Abdalhadi Alijla : Oltre l'Habeas Viscus: in lutto per mio padre Gaza)


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Abdalhadi Alija ha lasciato Gaza nel 2007, da allora Israele non lo ha fatto più entrare. Poche settimane fa suo padre è morto senza che potesse vederlo per un'ultima volta: "Israele persiste nella politica di infliggere sofferenze, traumatizza i palestinesi. Agendo così, fa in modo che nella vit...
(traduzione di Monica Macchi)
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Roma, 30 dicembre 2019, Nena News – Ci sono dolori che non guariscono mai e ci sono istituzioni concepite al solo scopo di dis-umanizzare gli altri. Le istituzioni di un potere colonizzatore sono concepite non solo per rubare la terra degli autoctoni ma anche per infliggere loro dolore. Sin dal 1948 un genocidio continuo, persistente, che colpisce la libertà e la sovranità dei palestinesi andando a infierire sui corpi e limitandone i movimenti, ha provocato una morte lenta, sia fisica che mentale.
E sebbene molti palestinesi abbiano acquisito la cittadinanza di altri Paesi, cittadinanza che permette loro di muoversi liberamente, non possono rientrare in Palestina e andare dai loro cari a Gaza, anzi se solo provassero ad entrare molto probabilmente subirebbero abusi dagli ufficiali di frontiera.
Dunque, è la carne del corpo a identificare i palestinesi di Gaza. Come scrive Weheliye (1): “I geroglifici della carne rimangono un potenziale potente che resta appiccicato addosso, attaccato a un corpo razziale come non abbastanza umano”. Noi siamo stati dis-umanizzati. Io sono stato dis-umanizzato: uno Stato coloniale di nome Israele mi ha ridotto ad animale.
La mattina di domenica 3 dicembre, mi sono alzato stanco dopo aver viaggiato tutta la notte dalla Svezia a Beirut e ho trovato molte chiamate perse. Ho aperto i miei social media per vedere chi mi avesse cercato con tanta insistenza. Con orrore ho visto post di cordoglio per la morte di mio padre da parte di amici e parenti. Lo shock di aver perso mio padre senza aver avuto la possibilità di vederlo da dodici anni non è stato solo doloroso, mi ha fatto sentire come se fossi morto anch’io, come se qualcuno mi stesse maciullando il cuore mentre in silenzio affogavo in un mare di lacrime e grida strazianti.
Da quando ho lasciato Gaza nel 2007, Israele mi ha negato la possibilità di rientrare con nessun’altra motivazione se non il mio essere di Gaza. Mio padre è morto tra sofferenze e dispiaceri a causa di Israele e per me sarà lo stesso: ricorderò per sempre come il colonizzatore Israele ha inflitto questi dolori a me, a mio padre e a tutta la mia gente costruendo muri virtuali e fisici tra le persone che si amano. Questa è stata ed è tuttora la politica di Israele, una politica di distruzione, una politica che tortura.
A Beirut ero a sole cinque ore di strada da Gaza e a soli 40 minuti di volo dall’aeroporto di Gaza (completamente distrutto da Israele nel 2001) e a nove ore da Gaza via Il Cairo attraverso il deserto del Sinai, una rotta via terra, che richiede più o meno 48 ore anche se sono meno di 500 chilometri.
Il tormento psicologico affrontato dopo aver saputo della morte di mio padre mentre calcolavo le possibili vie per andare dalla mia famiglia rendendomi conto di tutti questi impedimenti laceranti, è stato enorme. In quel momento e in tutti i momenti in cui penso a tornare a casa, niente può descrivere meglio la mia vulnerabilità che il termine “animalizzazione” del mio essere a causa delle frontiere e del mio ruolo di trasgressore di frontiere sia agli occhi degli egiziani che degli israeliani. Come hanno argomentato Agamben (2) e Mbembe (3), “le frontiere politiche contemporanee espongono i trasgressori alla morte più che se usassero direttamente il loro potere di uccidere”.
Il giorno in cui ho lasciato Gaza, mio padre è stata l’ultima persona che ho visto. Sono andato via alle 5 di mattina, la stessa ora in cui molti anni dopo è morto lui. Quella mattina ero in moschea per la preghiera dell’alba, ci sono andato per salutare mio padre con una stretta di mano e baci sulle guance: ho sentito le mie lacrime fermarsi in gola e poi ho visto le sue, di lacrime. Le sue ultime parole sono state “Rendimi orgoglioso di te, come hai fatto sempre” e io ho risposto “Lo farò”.
Voglio che mio padre mi perdoni perché non ho mantenuto la mia promessa di rivederci. Ma non è stata colpa mia . La vita non va sempre come vogliamo noi. Negli anni seguenti ho viaggiato per tutto il mondo liberamente ma non ho potuto fare il viaggio che più desideravo: tornare a trovare mio padre e tutta la mia famiglia. Non potrei neppure tornare ora per porgergli i miei rispetti per l’ultima volta.
Ecco cos’è la crudeltà dell’occupazione, questa è la violenza brutale della colonizzazione che Israele esercita a tutti livelli
Questa violenza e il martirio perpetrato da Israele ha causato indicibili sofferenze al popolo palestinese. Siamo stati animalizzati e dis-umanizzati. La mia angoscia e le sofferenze di tutti i palestinesi di Gaza vengono ben espresse dai concetti di “geroglifici della carne” e di “biopolitica”. Israele non solo ha insediato un regime di apartheid in Palestina ma usa anche le innovazioni tecnologiche e le loro applicazioni pratiche per manipolare, separare e alterare la vita umana dei palestinesi andando persino oltre il concetto di “Habeas Viscus”
Con tutto quello che ho sentito, visto, assaporato, provato e vissuto il dolore della mia vita non guarirà mai: ho perso mio padre senza aver avuto la possibilità di vederlo per ben 12 anni. Lui invecchiava e io non potevo esserci: non ho potuto vederlo né prenderlo per mano o dargli un bacio sulla fronte.
Israele persiste nella politica di infliggere sofferenze, come risulta dalla traumatizzazione dei palestinesi dentro e fuori Gaza. Traumatizza i palestinesi che come me lasciano la Striscia di Gaza e non possono più tornarci. Agendo così, Israele fa in modo che nella vita dei palestinesi sia sempre presente la morte, che ci siano sempre angoscia e dolore nelle nostre vite.
Noi palestinesi andiamo oltre l’“Habeas viscus”. Angoscia e un tormento privo di ogni senso hanno trasformato le nostre vite in un niente sia dentro che fuori la Palestina.
In memoria di mio padre
Abdalhadi Alijla è uno scienziato politico e sociale. E’ co-leader of Global Migration and Human Rights presso la Global Young Academy, Ricercatore associato e Regional Manager al Varieties of Democracy Institute dell’Università di Gothenburg per i Paesi del Golfo. Da aprile 2018 è ricercatore al Post-Conflict Research Center di Sarajevo e da Gennaio 2020 sarà assegnista di ricerca (Max Weber post-doc) all’Orient Institute di Beirut
Note:
1) Weheliye, Alexander G. Habeas viscus: Racializing assemblages, biopolitics, and black feminist theories of the human. Duke University Press, 2014.
2) Agamben, Giorgio. “Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life.” (1998).
3) Mbembe A (2003) Necropolitics. Public Culture 15(1):11–40

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