Moni Ovadia : la guerra



Il mio articolo di ieri su IL MANIFESTO
La guerra è il luogo e il tempo della morte. Non uccide solo esseri umani, animali, ambiente, cancella il desiderio di conoscere. La guerra genera la ridondanza di informazione e le sue fonti pletoriche si contendono la contabilità di morti, di orrori, di distruzioni, di fazioni. La stragrande maggioranza delle persone ignora la vita dei Paesi che all’improvviso diventano teatri di conflitti, al massimo ricordano il nome di una piazza dove si svolsero proteste o rivolgimenti riportati dai soliti media colti da frenesia di dare un presunto senso alla loro esistenza. Cosi accadde per la guerra della ex Jugoslavia, cosi si ripete il meccanismo per l’Ucraìna, con la sola differe la Guerrnza che oggi, l’avanzamento della tecnologia sottopone il malcapitato tele-assuefatto ad un vero cannoneggiamento. Io le notizie le ho, direttamente, da tre profughe ucraine che ospito nella mia casa. È il mio piccolo contributo alla verità.
Sono un privilegiato, in Ucraina ci sono stato, non per fare turismo, ma per conoscere persone con le quali stabilire un rapporto professionale che poi si è trasformato in una fraterna amicizia. Ho seguito tracce di un filone della sua storia per mettere in scena due spettacoli e per orientarne un terzo. Prima di conoscere l’Ucraìna, ho conosciuto ucraìni, cinque strepitosi danzatori: Maxim, Koljia, Igor, Sergiej, Jiuri. A parte uno, gli altri erano pensionati e portavano la loro arte nella mia messa in scena del musical «Il violinista sul tetto».
DANZAVANO con una grazia e un virtuosismo non esibizionista che, a mio parere, sono concessi solo ai pensionati. Abbiamo collaborato per circa tre anni. Uno di loro, Maxim Anatolievic Shamkov, rimase poi con me in altri spettacoli. Pesava 130 kili per un metro e settantotto ma si librava nello spazio come un libellula, con un’eleganza che non mi è più capitato di vedere. Nei dodici anni di frequentazione ci siamo sempre dati del voi, l’intensificarsi della familiarità non ci ha fatto cambiare abitudine, Maxim mi esprimeva anche in questa forma il suo rispetto e, il suo essere stato per trent’anni cittadino sovietico, non gli aveva fatto perdere il senso di quella forma cortese. Quando, dopo la Rivoluzione invalse il termine compagno, nei rapporti non strettamente familiari si continuò a rivolgersi al proprio interlocutore così: «voi, compagno».
Odessa è una mamma, quando l’ho conosciuta, lei mi ha adottato e mi ha permesso di fare un coup de théâtre magistrale. Stavo lasciando la città portando con me un pacco di Cd e Dvd, il doganiere all’aeroporto mi guardò e mi disse in un inglese con pesante accento slavo: vat is dis «che roba è» io risposi nella sua lingua, «non vedete da solo?» lui mi ruggì di ritorno e «allora??!!». Spiegai sempre in russo: «Sono regista e attore, preparo uno spettacolo sulle canzoni della malavita ebraico odessita», al che lui guardando il mio passaporto italiano e strabuzzando gli occhi: «Cosa?» E io «non mi credete?» E lui «no!», «E io come ve lo posso provare?» E lui ferreo: «Cantate». Allora intonai a squarciagola la canzone «Odessa mama» tutti intorno scoppiarono a ridere, anche il mio inquisitore si tratteneva a stento e per uscire dall’imbarazzo mi congedò. «Pigliate questa roba e andate al diavolo!».
La frequentazione dei miei amici ucraini fece affiorare dallo scrigno dei miei desideri segreti l’urgenza di mettere in scena il capolavoro di un genio della letteratura ebraico sovietica lo scrittore ebreo di Odessa Isaak Babel autore di un autentico capolavoro: L’armata a cavallo e partii per l’Ucraina per fare delle ricerche e trovare materiali visuali e sonori.
L’ARRIVO A KIEV fu indimenticabile. È una città di grande respiro, segnata da una formidabile densità di verde urbano, le cupole dorate delle sue chiese e cattedrali sono una visione e affacciarsi da un belvedere sulla maestà del fiume Dniepr è un’impressione che non si dimentica. A Kiev trovai molti materiali sull’epopea della guerra civile che si scatenò fra Rossi e Bianchi poche settimane dopo la vittoria della rivoluzione d’Ottobre. Fu una guerra di una violenza e di una ferocia incredibile che vide scannarsi fra di loro fratelli, padri e figli con un costo di oltre dodici milioni di morti. In essa intervennero, in appoggio alle forze zariste, tredici paesi capitalisti fra i quali l’Inghilterra, la Germania, il Giappone, gli Stati Uniti che avevano un decisivo interesse a distruggere la Rivoluzione ancora in fasce e ad ammazzare il massimo numero di comunisti che fosse possibile Il genio militare di Trotsky sconfisse l’alleanza reazionaria. Nell’esercito rosso combatteva la kon’armmija, la Prima armata a cavallo comandata dal generale Michail Semionovic Budijonnyi.
Babel’ fu aggregato alla Kon’armjia nella sezione stampa, la Rosta, e si iscrisse nel suo romanzo di racconti con il nome di fantasia di Ljutov. Babel’ servendosi di una lingua che trascorre dall’immaginifico al lirico ci riporta a quell’epopea tragica che segna il crepuscolo di un’epoca nella violenza che annienta la grazia poetica di piccoli uomini sublimi. Per la mia sensibilità indimenticabili sono un racconto in forma di compianto per l’estinzione delle api in una zona di guerra e la descrizione della morte del soldato rosso Bratzlavsky, principe di una dinastia rabbinica preso dalla rossa passione proletaria senza dimenticare le sue radici. Nell’agonia, dalla bisaccia di Bratzlavsky scivolano fuori mescolate mestamente le pagine dell’agitatore bolscevico e fogli del Talmud, i proiettili del combattente bolscevico e i filatteri di preghiera. Così il principe di una dinastia rabbinica dava la sua vita per la rivoluzione.
Il romanzo di Babel’ non piacque al generale Budjionny che andò su tutte le furie e protestò con Stalin per la sua pubblicazione. Babel’ non aveva rispettato i canoni della narrazione celebrativa. Curiosamente Stalin difese Babel’ e sbeffeggiò Budjonny. Ma non salvò il grande scrittore dalle accuse successive di trotskismo che lo fecero finire nel tritacarne delle micidiali purghe fra il ’37 e il ’39.
SULLE TRACCE DI BABEL’ sono volato ad Odessa, la «perla» che si adagia sul Mar Nero dove ho cercato ispirazione per un successivo spettacolo «Adesso Odessa», che ho messo in scena in collaborazione con un violinista virtuoso ebreo odessita, Pavel Vernikov, il più geniale umorista fra i grandi Violinisti. Odessa è stata una città con uno specialissimo carattere ebraico, a cavallo fra la metà dell’Ottocento e i primi quattro decenni del Novecento metà della sua popolazione era composta da ebrei.
Unici fra gli ebrei ashlenaziti a vivere sul mare, sorta di napoletani dell’ebraismo, hanno avuto dato vita ad un umorismo esplosivo che ne caratterizza lo spirito e la genialità. Babel’ li ha cantati nel suo altro capolavoro I racconti di Odessa. L’opera costituisce un’elegia commossa, ironica e appassionata su un “popolo” senza paragoni disperso dalle violenze della Storia che non ama le storie. Io nell’animo mi sento un ebreo odessita.

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