RICHARD SILVERSTEIN - EBREI ARABI: IL FALSO MITO DELLA "NAKBA EBRAICA"



Le affermazioni sioniste di una storica espulsione di massa degli ebrei dalle terre arabe sono in gran parte propaganda Hasbara e mitologia.
Di Richard Silverstein - 7 gennaio 2022
Nel corso degli anni, una ricorrente leggenda Hasbara ha accusato gli Stati arabi di aver espulso intere popolazioni ebraiche negli anni tra il 1948 e il 1956. Presentano mappe dettagliate che mostrano il numero di ebrei originariamente residenti in questi paesi e quanti ne sono rimasti attualmente. Termini come "espulsione", "rifugiato", "Nakba Ebraica" e "persecuzioni" vengono sbandierati come se fossero fatti storici orribili. La verità, come spesso accade riguardo alle affermazioni ideologiche sioniste, è un'altra.
I sostenitori di questa affermazione hanno cercato di controbilanciare le richieste palestinesi per il diritto al ritorno con richieste di risarcimento per le decine o centinaia di milioni di proprietà ebraiche sequestrate dai governi arabi dopo la loro partenza. Ma questa richiesta potrebbe ritorcersi contro perché servirà solo a ricordare al mondo che 400 villaggi palestinesi sono stati distrutti durante la Nakba con decine di migliaia di case di centinaia di migliaia di palestinesi distrutte o confiscate. Né ai profughi fu permesso di tornare dopo la guerra del 1948 per reclamare le loro proprietà. La Legge sugli Infiltrati li trattava come nemici e autorizzava le forze israeliane a sparargli a vista:
"È stata adottata una politica di "fuoco libero" nei confronti degli infiltrati sparando illegalmente a coloro che attraversavano la linea dell'armistizio internazionale. Alla fine, la dirigenza israeliana è giunta alla conclusione che solo attacchi di rappresaglia sarebbero stati in grado di creare la deterrenza necessaria, che avrebbe convinto i paesi arabi a prevenire le infiltrazioni. Gli attacchi uccisero numerosi civili".
Le rivendicazioni della "Nakba" arabo-ebraica avevano lo scopo di sollevare una contropretesa a quella di quasi 1 milione di palestinesi cacciati dalla loro patria natia durante la Nakba. Se erano profughi, allora anche gli ebrei arabi venivano "cacciati" dalle loro stesse case natie. Ma i sostenitori di questa tesi trascurarono i sentimenti degli stessi ebrei Mizrahi, molti dei quali fecero l'aliya in base ai principi sionisti. Chiamarli "rifugiati" ha snaturato il loro posto nella società israeliana e li ha trasformati in estranei alieni (proprio come i palestinesi che si sono stabiliti nei campi profughi in Libano, Siria e Giordania dopo la guerra del 1948).
Il professor Yehuda Shenhav, lui stesso ebreo Mizrahi, scredita l'equiparazione tra rifugiati palestinesi e "rifugiati" ebrei arabi:
"L'analogia tracciata tra palestinesi ed ebrei Mizrahi è infondata. I profughi palestinesi non volevano lasciare la Palestina. Molte comunità palestinesi furono distrutte nel 1948 e circa 700.000 palestinesi furono espulsi, o fuggirono, dai confini della Palestina storica. Coloro che se ne sono andati non lo hanno fatto di propria volontà.
Al contrario, ebrei provenienti dai paesi arabi vennero in questo Paese su iniziativa dello Stato di Israele e delle organizzazioni ebraiche. Alcuni vennero di loro spontanea volontà; altri furono costretti. Alcuni vivevano comodamente e in sicurezza nelle terre arabe; altri soffrivano di paura e oppressione.
L'analogia infondata e immorale tra i rifugiati palestinesi e gli immigrati Mizrahi coinvolge inutilmente i membri di questi due gruppi in una disputa, mortifica la dignità di molti ebrei Mizrahi e danneggia le prospettive di un'autentica riconciliazione arabo-ebraica".
Shenhav ha descritto questa come una campagna politica opportunista per minare una richiesta chiave del BDS del diritto palestinese al ritorno. Serve anche a distogliere l'attenzione dal record di espulsione, furto e oppressione dei palestinesi da parte di Israele:
"Negli ultimi tre anni è in corso un'intensa campagna per garantire il riconoscimento politico e giuridico ufficiale degli ebrei dei paesi arabi come rifugiati. Questa campagna ha cercato di creare un'analogia tra i rifugiati palestinesi e gli ebrei Mizrahi, le cui origini sono nei paesi del Medio Oriente, descrivendo entrambi i gruppi come vittime della Guerra d'Indipendenza del 1948. I fautori della campagna sperano che i loro sforzi impediscano il conferimento di quello che viene chiamato un "diritto al ritorno" ai palestinesi e riducano l'entità del risarcimento che Israele è tenuto a pagare in cambio della proprietà palestinese a carico del gestore statale dei "beni perduti".
L'idea di tracciare questa analogia costituisce una lettura errata della storia, della politica imprudente e dell'ingiustizia morale".
Eyal Bizawe è un regista egiziano-israeliano che ha criticato il programma scolastico israeliano riguardo lo status degli ebrei nei paesi arabi. Lui scrive:
"L'approccio si può riassumere in: Gli ebrei nei paesi musulmani si occupavano delle questioni nelle loro stesse comunità, scrivevano in ebraico o arabo-giudaico, erano impegnati in attività sioniste, e nel tempo libero venivano perseguitati. Non c'è alcun riferimento al coinvolgimento degli ebrei nella politica nazionale o comunista, alla letteratura nella lingua locale o nelle lingue europee, all'istituzione dell'orchestra dell'autorità di radiodiffusione irachena, al coinvolgimento degli ebrei nell'industria cinematografica egiziana o alla partecipazione degli ebrei nella guerra in Algeria.
Si potrebbe concludere dal programma che l'unico contatto che gli ebrei Mizrahi avevano con i loro ambiente circostante è avvenuto sotto forma di continue persecuzioni. Dopotutto, non c'è niente come un buon trauma per riunirci tutti attorno alla nostra memoria della tragedia nazionale, dove possiamo mettere la testa di un ebreo iraniano sulle spalle di un ebreo polacco e la testa di un ebreo tedesco sulle spalle di un ebreo iracheno, lamentando insieme che lo shtetl* sta bruciando".
La Professoressa Ella Shohat, lei stessa discendente di ebrei iracheni sfollati, aggiunge la propria critica a questo mito islamofobo dell'eterno odio per gli ebrei:
"Il dibattito sui "rifugiati ebrei dai paesi arabi" include l'assunzione dei musulmani come eterni persecutori degli ebrei, inglobando la storia degli ebrei nei paesi arabi musulmani in quella che potrebbe essere definita una versione "persecutoria" della "storia ebraica". Questa retorica incorpora l'esperienza degli ebrei arabi nella Shoah, evidente ad esempio nella campagna per includere gli attacchi Farhud del 1941 contro gli ebrei in Iraq nel Museo Commemorativo dell'Olocausto degli Stati Uniti. Si può denunciare la violenza del Farhud, e persino paragonarla alla propaganda nazista in Iraq proveniente da Berlino, senza strumentalizzarla per equiparare gli arabi ai nazisti, o creare un caso di eterno antisemitismo musulmano.
Questo dibattito sulla persecuzione millenaria collega i punti da persecuzione a persecuzione, proiettando l'esperienza storica degli ebrei nell'Europa cristiana sull'esperienza degli ebrei negli spazi musulmani".
Per collocare questo in un contesto più ampio della storia ebraica, l'illustre storico, Salo Baron, concepì la "teoria lacrimosa" della storia ebraica:
"Anch'io sono figlio di questa era. Per tutta la vita ho lottato contro la "concezione lacrimosa della storia ebraica" fino ad allora dominante, un termine che uso da più di quarant'anni, perché ho sentito che un'enfasi eccessiva sulle sofferenze ebraiche ha distorto il quadro complessivo dell'evoluzione storica ebraica e, allo stesso tempo, ha servito male una generazione che era diventata impaziente di fronte all'incubo di infinite persecuzioni e massacri".
In altre parole, ai fini di questo saggio, le affermazioni esagerate contro gli Stati arabi che hanno perpetrato un "Olocausto" o una "Nakba" contro gli ebrei arabi fa parte di questa stessa visione che suggerisce che tutta la storia ebraica è caratterizzata da una sofferenza assoluta, compresa la vita nella diaspora. Così la catastrofe degli ebrei arabi si unisce al martirio romano, all'Inquisizione e all'espulsione spagnola, ai pogrom russi e all'Olocausto come sponda di una narrativa senza fine della sofferenza ebraica. Abbracciare questa prospettiva rafforza la narrativa sionista sostenente che gli ebrei possono essere al sicuro, sovrani e padroni del proprio destino solo in Eretz Yisrael (la Terra d'Israele).
La visione sionista dell'internamento degli esuli ebrei arabi a Sion afferma che li ha salvati dalla sofferenza e dall'antisemitismo. Che li ha liberati da vite come alieni eterni all'interno della loro esistenza diasporica. Che li ha condotti in un luogo dove hanno trovato rifugio; dove potevano essere al sicuro come ebrei. Ma è vero il contrario: la stragrande maggioranza degli ebrei arabi ha preferito rimanere nelle loro terre d'origine. È stata la determinazione sionista a dichiarare uno Stato, nonostante gli avvertimenti dei leader arabi che questo era il superamento di una linea rossa che non potevano tollerare, che ha portato alla disgregazione di queste comunità. L'unico obiettivo di Ben Gurion era quello di dichiarare uno Stato nazionale del popolo ebraico in cui avrebbe goduto della completa sovranità. Non gli importava per niente degli ebrei della diaspora. Al contrario, dichiarò esplicitamente che avrebbe sacrificato la vita degli ebrei tedeschi che si erano rifiutati di fare aliya (immigrare), purché avesse potuto salvare altri disposti a emigrare in Israele.
La dichiarazione di indipendenza dello Stato di Ben Gurion fu solo una delle cause dei disordini che costrinsero gli ebrei a lasciare le loro case. Ha concepito una campagna a lungo termine attentamente coordinata per inculcare il sionismo tra le comunità ebraiche arabe tramite le Yishuv shlihim*, che sono state inviate in questa missione. L'obiettivo finale era convincere il maggior numero possibile di persone a fare aliya. Lo hanno fatto dipingendo un quadro idilliaco della vita in Palestina (che è stato rapidamente dissipato dalle condizioni miserabili nei campi di accoglienza noti come ma'abarot) e avvertendoli che alla fine erano odiati in quanto ebrei nella loro stessa patria e non potevano avere un futuro lì.
[* Yishuv shlihim (Vecchio Yishuv) erano le comunità ebraiche delle province siriane meridionali nel periodo ottomano,fino all'inizio dell'aliyah sionista e al consolidamento del Nuovo Yishuv entro la fine della prima guerra mondiale.]
Shohat cita l'amarezza di sua madre, che fece aliya in Israele:
"Sulla scia del loro esodo dall'Iraq e del trauma dell'arrivo in Israele, gli ebrei iracheni, insieme agli ebrei arabi, Sefarditi, o mediorientali più in generale, sperimentarono l'esclusione, il rifiuto e la proiezione virtuale come arabi orientali, in un luogo che era stato considerato, almeno, come rifugio. La consapevolezza della non appartenenza può essere intravista nel frequente lamento: "In Iraq eravamo ebrei, in Israele siamo arabi".
I sionisti hanno infuso il dubbio negli ebrei arabi sui loro concittadini musulmani. Hanno anche istigato il dubbio tra questi ultimi sulla lealtà dei loro fratelli e sorelle ebrei. I musulmani si sono chiesti come un ebreo con simpatie sioniste potesse essere fedele alla propria patria. Il salto fu breve da lì alla paura e alla paranoia necessarie per demonizzare gli ebrei come un nemico infiltrato che cerca di sabotare la loro nazione araba.
La verità è che il sionismo nel mondo arabo ha destabilizzato la vita ebraica e creato ostilità e conflitto. Gli ebrei erano meno sicuri e più in pericolo grazie al sionismo. L'esodo non ha salvato vite. In realtà, li ha portati in uno Stato che li guardava con disprezzo e li trattava duramente. Uno Stato che ha persino barattato, venduto, avvelenato e ucciso bambini mizrahi per motivi razzisti fuorvianti.
Ancora oggi possiamo vedere che gli ebrei sono molto più minacciati in Israele che nella diaspora. Per ogni ebreo ucciso in un attacco terroristico fuori Israele, molti di più vengono uccisi in guerra e attacchi terroristici all'interno di Israele. La vita ebraica della diaspora è in gran parte fatta di stabilità e tolleranza religiosa. La vita in Israele è piena di classismo, pregiudizio etnico e privazioni economiche (per Mizrahi, Haredi e Palestinesi israeliani). C'è grande ricchezza e benessere, ma c'è anche un enorme divario di ricchezza tra le famiglie di oligarchi che controllano la stragrande maggioranza della capitale del paese e i poveri.
Per essere chiari, non ho problemi con gli ebrei che fanno aliya se lo desiderano. La possibilità di scegliere è qualcosa che tutti dovrebbero avere (compresi i palestinesi). Ma se la scelta di un ebreo priva un palestinese di avere la stessa scelta, allora questo è ingiusto.
Ebrei arabi invitati a tornare nelle loro terre d'origine
Un'altra prova dell'errore che musulmani e arabi siano affetti da un odio storico profondamente radicato per gli ebrei è che molti Stati i cui abitanti ebrei se ne sono andati li hanno invitati a tornare. I leader del Sudan, dell'Egitto e del Marocco hanno lanciato loro inviti pubblici per il ritorno.
Il Presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi ha pronunciato un discorso pubblico promettendo di restaurare la grande sinagoga del Cairo. Ha speso milioni per farlo e alla riconsacrazione hanno partecipato 100 egiziani-israeliani. L'Economist nota il cambio di direzione intrapreso dal leader egiziano:
"Quando si tratta della comunità ebraica egiziana, il Presidente Abdel-Fattah al-Sisi dice tutte le cose giuste. Al-Sisi promette una rinascita dell'ebraismo locale. Ha invitato gli ebrei che erano stati cacciati dopo l'invasione di Israele nel 1956 a tornare. Ha elencato i fatiscenti cimiteri ebraici come siti del patrimonio nazionale e ha speso milioni di dollari per restaurare quella che un tempo era la più grande sinagoga del mondo, Eliyahu HaNavi, ad Alessandria".
Sebbene il Marocco conti solo 3.000 ebrei, alcuni di loro sono israeliani-marocchini che hanno deciso di lasciare Israele e tornare in patria. Altri israeliani hanno notevoli interessi commerciali lì. Altri ancora vengono in vacanza e fanno visita alla famiglia. Un articolo del NY TIMEs del 1979 descrive il cambiamento radicale e positivo negli atteggiamenti del Marocco nei confronti della sua minoranza ebraica. Più recentemente, l'Economist scrive:
"Anche la comunità ebraica del Marocco si è ridotta quando il conflitto arabo-israeliano era al culmine. Ma gli ebrei rimasti ora praticano apertamente. Re Muhammad VI ha restaurato decine di sinagoghe e ospita regolarmente la diaspora nelle celebrazioni in cui imam e rabbini cantano insieme. Il mese scorso ha inaugurato un centro del patrimonio ebraico toccando la Torah e pregando. "È stata la prima volta per un Comandante dei Fedeli nell'Islam" (un titolo reale), afferma Andre Azoulay, consigliere ebreo del Re".
Nonostante centinaia di devastanti attacchi aerei da parte dell'aviazione israeliana su obiettivi siriani, il governo di quest'ultimo ha permesso a una dozzina di siriani-americani di tornare per una visita nel 2021. Sono stati invitati a incontrare funzionari siriani, ma hanno rifiutato perché non volevano che la loro visita acquisisse una dimensione politica. Un quotidiano israeliano scrive:
Fonti nella comunità siriana in Israele dicono che: "Alcuni uomini d'affari ebrei che in precedenza vivevano in Siria sono tornati con le loro famiglie per lavorare nel paese con passaporti stranieri. Questi ebrei lavorano lì con l'approvazione del regime di Assad".
Anche il Sudan, dopo aver rovesciato il suo dittatore islamista, Omar Bashir, ha lanciato un caloroso appello affinché gli ex ebrei sudanesi tornassero:
"Il Sudan è pluralista; nel suo pensiero, nella sua cultura, nelle sue ideologie e nelle sette religiose islamiche, e persino nelle altre religioni. C'è l'Islam, il Cristianesimo e una minoranza che segue la fede ebraica", ha dichiarato il Ministro per gli Affari Religiosi sudanese Nasr-Eddin Mofarah in un'intervista con Al Arabiya all'inizio di questo mese.
Mofarah ha riconosciuto che la minoranza ebraica potrebbe aver lasciato il Paese, ma li ha invitati a tornare in Sudan "attraverso il loro diritto di cittadinanza e nazionalità".
"Finché c'è un governo civile in Sudan, la base della nazionalità sono diritti e doveri", ha spiegato Mofarah.
Nel 1975, l'OLP propose una risoluzione che chiedeva ai paesi arabi di permettere il ritorno degli ebrei nelle loro terre d'origine. In risposta, Joseph Massad scrive che lo hanno fatto Marocco, Yemen, Libia, Sudan, Iraq ed Egitto.
Nel 1979, Radio Bagdhad esortò gli ebrei iracheni a tornare da Israele, ricordando loro che sono cittadini di seconda classe nella società israeliana Ashkenazita dominata dall'Occidente. Shenhav scrive:
"In una trasmissione in lingua ebraica, ha invitato tutti gli ebrei di origine irachena "a tornare a casa", promettendo che avrebbero potuto vivere come cittadini con uguali diritti in Iraq. La trasmissione affermava che le persone di origine irachena hanno subito discriminazioni in Israele per mano degli Ashkenaziti e che questa ingiustizia sarebbe stata corretta al loro ritorno in Iraq. Con questi commenti Radio Baghdad ha infranto il veto sionista e ha spostato senza problemi la discussione dall'ambito nazionale all'ambito etnico ebraico interno".
L'Economist riferisce che le opinioni sugli ebrei in molti di questi paesi sono cambiate radicalmente:
"La promessa della nostra comunità è il riaccendersi di una tradizione giudaico-islamica", afferma Ross Kriel, presidente del nuovo Consiglio Ebraico degli Emirati. I leader arabi dal Marocco all'Iraq stanno ripetendo il messaggio"
"Dall'Iraq alla Libia, una schiera di politici, cineasti e accademici, dai laici ai Fratelli Musulmani, ha riesaminato il passato, compresa l'espulsione degli ebrei dopo il 1948"
"Oggi 13 università egiziane insegnano ebraico, rispetto alle quattro del 2004. Circa 3.000 studenti egiziani finiranno gli studi di ebraico quest'anno, il doppio rispetto a cinque anni fa"
"I documentaristi arabi cercano le diaspore ebraiche che un tempo vivevano nelle terre arabe. Una nuova generazione di romanzieri arabi eleva gli ebrei da attori marginali a protagonisti. "L'ho scritto per mostrare che gli ebrei fanno parte della nostra cultura", dice Amin Zaoui, l'autore algerino di "L'ultimo ebreo di Tamentit". "
Queste fonti indicano una rivalutazione generale tra gli arabi delle loro relazioni con i loro ex cittadini ebrei. Piuttosto che demonizzare tutti gli arabi e i musulmani come irrimediabili antisemiti, è fondamentale che gli ebrei Mizrahi valutino queste opportunità e riaccendano le relazioni con i loro ex compatrioti. Farà molto per aiutare Israele a trovare finalmente il suo posto nel Medio Oriente arabo. Una regione in cui è estraneo e che tratta come territorio uniformemente ostile.
CONCLUSIONI
Se cogliamo qualcosa da questa analisi è che non c'è un'ampia generalizzazione che possiamo fare sugli atteggiamenti del mondo arabo-musulmano nei confronti degli ebrei che vivono in mezzo a loro. Alcuni paesi hanno risposto al conflitto tra la minoranza ebraica e la maggioranza musulmana meglio di altri. Affermare che c'è un odio intrinseco contro gli ebrei che è radicato all'interno dei paesi stessi o all'interno dell'Islam non solo è sbagliato, ma è pericoloso in termini di relazioni in corso tra Israele e il mondo arabo. Se Israele vuole trovare un posto in Medio Oriente, dovrà trovare un accordo con i suoi vicini arabi, come faranno loro con Israele. Ciò non può accadere se gli ebrei filo-israeliani avanzano l'idea che c'è una battaglia esistenziale tra le due entità che è irrisolvibile.
Ho offerto questi resoconti sullo stato degli ebrei in alcune delle principali terre arabe per confutare l'idea che ci fosse un piano accuratamente eseguito da tutti questi Stati per liberarsi degli ebrei con mezzi violenti o con l'espulsione fisica. Era più complicato di così. Naturalmente, c'era l'antisemitismo che scacciò gli ebrei. Ma in molti, se non nella maggior parte dei casi, l'ostilità verso le popolazioni ebraiche locali è stata guidata tanto dalle azioni del nuovo Stato sionista indipendente, quanto dagli stessi antisemiti locali. Rachel Shabi scrive:
"I funzionari dell'Agenzia Ebraica sapevano che le loro attività in Palestina potevano mettere in pericolo gli ebrei in Medio Oriente (vedere il lavoro della storica israeliana Esther Meir-Glitzenste). Scelsero di portare avanti quelle azioni e si impegnarono a "salvare" quegli ebrei se le cose fossero andate per il peggio. Se gli stessi funzionari sionisti erano preoccupati per una reazione negativa nel mondo arabo, come può Israele essere assolto dalla responsabilità per l'esodo degli ebrei da quei paesi?"
Ci ricorda che nonostante la caratterizzazione negativa della vita nei paesi arabi da parte dei sionisti, in realtà era piuttosto ricca e piena:
"L'ebraismo mediorientale detiene molte sfaccettature e, rispetto all'ebraismo europeo, ha una storia, un patrimonio e una cultura distinti. Questa eredità, in tutte le sue dimensioni, non dovrebbe essere presa in ostaggio per alimentare ulteriore rabbia e astiosità nel conflitto arabo-israeliano".
Il Professor Shenhav, nel suo articolo su Haaretz, sull'esilio iracheno, scrive che la maggior parte degli ebrei non se ne andò forzatamente. Hanno scelto di farlo. Avevano certamente buone ragioni per andarsene e le azioni dei governi arabi incoraggiarono queste decisioni. Ma non c'era nessuna cospirazione, nessuna "Nakba Ebraica" come molti sostengono.
Il noto storico israeliano Tom Segev avverte che la decisione di lasciare la propria patria aveva innumerevoli motivazioni. Semplificare la questione dichiarando che c'era un solo motivo è una falsificazione della realtà storica:
"Decidere di emigrare in Israele è stata spesso una decisione molto personale. Si basava sulle circostanze particolari della vita dell'individuo. Non erano tutti poveri, o "abitanti in caverne buie e ghetti". Né sono stati sempre soggetti a persecuzioni, repressioni o discriminazioni nelle loro terre d'origine. Sono emigrati per una serie di motivi, a seconda del paese, del tempo, della comunità e della persona".
In contrasto con la falsa affermazione di una "Nakba" arabo-ebraica, Ben Gurion ordinò una tale campagna di espulsione forzata prima, durante e dopo la guerra del 1948. Il Palmach e le milizie estremiste come Lehi, hanno epurato gli abitanti di interi villaggi cacciandoli dalle loro case con la forza militare. Ci sono stati massacri ed uccisioni di massa come Deir Yassin che hanno spinto i palestinesi nativi a fuggire in massa in preda al panico. Questi massacri non furono eventi singoli come quelli contro gli ebrei nei paesi sopra menzionati. Sono stati pianificati, coordinati e diretti come parte di una strategia per cacciare i palestinesi e favorire l'immigrazione ebraica, al fine di formare uno Stato a maggioranza ebraica. Questo hanno fatto, sistematicamente.
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