Noa Bassel ‘Ringraziate di non essere gay a Gaza’
(tradotto in inglese Si Berrebi)
7 giugno 2018, +972
Visto
che i palestinesi sono privati dall’occupazione dei loro diritti, non
si possono considerare le conquiste della comunità LGBTQ israeliana come
un indice di tolleranza. Il nostro compito è di contrastare queste
opinioni e continuare a chiedere eguali diritti per tutti.
Ogni
anno a giugno, durante il “Mese dell’Orgoglio Gay”, il paradosso insito
costruito all’interno del discorso politico israeliano raggiunge
un’altissima intensità: più un gruppo sociale è oppresso, più ci si
aspetta che sia grato per quello che è dato per scontato dal resto della
popolazione.
I
palestinesi dovrebbero essere grati di poter frequentare l’università,
le femministe dovrebbero ringraziare Israele perché non vivono in Iran,
gli immigrati ebrei dall’Etiopia dovrebbero essere felici di non
trovarsi nella loro patria e le persone LGBTQ dovrebbero ringraziare di
poter camminare per strada.
Questi
gruppi sono sistematicamente attaccati o discriminati dalla polizia,
dal sistema giuridico, dalle istituzioni statali e dal mercato del
lavoro. Eppure si chiede loro di essere grati per la loro situazione,
non fosse altro che per il confronto con scenari immaginari se fossimo
nati in altri luoghi, tutto ciò al contempo mantenendo lo stigma che ci
condanna all’ inferiorità.
Il
discorso “di dover essere grati” viene diffuso da internet, da membri
del parlamento, da giudici della Corte Suprema e da alcuni membri della
comunità LGBTQ, e si basa su alcune significative contraddizioni. Primo,
in ogni lotta ci si chiede di smettere di combattere e di essere grati
per ciò che abbiamo già ottenuto – che in primo luogo non avremmo
ottenuto se all’epoca non avessimo smesso di dire grazie. Sono sicura
che i gay negli anni ’70 avrebbero potuto essere contenti che non fosse
stata applicata la legge che puniva il sesso tra uomini, che si potesse
sempre ingannare il proprio capo ed avere una relazione omosessuale dopo
aver messo al mondo dei figli all’interno delle comodità del
matrimonio.
Negli
ultimi due anni abbiamo dovuto spiegare perché non possiamo essere gay
solo nel privato delle nostre case, e la settimana scorsa nella città di
Kfar Saba [nella zona centrale del Paese, ndt.] la polizia ha chiesto
agli organizzatori del corteo dell’“Orgoglio Gay” di pagare per la
costruzione di un muro intorno ai manifestanti “per proteggerli”.
Fortunatamente in ognuna di queste circostanze ci sono state persone
coraggiose che dissentivano; grazie a loro adesso ci mostriamo
orgogliosamente di fronte a uomini in giacca e cravatta che ci chiedono
di ringraziarli.
Una
contraddizione più complessa è data dal raffronto tra i diritti LGBTQ
in Israele, in Cisgiordania e a Gaza. Anzitutto perché chi solleva la
questione non deve mai provare le proprie affermazioni: tutti sostengono
che gli omosessuali vengono buttati giù dai tetti. Ma se si prova a
calcolare soltanto quante persone gay sono state assassinate a Gaza, ed
in quali circostanze, ciò risulta molto difficile. La posizione
ufficiale di Israele è che le persone LGBTQ non subiscono sistematiche
persecuzioni in Cisgiordania.
Lo
status della popolazione LGBTQ nella società palestinese è tutt’altro
che perfetto, ma dirlo non è compito di chi solleva la questione come
mezzo per tacitare le critiche alle azioni di Israele. Inoltre, se la
vediamo dal punto di vista degli LGBTQ israeliani, l’accusa che la
società palestinese o musulmana sia intrinsecamente più omofoba di
quella ebrea appare una volgare generalizzazione. In entrambe le società
si possono trovare soggetti che accettano gli LGBTQ ed altri che li
contrastano. Da entrambe le parti vi sono organizzazioni che lottano per
i diritti LGBTQ.
Esponenti
religiosi minacciano la comunità da entrambe le parti. Il movimento
LGBTQ in Israele ha subito violenza, resistenza e difficoltà – proprio
come la sua controparte palestinese.
Purtroppo
i genitori israeliani cacciano ancora di casa i loro figli gay e le
persone LGBTQ e i loro sostenitori vengono ancora attaccati. La violenta
aggressione contro una transessuale a Tel Aviv, i due accoltellamenti
da parte di Yishai Schlissel [estremista religioso, ndt.] alla “Marcia
dell’Orgoglio Gay” a Gerusalemme e la sparatoria mortale al centro
giovanile LGBTQ [2 morti e 15 feriti nel 2009, delitto rimasto tuttora
impunito, ndt.], sono solo alcuni esempi (altri non trovano spazio nei
media).
Ogni
membro della comunità ha subito un attacco violento, o almeno una
aggressione verbale per la strada. I minori israeliani sono tuttora
mandati in terapia di conversione [dell’orientamento sessuale, ndtr.]
(l’anno scorso la Knesset ha votato contro una legge che intendeva
vietare questa pericolosa pratica). Solo la settimana scorsa il
vicepresidente della Liberia – che ha proposto una legge per rendere le
relazioni omosessuali un reato di primo grado punibile con 10 anni di
prigione – ha visitato Israele come ospite del ministero degli Esteri.
I
giovani israeliani piangono l’israeliana Shira Banki, che è stata
assassinata da un ultra- ortodosso alla “Marcia dell’Orgoglio Gay” di
Gerusalemme, il 2 agosto 2015. L’aggressore, Yishai Schlissel, accoltellò sei persone. (Yotam Ronen/Activestills.org). La
relativa apertura che riscontriamo oggi nell’opinione pubblica
israeliana è il risultato di una continua lotta da parte dei membri
della nostra comunità. Ma vi è anche una fondamentale differenza tra la
situazione delle persone LGBTQ dai due lati della barriera: chi è dal
lato di Israele gode di libertà di movimento, di maggior tempo libero e
reddito ed anche di miglior accesso all’istruzione superiore e
all’informazione, che consente di proseguire la lotta. Di questi diritti
gli LGBTQ palestinesi sono privati dallo Stato di Israele.
Perciò
non si possono considerare le conquiste della comunità in Israele – che
sono state ottenute in assenza dell’oppressione che subiscono i
palestinesi LGBTQ in Cisgiordania e a Gaza – come un indice di
tolleranza e pluralismo di Israele. Il nostro impegno come comunità
inclusiva è di resistere a queste opinioni e continuare a chiedere
niente di meno che eguali diritti per tutti.
Noa
Bassel è studentessa di lingue e attivista sociale. Questo articolo è
stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Haokets’ [rivista progressista israeliana online, ndtr.].
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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