YUMNA PATEL : Gli analisti affermano che i palestinesi pagheranno il prezzo della "democrazia" israeliana

Traduzione e sintesi

Per 12 settimane, Israele è stato sommerso dalle proteste per le controverse “riforme” giudiziarie proposte dal governo di estrema destra del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. La revisione del sistema giudiziario mira ad attuare una serie di proposte di legge, tra cui quella di conferire al sistema legislativo il potere di annullare le decisioni della Corte Suprema, di privare la Corte della sua autorità di decidere sulle Leggi Fondamentali di Israele, che fungono da leggi costituzionali del Paese, e di conferire ai politici il potere ultimo di nominare i giudici della Corte. Città come Tel Aviv si sono fermate, con le strade invase da manifestanti decisi a interrompere ogni attività del Paese. Capi della polizia ed ex ministri si sono uniti ai cortei e decine di migliaia di manifestanti si sono scontrati con le forze di sicurezza davanti alla Knesset, il parlamento israeliano. Domenica 26 marzo, le proteste sono arrivate al culmine dopo che Netanyahu ha licenziato il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, a causa dei commenti pubblici di quest’ultimo che esortava il premier a fermare la nuova legge, avvertendo che essa “rappresentava una chiara, immediata e tangibile minaccia alla sicurezza dello Stato”. In seguito al licenziamento di Gallant, centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza per protestare, mentre il più grande sindacato israeliano ha indetto uno sciopero nazionale, bloccando i voli in arrivo e in partenza da Tel Aviv, mentre gli aeroporti israeliani e i valichi di frontiera hanno subito una brusca chiusura. Sottoposto a una pressione enorme, e nonostante avesse promesso di portare avanti le riforme anche in mezzo a settimane di disordini, Netanyahu ha ceduto lunedì 27 marzo, anche se temporaneamente. Il premier ha annunciato che avrebbe messo in pausa i piani del suo governo per la revisione dei tribunali del Paese fino alla prossima sessione della Knesset, a fine aprile. “Per senso di responsabilità nazionale, volendo evitare una frattura nel nostro popolo, ho deciso di sospendere la seconda e la terza lettura del disegno di legge”, ha dichiarato nel suo annuncio. Sotto la pressione degli esponenti dell’estrema destra della sua coalizione, che hanno invitato i loro sostenitori a organizzare contro-manifestazioni in tutto Israele a sostegno delle riforme, Netanyahu non ha eliminato completamente i piani, ma si è limitato a rimandare di qualche settimana le votazioni parlamentari sul disegno di legge. “Quando c’è l’opportunità di evitare la guerra civile attraverso il dialogo, io, come primo ministro, prendo una pausa per il dialogo”, ha dichiarato lunedì Netanyahu. In risposta all’annuncio, lo sciopero nazionale è stato annullato, mentre i leader dell’opposizione in Israele, così come alcune parti del movimento di protesta, hanno accolto la mossa come un passo nella giusta direzione; molti invece hanno giurato di continuare le proteste settimanali fino a quando i piani non saranno completamente cancellati. L’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che aveva espresso “preoccupazione” per i disordini interni, ha elogiato il governo di Netanyahu per la decisione. “Accogliamo con favore l’annuncio del Primo Ministro Netanyahu come un’opportunità per creare ulteriore tempo e spazio per il compromesso. Il compromesso è proprio ciò che abbiamo chiesto”, ha dichiarato l’addetta stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre in un comunicato. “Crediamo che questa sia la strada migliore per Israele e per tutti i suoi cittadini. Le società democratiche sono rafforzate da ‘controlli e bilanciamenti’, e i cambi fondamentali di un sistema democratico devono essere perseguiti con la più ampia base possibile di sostegno popolare”, ha aggiunto la Jean-Pierre. Un prezzo da pagare Il costo per fermare le riforme giudiziarie non è certo piccolo e, secondo i critici, i palestinesi ne pagheranno il prezzo finale. Come compenso per il rinvio, Netanyahu ha promesso al suo partner di coalizione di estrema destra, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir –che è un grande sostenitore delle riforme– la creazione di una speciale “guardia nazionale” agli ordini di Ben-Gvir e del suo ministero. L’idea di una guardia nazionale, composta da militari e forze della polizia di frontiera, riserve e una forza “volontaria”, non è nuova ed era stata introdotta dal governo israeliano sotto l’ex primo ministro Naftali Bennet come misura per “rafforzare la sicurezza nazionale” nel giugno 2021, sulla scia di un’ondata di rivolte palestinesi in tutto il Paese. Tuttavia, gli analisti avvertono che la recente mossa di concedere a Ben-Gvir poteri su questa guardia equivarrebbe alla formazione di una sua “milizia privata”. Molti ritengono che sarà quasi certamente utilizzata per colpire principalmente le comunità palestinesi in Israele e nei Territori Palestinesi occupati. “Itamar Ben-Gvir è un estremista, è una persona che ha sempre invocato la violenza contro i palestinesi nel corso della sua carriera politica”, ha dichiarato a Mondoweiss Yara Hawari, analista politica senior del centro studi palestinese Al-Shabaka. “Questa [milizia] è un grande regalo a Ben-Gvir, ma avrà un costo elevato per i palestinesi in Cisgiordania. Lui la userà per punire collettivamente i palestinesi e guadagnare punti nel suo elettorato, che sembra gioire della violenza contro i palestinesi”, ha proseguito Hawari. “Ancora una volta, vediamo i palestinesi usati come pedine nei giochi politici di Israele. Non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima volta”. Un tempo considerato una figura marginale ed estremista in Israele, Ben-Gvir ha scalato i ranghi della politica israeliana ed è stato considerato un kingmaker nelle ultime elezioni; la sopravvivenza della coalizione di governo di Netanyahu si basa su Ben Gvir e sui suoi sostenitori di estrema destra e ultranazionalisti. Ben-Gvir ha già ottenuto maggiori poteri sulla polizia e sull’apparato di sicurezza israeliano come Ministro della Sicurezza Nazionale. L’ultimo accordo che gli concede poteri sulla guardia nazionale ha consolidato il suo potere e il suo rango all’interno della coalizione. “Ben-Gvir occupa una posizione abbastanza forte nella coalizione. Netanyahu non può perderlo. Se perde Ben-Gvir rischia che la coalizione si sgretoli completamente”, ha detto Yara Hawari. Amjad Iraqi, analista politico, scrittore e redattore di +972 Magazine di Haifa, ha dichiarato a Mondoweiss che, anche se resta da vedere esattamente come Ben-Gvir utilizzerà la nuova milizia, il fatto che l’accordo sia stato stipulato è abbastanza allarmante. “Anche se questa milizia non dovesse realizzarsi, ciò dimostra quanto Ben-Gvir e le sue idee politiche siano ormai normalizzate. La milizia potrebbe facilmente realizzarsi in futuro e andare anche oltre la durata dell’attuale governo”, ha detto Iraqi. Iraqi ha proseguito dicendo che “quello a cui stiamo assistendo ora è che il governo sta cercando di dare ai politici una forza armata più esecutiva”, descrivendola come un modello di “forma diffusa di violenza” e di delega ai civili sul campo. “È l’istituzionalizzazione di ciò che abbiamo vissuto nel maggio 2021 – dove abbiamo visto questi vigilantes e teppisti ebrei, nelle cosiddette città miste come Haifa, collaborare con gli agenti di polizia e qualificarsi come comitati di difesa, per poi andare ad attaccare gli arabi, le imprese arabe, le comunità, le case, ecc”. “Si tratta di qualcosa che si è già concretizzato sotto molti aspetti. Anche se questa guardia nazionale non si realizzasse, c’è già una pratica de facto che sta emergendo. Il modello della collusione tra coloni e soldati in Cisgiordania viene pensato molto più chiaramente seguendo l’esempio di ciò che è avvenuto nel ’48”, ha detto Iraqi. “Penso che sia presto per dire come andrà a finire, ma è abbastanza allarmante perché è una cosa seria, e mostra le reali intenzioni di ciò che questa gente al governo sta pensando e come i palestinesi del ’48 saranno presi di mira”. Una democrazia per gli ebrei, non per i palestinesi Mentre il dibattito continua a svilupparsi all’interno del movimento di protesta in Israele e nella copertura mediatica di esso, c’è un elefante molto grande nella stanza: i palestinesi. C’è stata una notevole assenza di palestinesi dal movimento di protesta: non solo nella partecipazione, ma anche nelle discussioni sulla democrazia e sulle richieste dei manifestanti. Questa cancellazione dei palestinesi non è casuale, dice Yara Hawari. “Le cosiddette proteste pro-democrazia non riguardano la democrazia per tutti coloro che risiedono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo”, ha dichiarato. “In realtà si tratta di preservare l’etnocrazia ebraica nello Stato coloniale di Israele. Come si può notare dagli slogan e dalle richieste dei vari gruppi di protesta, non si tratta in realtà di smantellare l’attuale struttura, che è intrinsecamente antidemocratica; si tratta di preservarla e riconfigurarla in un quadro più liberale”. Hawari ha criticato la natura “insincera” delle proteste, che sono state scatenate in risposta alla revisione giudiziaria di Netanyahu e della sua coalizione. “La magistratura di cui questi manifestanti si preoccupano tanto e che sono determinati a preservare e proteggere è la stessa che ha supervisionato l’oppressione dei palestinesi in molti modi diversi”, ha detto. “Supervisiona la demolizione delle case palestinesi, l’incarcerazione dei prigionieri politici palestinesi, ecc. Quindi è molto chiaro che queste proteste non riguardano l’essenza della democrazia, ma la conservazione o la riconfigurazione del colonialismo”. Iraqi ha detto a Mondoweiss che parte del motivo per cui non vediamo i palestinesi nel movimento di protesta è perché si tratta di un movimento ampiamente conservatore e di centro-destra. L'”opposizione” nella politica israeliana in questo momento non è un’opposizione di sinistra, ma è composta da figure di centro e centro-destra in Israele che sono interessate a preservare “qualche illusione di diritti liberali” e il sionismo liberale. Alcuni settori del movimento si sono posizionati come più radicali, come il blocco “anti-occupazione”, che si è riunito dietro l’idea che la democrazia non può essere raggiunta sotto l’occupazione e l’apartheid. Ma il loro numero è ancora piccolo rispetto al movimento più generale e sono stati anche attaccati da altri manifestanti. Anche coloro che hanno preso posizione contro l’occupazione e l’apartheid, ha detto Hawari, non sono ancora all’altezza del vero confronto che deve avvenire: un confronto contro il sionismo come ideologia. “L’orizzonte entro cui si inquadra la visione di questi “radicali” è ancora molto limitato: riconoscono come causa prima l’occupazione militare del 1967 della Cisgiordania e di Gaza, ma non si sognano nemmeno di affrontare l’ideologia del sionismo come tipica del colonialismo d’insediamento, che cerca sostanzialmente di cancellare il popolo palestinese dalla sua patria”, ha detto Hawari. “La maggior parte della società israeliana non vede nemmeno i palestinesi, sicuramente non giorno per giorno. Il regime israeliano ha creato un sistema di oppressione che nasconde convenientemente i palestinesi alla vista di tutti”, ha proseguito. “Per la maggior parte degli israeliani, quindi, i palestinesi nemmeno compaiono nella loro agenda politica. Lo abbiamo visto più volte durante le elezioni, quando i palestinesi non hanno fatto parte di alcun tipo di discussione in tutto lo spettro politico. Le proteste di oggi riflettono molto la società israeliana e la sua posizione nei confronti dei palestinesi”. Quale sarà il prossimo passo del movimento di protesta? Dopo l’annuncio di lunedì di ritardare il voto sulle riforme giudiziarie, il futuro dell’attuale movimento di protesta in Israele è in bilico. Gli israeliani cercheranno un “compromesso”, a cui alcuni leader dell’opposizione hanno espresso il loro interesse? La protesta finirà se le riforme saranno messe da parte e si tornerà allo status quo? Oppure le proteste si spingeranno oltre e cercheranno di porre fine all’attuale governo o di ristrutturare l’attuale sistema politico israeliano? Amjad Iraqi afferma che non è del tutto chiaro come evolverà la situazione, ma che gli ultimi eventi hanno segnato un cambiamento, almeno per gli israeliani. “Non è bianco o nero. Sì, la maggior parte del movimento si riduce a cose che già conosciamo – le proteste rientrano in uno spettro sionista, e così via… – ma ci sono alcuni fatti interessanti che stanno accadendo”, ha detto. “Da lunedì sera, non tutti i membri di questo movimento di opposizione sono sulla stessa lunghezza d’onda. I manifestanti, per quanto ne so, sono irremovibili nel continuare le manifestazioni. Sono piuttosto insistenti e non credono all’idea di mettere in pausa la revisione giudiziaria. Non considerano la questione conclusa”, ha proseguito, aggiungendo che sabato prossimo, il primo giorno di proteste del fine settimana regolarmente programmato dopo la decisione di lunedì, rivelerà come si svolgeranno le cose. “Una settimana fa vi avrei detto che la maggior parte degli israeliani sosteneva il ritorno allo status quo“, ha detto Iraqi, ma da lunedì è diventato più chiaro che i manifestanti antigovernativi “hanno capito che il nocciolo della questione non riguarda il sistema giudiziario”. “Lo vedono come un punto debole da cui iniziare una contestazione generale e ne comprendono le implicazioni più ampie, vedono cioè un regime autoritario religioso che si riflette in altri settori. È di questo che hanno paura i sionisti laici e liberali, che vedono minacciata la loro identità. Ci sono altre cose che contano per loro, oltre all’Alta Corte”. Ma alla fin dei conti, ammette Iraqi, se da un lato gli israeliani vedono questa come un’opportunità di cambiamento e una promessa di un futuro migliore, dall’altro si tratta comunque di un futuro che in gran parte non include i palestinesi. “Potrebbe essere un discorso che vede protagonisti i cittadini palestinesi e il loro ruolo, poiché questo è un momento di radicalizzazione per molti israeliani, ma sarà pur sempre un discorso incentrato soprattutto sulla garanzia dei diritti degli ebrei e della democrazia basata sui principi sionisti”, ha affermato. In risposta a quegli opinionisti politici secondo cui l’attuale movimento di protesta in Israele potrebbe in qualche modo portare a un cambiamento per i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana e l’apartheid, Yara Hawari afferma che ciò è altamente improbabile. Perché si verifichi un vero cambiamento, afferma, “è necessario fare i conti con ciò che è il sionismo e con il modo in cui si manifesta in Palestina. Il sionismo è un’ideologia di insediamento coloniale e il suo obiettivo principale è cancellare la Palestina e i palestinesi indigeni dalla loro patria”. Finché la questione palestinese sarà separata e rimossa dal discorso sulla politica israeliana, ha detto, i palestinesi continueranno a essere emarginati e cancellati dal quadro generale. “Fino a quando non ci sarà un riconoscimento [del sionismo come ideologia d’insediamento coloniale], e fino a quando non ci sarà un riconoscimento interno da parte degli israeliani che questo è ciò su cui è costruita la loro identità, non credo che vedremo alcun cambiamento significativo”.

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