Alberto Negri- Francesco in Iraq, l’unica diplomazia contro la guerra
Bergoglio non solo è il primo papa in Iraq ma anche il primo capo di stato dell’Occidente a casa dell'ayatollah Sistani. Ecco perché la sua visita è pastorale ma anche politica.
ll papa in visita oggi da Sistani fa politica e diplomazia, quella che nessuno riesce a fare. Chi è Alì Sistani, il religioso sciita di Najaf?
È un uomo, con un’influenza spirituale estesa ben oltre i confini iracheni, che rappresenta la sintesi complessa, avvincente, e talora inestricabile, di un secolo di vicende dell’Iraq e del Medio Oriente.
Ma è anche una parte della nostra storia, assai poco onorevole, fatta di spartizioni coloniali e guerre, come quella del 2003 che l’Occidente ha portato nella terra di Abramo e che un altro papa, Wojtyla, ricevendo il vicepresidente di Saddam Hussein, il cristiano Tarek Aziz, cercò di fermare mentre in Italia esponevamo quelle bandiere arcobaleno adesso ormai stinte ed estinte.
Questa volta il papa fa un po’ anche la nostra parte, ci ricorda l’inferno iracheno, la memoria perduta e la vergogna di guerre costruite su menzogne come quella delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, la madre di tutte le fake news inventata da Bush jr. e Blair. Gli iracheni soffrono da decenni un calvario senza fine.
Morti e profughi si contano a milioni, le distruzioni sono inenarrabili: vite travolte e generazioni perdute. In 40 anni lì ho vissuto la guerra contro l’Iran (un milione di morti), quella del ‘91, del 2003, le stragi di Al Qaida e dell’Isis fino alla caduta di Mosul e alla sua liberazione dal Califfato nel 2017.
Una delle storie di Sistani e Najaf che ci può interessare è questa. Quando l’Imam Khomeini, poi diventato nel 1979 il leader indiscusso della rivoluzione sciita in Iran, andò nel 1965 in esilio a Najaf, Sistani accolse la sua venuta con una frase rimasta famosa: «Ecco adesso sono arrivati i guai».
Sistani come il suo maestro il grande ayatollah Khoei è sempre stato contrario al coinvolgimento del clero nella politica. Ma i suoi moniti a volte non furono seguiti: il figlio di Kohei, Abdul Majid, fu assassinato mentre, dopo una missione a Londra, andava a pregare al mausoleo di Alì il 10 aprile 2003, il giorno dopo l’entrata a Baghdad degli americani.
Qui anche una preghiera a volte è di troppo. Ogni passo del papa in questo viaggio è segnato dal sangue, quello dei musulmani, sciiti e sunniti, dei cristiani, degli yazidi, dei mandei, degli arabi, dei curdi.
In politica Sistani, massima autorità religiosa del Paese, è stato coinvolto dopo la caduta di Saddam ma in tanti anni di occupazione Usa non ha mai ricevuto il rappresentante di un governo occidentale. Come se gli americani avessero conquistato l’Italia senza mai essere accolti in Vaticano.
La stessa Najaf come meta del viaggio ha un’alta carica simbolica: la cupola d’oro del mausoleo di Alì, dove nel ’91 vidi le pareti insanguinate dalla repressione di Saddam, è dedicata al cugino e genero di Maometto, il quarto califfo, padre del martire Hussein a Karbala nel 680. Dopo Mecca e Medina è la meta di pellegrinaggio musulmana più gettonata e quando il papa vi giungerà, ancor prima di vedere i due minareti e la cupola, osserverà il più grande cimitero del mondo che ospita le tombe di milioni di sciiti da tutto l’islam.
Quindi Bergoglio non solo è il primo papa in Iraq ma anche il primo capo di stato dell’Ovest a casa di Sistani. Ecco perché la sua visita è pastorale ma anche politica. Pastorale perché i due firmeranno il documento sulla «fratellanza umana» già sottoscritto nel 2019 ad Abu Dhabi con l’imam sunnita di Al Azhar, Ahmad al Tayyeb.
Politica perché Sistani, pur essendo ostile alle ingerenze nel potere dell’establishment religioso, in realtà ha giocato in questi anni un ruolo di primo piano, fino a essere considerato una sorta di deus ex machina capace di imprimere svolte significative e di mediare le profonde divisioni del Paese.
Nato in Iran a Mashad nel 1930, Sistani era in origine un «quietista» e si teneva lontano dalla politica mentre altre famiglie di ayatollah come gli Al Hakim, i Baqr e i Sadr cadevano stritolati dalla macchina repressiva del regime baathista.
Poi, con l’arrivo degli americani, il Grande Ayatollah si è trovato in mezzo, prima trascinato dal suo giovane concorrente Muqtada Sadr, che guidò una rivolta armata con l’esercito del Madhi, poi nel 2014, quando dopo la caduta di Mosul ha dato la sua benedizione alle milizie popolari sciite che si opponevano al Califfato insieme ai pasdaran guidati dal generale Qassem Soleimani, eliminato da Trump nel gennaio 2020 proprio all’aereoporto di Baghdad.
Insomma il papa è in visita da un leader che è stato cruciale per arrestare l’offensiva jihadista dell’Isis e capovolgere le sorti del conflitto, difendendo strenuamente l’indipendenza del Paese dagli Usa e anche dall’inevitabile influenza iraniana. Se c’era ancora Trump il papa forse non si sarebbe troppo fidato di andare in Iraq, con Biden, che pure continua a fare il pistolero in Siria, si può sentire meno minacciato.
Ma è da ricordare che proprio questo papa nel 2014 si è opposto ai bombardamenti di un altro presidente democratico sulla Siria. La guerra al papa proprio non piace, che ci volete fare…
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