Beppe Segre La nostra forza è il nostro dolore Il memoriale congiunto israeliano - palestinese

Da anni Parents’ Circle (l’Associazione delle famiglie di vittime israeliane e palestinesi) e Combatants for Peace (l’Associazione di ex militari israeliani e di ex guerriglieri palestinesi) organizzano insieme un memoriale congiunto per ricordare le vittime delle due parti del conflitto. L’anno scorso alla presenza di migliaia di partecipanti ci fu un intervento magnifico di David Grossman. È una delle manifestazioni più importanti della società civile in sostegno alla pace.

Il memoriale quest’anno, giunto alla 15a edizione, è avvenuto la sera del 27 aprile, al termine della giornata di Yom Hazikaron.

In che cosa questa edizione è stata diversa da tutte le altre?

Innanzitutto - la risposta è ovvia - la necessità di evitare affollamenti e l’obbligo di seguire precisi protocolli per contenere la minaccia di Covid-19 hanno imposto di riprogettare tutto il sistema, spostando discorsi, interviste e canti dal parco dove si svolgevano negli anni passati a sale chiuse al pubblico.

Al termine della cerimonia le persone interessate erano invitate a entrare virtualmente nelle case delle famiglie dell’Associazione, con sessioni Zoom per conoscere meglio le storie familiari.

La cerimonia si è svolta in streaming da Tel Aviv e da Ramallah ed è completamente visibile su YouTube: è così moltiplicato il numero delle persone che in ogni parte del mondo possono, sia pure virtualmente, partecipare alla manifestazione.

Nella prima edizione, nel 2006, c’erano 70 persone, l’anno scorso 9.000, quest’anno la cerimonia è stata vista da una platea di circa 200.000 visitatori: migliaia a Gaza, diecine di migliaia nella West Bank, e poi in Israele, Europa, Australia, USA, e nel resto del mondo.

Ma la cosa più importante quest’anno - concordano i presentatori della serata, Maya Katz, membro di Combatants for Peace per la parte israeliana e Osama Aliwat anche lui membro della stessa associazione per la parte palestinese, tutta la cerimonia è rigorosamente simmetrica e improntata all’amicizia e al rispetto reciproco - è che di alcune parole quest’anno è cambiato il significato.

Negli anni scorsi “chiusura” e “coprifuoco” erano parole che servivano ad una strategia di occupazione, segnavano il controllo esercitato da una parte e la sofferenza patita dall’altra, mentre il Coronavirus oggi è l’occasione della guerra dei due popoli contro una natura maligna, contro un assassino invisibile che non fa distinzioni per colpire, contro il quale è doverosa la solidarietà di tutti, israeliani e palestinesi, per salvare la vita degli uni e degli altri. Quest’anno, a differenza degli anni precedenti si sta separati, ognuno a casa propria, ma si deve lottare insieme, uniti contro un nemico comune.

La parola chiave quest’anno è Beiachad, insieme, che è risuonata più volte. Insieme siamo tenuti a combattere il nemico comune, e insieme ce la faremo. Insieme lavoriamo per la riconciliazione e la pace e insieme ce la faremo, questo è l’auspicio.                                          

Ogni attività dell’Associazione presenta come elemento centrale e fondamentale l’intreccio tra le tragedie di famiglie di israeliani e tragedie di famiglie di palestinesi: le esperienze e le responsabilità sono diverse, naturalmente, ma il sangue è dello stesso colore, le lacrime hanno la stessa amarezza, la sofferenza è identica.

Rami Elhanan vive a Gerusalemme da sette generazioni, si definisce ebreo, israeliano, e prima di ogni altra cosa, un essere umano. Sua figlia, Smadar, era un’adolescente di 13 anni, sorridente, gioiosa, piena di vita. Nel primo giorno di scuola, pochi giorni prima di Kippur, il 4 settembre 1997, si trovava a passare in Ben Yehuda Street a Gerusalemme, per comperare libri per il nuovo anno scolastico e lì fu uccisa, insieme alle sue compagne di scuola, dall’attentato di due palestinesi suicidi, che fecero esplodere una bomba provocando cinque vittime.

Bassam Arami, un palestinese musulmano di Hebron, ha perso la figlia di 10 anni, Abir, uccisa da un proiettile di gomma sparato da un militare israeliano vicino alla sua scuola.

Roby Damelin è una madre israeliana. Suo figlio, David, fu ucciso da un cecchino palestinese nel 2002 mentre si trovava a svolgere il servizio militare ad un checkpoint in prossimità di un insediamento.

Layla Alsheikh, palestinese, vive a Betlemme. Nel 2002 il suo bambino di sei mesi, Qussay, si ammalò ma i soldati israeliani impedirono a Layla di portarlo all’ospedale per più di cinque ore, Qussay morì dunque per la mancanza di un trattamento tempestivo.

Bassam e Rami, Roby e Layla, e come loro centinaia di padri e madri in lutto, uniti nel dolore, hanno saputo trasformare la rabbia che sentivano dentro in voglia di cambiare, partecipano alle manifestazioni, vanno a parlare nelle scuole, viaggiano per il mondo per diffondere l’insegnamento che deriva dal dolore e insieme per esprimere la voglia di vivere, e di vivere in pace.

L’esperienza del dolore più atroce per la perdita di un bambino innocente potrà essere utile per impedire altre guerre, evitare altre uccisioni?

Dopo le testimonianze dei familiari, una canzone lenta ripete incessantemente il ritornello: “Kamoha, come te, questo è il tuo nemico, è un uomo come te, fatto di carne e di sangue, esattamente come te”, e poi, a concludere la manifestazione, è invitato a parlare Sami Shalom Chetrit, intellettuale e poeta israeliano, che si presenta a parlare in questa cerimonia non come poeta, non come attivista dei diritti umani, ma come ex-combattente: nella terribile estate del 1982 entrava in Libano al seguito del generale Sharon. Espone i suoi ricordi di soldato, esprime l’assurdità e l’orrore per la guerra, e conclude: “Noi siamo destinati a convivere su questo fazzoletto di territorio, dobbiamo avere coraggio, credere nella pace, e coltivare la speranza. Paradossalmente questa speranza di pace ci viene non dalla politica, non dalle grandi potenze, ma da un microscopico e maligno Coronavirus, che ci sta insegnando che si sopravvive solo con la solidarietà”.

Per accentuare il concetto di “coltivare la speranza” lo scrittore israeliano cita alcuni versi di Mahmoud Darwish, considerato uno dei maggiori poeti arabi e riferimento importante per la causa palestinese:

”Qui, sui pendii delle colline,

dinanzi al crepuscolo e alla legge del tempo,

vicino ai giardini dalle ombre spezzate,

facciamo come fanno i prigionieri,

facciamo come fanno i disoccupati:

coltiviamo la speranza”.

La cerimonia è conclusa infine come ogni anno dal Coro femminile Rana, con la canzone “Chad Gadià” (il capretto). Il coro misto, composto da donne israeliane e da donne palestinesi, ha intonato il canto tradizionale ebraico, con cui abitualmente termina la celebrazione del Seder pasquale nella versione modificata nel 1997 da Chava Alberstein, israeliana di origine polacca, musicista, compositrice, cantante, poetessa, attivista per i diritti umani, che ha lavorato su un testo della tradizione ebraica, così importante e caro a ciascuno di noi, per esprimere l’orrore per la guerra e la voglia disperata di cambiare.

Il canto, che apparentemente è una filastrocca per bambini, in realtà racconta simbolicamente la storia delle dominazioni subite dal popolo ebraico e che avrà fine solo quando Kadosh Baruchù, il Signore Benedetto, avrà scacciato l’Angelo della Morte.

L’Haggadà di Pesach comincia dunque con il ricordo di una liberazione, quella degli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto, e finisce con la prospettiva di una liberazione ben più importante, la liberazione dell’umanità intera dalla morte e dai mali che l’affliggono.

Ma nella versione rivisitata da Chava, e che si riporta qui a fianco, non si aspetta passivamente l’intervento del Santo Benedetto che scaccerà l’Angelo della Morte: la guerra e i lutti che ne derivano non sono frutto di un destino immodificabile, dipendono solo dalle decisioni e dai comportamento umani, ed è responsabilità solo degli uomini interrompere questa guerra oscena che sembra non avere mai fine e che continua da un secolo a produrre lutti e dolore: quanto durerà ancora questo cerchio dell'orrore?

quando finirà mai questa pazzia?

Beppe Segre

 Un capretto

 

Un capretto, un capretto

che mio padre ha comprato per due zuzim.

…..

E venne l’Angelo della Morte,

che fece morire il macellaio,

che macellò quel bue,

che bevve l’acqua,

che spense il fuoco,      

che bruciò il bastone,

che bastonò quel cane,

che morse il gatto,

che mangiò il capretto,

che mio padre aveva comperato per due zuzim.

***

In tutte le altre notti, in tutte le altre notti

ho fatto solo quattro domande,

Questa sera ho una domanda in più:

quanto durerà questo cerchio dell'orrore?

Vincitore e vittima, bastonatore e bastonato,

quando finirà mai questa follia?

E cosa è cambiato ora per te? Cosa è cambiato?

Sono cambiato quest'anno:

ero un agnello, un capretto pacifico;

oggi sono una tigre e un feroce coyote.

Sono già stata una colomba e un ariete;

oggi non so esattamente chi sono.

Un capretto, un capretto

che mio padre ha comprato per due zuzim.

E ancora una volta ricominciamo dall'inizio.

 La nostra forza è il nostro dolore

Il memoriale congiunto israelo-palestinese


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