Settembre: la strage di Sabra e Shatila di Oriana Fallaci
Sabra e Shatila: La testimonianza di Oriana Fallaci
dal romanzo "Inshallah"
“Erano piombati alle nove d’un mercoledi’ sera, i falangisti di papà Gemayel,…E con la complicità degli israeliani, sempre lieti di soddisfare la loro inesauribile sete di vendetta, avevano circondato I due quartieri per bloccarne ogni via d’uscita. Una manovra cosi’ veloce, perfetta, che pochi avevano avuto il tempo di nascondersi o tentare la fuga. Poi, fieri della loro fede in Gesù Cristo e in San Marone e nella Madonna, protetti dai figli d’Abramo che gli illuminavano la strada coi riflettori, erano entrati nelle case. S’erano messi ad ammazzare i disgraziati che a quell’ora cenavano o guardavano la televisione o dormivano. Avevano continuato tutta la notte. E tutto il giorno seguente. E tutta la notte seguente, fino a venerdi mattina. Trentasei ore filate. Senza stancarsisenza fermarsi, senza che nessuno gli dicesse basta. Nessuno.Né gli israeliani, ovvio, né gli sciiti che abitavano negli edifici attigui e che dalle finestre vedevano bene l’obbrobrio. E fortunati gli uomini uccisi subito a raffiche di mitra o colpi di baionetta , fortunati I vecchisgozzati nel letto per risparmiare le munizioni. Le donne, prima di fucilarle o sgozzarle, le avevano violentate. Sodomizzati I loro corpi da dieci o venti stupratori per volta. I loro neonati, bersagli per il tirassegno all’arma bianca o da fuoco: intramontabile sport nel quale gli uomini, che si ritengono superiori alle bestie, hanno sempre eccelso e che da qualche secolo viene chiamato strage-di-Erode. Un ragazzo ferito era riuscito a scappare malgrado il blocco delle vie d’uscita e a rifugiarsi nel piccolo ospedale che tre medici svedesi gestivano di fronte a Shatila. Ma I soldati di Erode lo avevano raggiunto e liquidato mentre giaceva sul tavolo operatorio. Spintone al chirurgo che estrae la pallottola, revolverata alla tempia dell’infermiera palestinese che cerca di opporsi e via. All’alba di venerdi, stanchi di dare loro la caccia e ammazzarli uno a uno , avevano minato le case nelle cui cantine s’erano nascosti i superstiti. Quasi tutte le case di Chatila. Poi avevano lasciato il quartiere cantando spavalde canzoni di guerra e lasciandosi dietro un carnaio da film dell’orrore. Bambini di due o tre anni che ciondolavano dalle travi delle case esplose come polli spennati e appesi ai ganci di una macelleria. Neonati spiaccicati o tagliati in due, mamme intirizzite nell’inutile gesto di ripararli. Cadaveri seminudi di donne coi polsi legati e le natiche sozze di sperma e di sterco. Cataste di uomini fucilati e coperti di topi che gli mangiavano il naso, gli occhi, gli orecchi. Intere famiglie riverse sulle tavole apparecchiate, vecchi sgozzati nei letti rossi di sangue rappreso, e un fetore insopportabile. Il fetore della decomposizione accelerato dal caldo greve di settembre. Cinquecento morti, s’era detto all’inizio. Ma presto i cinquecento erano diventati seicento, i seicento erano diventati settecento, i settecento erano diventati ottocento, novecento, mille. C’erano voluti due bulldozer per scavare la fossa comune, quasi un giorno per buttarceli tutti…”
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