Il confine di Gaza si trova a circa 500 metri di distanza, ma il kibbutz
israeliano di Nitzam sembra un’oasi di pace e di tranquillità. Nessun
controllo all’ingresso. Il cancello è spalancato e dal parcheggio si
diramano i vialetti pedonali che portano a case ben curate, tra
cipressi, prati verdi, macchie colorate di fiori. Solo il ronzio delle
pompe automatiche dell’acqua rompe il silenzio. Un gattone tigrato
osserva i visitatori dal davanzale di una finestra aperta, e poco più in
là due uomini stanno potando con calma una siepe. A guastare il quadro
idilliaco è il retro del kibbutz: dietro un muro di protezione
si apre una spianata di terra polverosa, piena di sterpaglie. È la zona
cuscinetto controllata incessantemente dall’esercito israeliano: ha lo
scopo di separare gli ultimi avamposti ebraici dalla barriera metallica
alta circa quattro metri, con sensori elettrici e filo spinato in cima,
che chiude quasi due milioni di persone nella Striscia di Gaza, in un
inferno – denunciano le organizzazioni umanitarie – di miseria e di
distruzione materiale e psichica.
Nei periodi di calma, gli abitanti di Nitzam o degli altri kibbutz
a ridosso del confine, vivono come se il problema non esistesse. La
presenza dei vicini-nemici palestinesi è rimossa. Anche qui però
qualcosa non funziona e di tanto in tanto si sente in lontananza una
sparatoria, o grida, o sgommare di camionette militari. Può accadere a
tutte le ore, specie di notte, perché non si tratta delle settimanali
manifestazioni organizzate da Hamas (scadenzate il venerdì
pomeriggio), ma dell’azione di singoli ragazzini palestinesi che cercano
di fuggire da Gaza con l’obiettivo principale di farsi arrestare dagli
israeliani.
«Sì, farsi arrestare – ci dicono nella
vicina stazione di polizia di Sderot – perché per loro le prigioni
israeliane rappresentano un albergo a cinque stelle rispetto alla vita
nella Striscia sotto Hamas». «Sembra che tutti vogliano venire
qui in Israele», scherza un agente davanti al commissariato, dove è
stato allestito un museo unico al mondo: la collezione di centinaia di
razzi qassam, lanciati dai miliziani di Hamas e caduti sull’abitato durante le ultime quattro guerre di Gaza dal 2006 al 2014.
Sderot,
nonostante l’aria tranquilla di cittadina di provincia, è conosciuta
come «la capitale del mondo dei rifugi antimissili». Ci sono bunker dappertutto,
a ogni incrocio e fermata di autobus. Negli ultimi mesi, di razzi ne
sono caduti pochi, ma di fuggiaschi ne sono passati tanti. Se riescono a
scavalcare la barriera senza essere uccisi o feriti, sono arrestati e
di solito interrogati per ore dall’esercito israeliano. In caso l’accusa
si limiti all’«ingresso illegale» sono mandati in carcere uno o due
mesi, prima di essere rinviati indietro, nella Striscia, dove subiscono
interrogatori e, talvolta, vessazioni ancora più dure da parte di Hamas,
che li sospetta di essere «traditori» venduti al nemico. Rabi ha 16
anni ed è stato detenuto per tre mesi prima di essere rimandato a Gaza.
In un’intervista a una agenzia palestinese, ha ricordato il suo
«soggiorno» coatto in Israele come un «bel periodo... avevo cibo,
serenità e un buon lavoro».
In un recente rapporto
firmato dal generale Yoav Mordechai, responsabile delle attività del
governo israeliano nei Territori palestinesi, si spiega che «esiste un
crescente fenomeno di giovani sotto i 20 anni, per lo più residenti nei
campi per rifugiati di Gaza, che per disperazione cercano di scavalcare
la barriera ed essere catturati dalle autorità israeliane, in modo di
poter mangiare in prigione almeno pasti regolari. Molti sperano di
ottenere anche una forma di guadagno per le loro famiglie rimaste nella
Striscia. Sia l’Autorità nazionale palestinese (Anp) sia Hamas
devolvono in genere uno stipendio ai prigionieri palestinesi in
Israele». Non ci sono numeri ufficiali. Decine ogni mese riescono a
scavalcare e a essere arrestati. Nel novembre 2017, scrive il quotidiano
Haaretz, sono stati catturati una trentina di ragazzi,
qualcuno aveva un coltello, la maggior parte erano disarmati. Tanti sono
però quelli che vengono uccisi o feriti nella fuga, in episodi
rubricati nei bollettini militari israeliani, come tentativi di assalti
alla sicurezza israeliana. L’esercito israeliano – spiega il portavoce,
colonnello Peter Lerner – «affronta ogni episodio come un potenziale
attacco terroristico. Chiunque scavalca la barriera può essere armato di
una granata, di una cintura esplosiva, di un coltello. Questa è la
nostra preoccupazione». Ateya Al Nabahin aveva 15 anni quando ha cercato
di passare dall’altra parte del confine. I militari israeliani hanno
sparato e lo hanno ferito al collo. È stato ricoverato – riferisce un
rapporto del locale ufficio dell’Onu per le questioni umanitarie – in
due ospedali israeliani, poi è stato riportato a Gaza: non può più né
camminare né parlare.
Il numero dei fuggitivi da Gaza è cominciato a crescere dopo l’ultima guerra tra Stato ebraico e Hamas nel
2014 e la chiusura da parte dell’Egitto del passaggio di Rafah, unica
via di uscita legale per i palestinesi di Gaza; anche il confine
egiziano è infatti sigillato da un muro di ferro e cemento e i tunnel
sotterranei di connessione tra la Striscia e l’Egitto sono stati
distrutti dagli israeliani quattro anni fa. Scavalcare la barriera
metallica di Israele diventa l’unica speranza per molti. «Vi è stato un
salto nei numeri ma non si può ancora parlare di fenomeno di massa»,
puntualizza il portavoce dell’esercito israeliano Lerner. Ed è troppo
presto per capire se il riavvicinamento tra Anp e Hamas e gli accordi per il controllo sui confini di Gaza provocheranno mutamenti.
Agli
inizi, le notizie sulle fughe dei palestinesi da Gaza terrorizzavano
gli abitanti degli insediamenti ebraici a ridosso della barriera. Troppo
vivo era il ricordo di quando, nel luglio 2014, durante la guerra, un
commando di 13 miliziani di Hamas era sbucato da un tunnel vicino a un kibbutz,
pronto a compiere un massacro. I componenti del gruppo islamista erano
stati tutti uccisi, ma l’episodio aveva innescato l’invasione di terra
della Striscia da parte dell’esercito israeliano. Con il tempo, come
scrive lo stesso generale Mordechai nel suo rapporto, si è capito che
quegli adolescenti in fuga si muovono per disperazione e non per
terrorismo. Le loro motivazioni sono le stesse dei trecento uomini,
donne e bambini salpati da Gaza su un barcone rattoppato nel settembre
2014 e morti tutti in un naufragio nel mar Egeo.
«Preferisco
non sapere nulla di loro», taglia corto una signora israeliana,
arrivata con le buste della spesa nel parcheggio del kibbutz Nitzam,
rispondendo alla domanda se abbia mai assistito all’arresto di qualche
fuggiasco. «Se l’esercito cattura qualcuno che scavalca la barriera,
penso che sia meglio ignorarlo, per evitare stress. Ne abbiamo già
passate di tutti i colori per colpa di Sharon». Il riferimento al
defunto primo ministro è dovuto al fatto che alcuni residenti di Nitzam
vivevano fino al 2005 in insediamenti all’interno di Gaza. Poi il
governo israeliano decise, contro la loro volontà, il ritiro unilaterale
e sigillò la Striscia.
Cosa succeda ora dentro a
Gaza, agli ex coloni poco importa. Anche a Sderot si preferisce non
farsi domande sul perché tanti ragazzini vogliano fuggire. A raccontarlo
sono i rapporti delle organizzazioni umanitarie, tra cui i volontari
israelo-palestinesi di Medici per i diritti umani. I bambini della
Striscia mangiano in media solo un pasto al giorno, molti solo un pasto
ogni due giorni e la carne solo una volta al mese. Dilagano miseria e
fame (vedi pp. 24-25). «I genitori non sono più in grado di accudire
fisicamente e mentalmente i propri figli. Gli adulti soffrono talmente
di depressione e traumi da non poter fornire gli aiuti necessari ai più
piccoli. È crollata quella rete di solidarietà sociale che
caratterizzava nel passato la società palestinese di Gaza. Ognuno cerca
di sopravvivere per conto suo alla propria disperazione», dicono i
medici volontari. La maggioranza degli abitanti della Striscia non
lavora o, se ha un impiego, guadagna al massimo un salario di 250 euro
mensili. Le famiglie sono composte da 12-13 persone.
In un’intervista ad Haaretz,
lo psicologo Mohammed Mansour riferisce che un terzo dei bambini da lui
visitati nel campo profughi di Jabalya a Gaza, in età tra 5 e 13 anni,
ha subito abusi sessuali o da adulti (spesso familiari) o da ragazzi più
grandicelli, diventati da vittime carnefici. È un tema talmente
doloroso da essere diventato un tabù. Quando abbiamo chiesto di parlarne
con il dottor Mansour, l’organizzazione Medici per i diritti umani ci
ha fatto sapere di aver deciso collettivamente di non trattare più in
pubblico la questione. Si capisce però che in questa catastrofe
umanitaria siano in tanti, tra i più giovani, a dirigersi verso la
barriera metallica del confine, con una sola alternativa in testa: «o la
morte o una prigione israeliana», come ha detto Ibrahim, 15 anni, ai
soldati israeliani che lo interrogavano, dopo averlo catturato.
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