata accolta ovunque con applausi praticamente da tutti.

Nel contempo a Yale ci sono state manifestazioni filo-palestinesi, veglie filo-israeliane, così come eventi educativi. Non ho partecipato alla maggior parte di essi, e se l’avessi fatto probabilmente non sarei stato d’accordo con tutto quello che vi è stato detto, ma dubito che mi sarei sentito in pericolo. In effetti, nonostante i tentativi di alcuni provocatori, gli eventi sono stati decisamente non-violenti. Un venerdì, in piazza Beinecke a Yale, ci sono stati tre eventi contrapposti, tra cui una veglia per l’umanità di israeliani e palestinesi, a cui hanno partecipato israeliani e palestinesi del campus, ma non ci sono stati conflitti o litigi. Non ci sono stati appelli al genocidio o minacce di violenza.

Durante una partita di football [americano] tra Yale e Harvard stavo andando a sedermi quando è scoppiata una protesta filo-palestinese. Gli studenti hanno sventolato bandiere, scandito i loro slogan, ma non c’era una sensazione di minaccia. Non c’è stato alcun appello al genocidio degli ebrei. Qualcuno tra la folla ha insultato i manifestanti e uno gli ha persino sputato contro, ma loro non hanno reagito e la protesta è finita con gli studenti contrari che se ne sono andati per protesta.

Quel giorno ho visto anche l’infame furgone che mostrava le foto di giovani studenti definiti i principali antisemiti ad Harvard o Yale. Ho pensato che si trattasse di un evidente e ignobile “tentativo di intimidire e attaccare” studenti, come ha detto il rettore di Yale.

Durante un dibattito sulle implicazioni per la salute pubblica della guerra tra Israele e Gaza alla Scuola di Salute Pubblica di Yale la discussione è stata concreta, professionale e sobria. Un disturbatore è stato rapidamente messo a tacere e il resto dell’evento è stato molto civile. Lo scorso sabato a New Haven un manifestante filo-palestinese ha per poco tempo appeso una bandiera palestinese su una Menorah di Hannukkah in un luogo pubblico. In seguito agli inviti di altri partecipanti alla protesta il dimostrante l’ha subito tolta. Questo avvenimento è stato accolto con la totale condanna da parte degli organizzatori della protesta, del rettore di Yale e dei politici locali, e come risposta in zona si sono tenute veglie.

Sulle reti sociali ho ricevuto innumerevoli manifestazioni di solidarietà da colleghi e amici, ebrei e musulmani, israeliani e palestinesi. Ho avuto qualche risposta antisemita, ma per lo più da risponditori automatici. Significativamente la maggior parte degli attacchi personali che ho subito sono stati di autoproclamati amici di Israele, persino miei colleghi, soprattutto quando ho manifestato sostegno al primo cessate il fuoco e rilascio di ostaggi, quando ho manifestato preoccupazione per il bilancio di civili di Gaza in seguito alla risposta di Israele o quando ho citato il fatto che i palestinesi in Cisgiordania sono bersaglio di un’ondata senza precedenti di violenti aggressioni da parte dei coloni ebrei.

Quando uno di questi conoscenti mi ha attaccato non mi sono tirato indietro e gli ho ricordato che, a differenza di lui, ho prestato servizio nell’esercito israeliano e come medico ho salvato la vita a israeliani. La discussione è finita lì, ma non ho potuto fare a meno di riflettere: se questo è il modo in cui sono stato trattato in quanto israeliano io, un docente universitario, come vengono trattati i palestinesi? Sono messi a tacere per timore di essere etichettati come antisemiti, per aver espresso la propria angoscia?

Non sto facendo questa digressione per smentire o minimizzare l’aumento dell’antisemitismo o minacce e isolamento che provano docenti, personale e studenti ebrei, ma per evidenziare come la mia stessa esperienza mi consente di comprendere che l’angoscia provata da studenti ebrei e dalle loro comunità sia stata utilizzata come arma per reprimere e delegittimare le voci filo-palestinesi.

Oltretutto, e peggio ancora, per alcuni gruppi questa è apparsa l’opportunità ideale per invertire i progressi che l’università americana ha fatto a favore di maggiore diversità, inclusione e equità. E ora questa coalizione di populisti, ricchi donatori, politici noti per essere nemici della scienza e della democrazia e altri fanatici sta febbrilmente sperando che il loro punto di Archimede gli darà un primo successo: il ribaltamento di uno dei più significativi risultati dell’eguaglianza delle donne nella recente vita accademica americana, obbligando alle dimissioni le rettrici di Penn, Harvard e MIT.

Vedere quell’audizione al Congresso è stato come rivivere le udienze pubbliche della Commissione del Camera per le Attività Antiamericane durante gli anni di McCarthy. Le rettrici hanno fatto dichiarazioni forti, hanno detto di essere rimaste scioccate per le atrocità di Hamas, hanno denunciato l’antisemitismo e descritto le iniziative prese nei campus. Ma quello che ne è seguito è stato un circo accuratamente orchestrato, con domande mirate intese a intrappolarle in risposte indifendibili. Agli occhi dell’opinione pubblica le cinque ore dell’audizione cristallizzate in 30 secondi di clip, diventate virali sulla base di travisamenti e mancanza di sfumature, hanno fatto sembrare le rettrici indecise e ambigue, mentre le loro precedenti dichiarazioni non lo erano state.

E quando ho visto la pubblica umiliazione di quelle donne incredibilmente competenti, una voce ha iniziato a risuonare nella mia testa, le parole dell’avvocato Joseph Welch a Joseph McCarthy: “Non ha il senso della decenza?”

Spero che la decisione di Harvard di mantenere al suo posto la rettrice Claudine Gay, nonostante la potente campagna e le false accuse contro di lei, verrà ricordata nello stesso modo in cui lo è ora l’affermazione di Joseph Welsh, un punto di svolta. Un momento in cui parli la ragione, venga rifiutato l’uso del giustificato timore per l’antisemitismo come punto di leva di Archimede e si consenta a tutti noi di concentrarci sul fare in modo che le nostre università e college siano più diversi, inclusivi e sicuri per tutti.

Naftali Kaminski è un medico ricercatore e docente di Medicina e Farmacologia presso la Scuola di Medicina all’università di Yale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

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