Ugo Tramballi : L'ISOLAZIONISMO EGEMONICO AMERICANO

Isolazionismo. Autarchia. Nativismo (degli americani bianchi). Sembra ormai assodato che gli Stati Uniti si stiano chiudendo nella loro inespugnabile fortezza continentale. Una muraglia d’acqua a Est e a Ovest; muri nel più stretto senso del termine a Nord e Sud, dove non ci sono gli oceani; dazi alle importazioni e alleanze ignorate per dare un senso concreto all’allontanamento dal sistema di valori che l’America stessa aveva creato: globalizzazione, internazionalismo e promozione della democrazia.
Bene, non è così. O meglio, in parte lo è, ma l’obiettivo non è chiudersi dentro il continente Nord americano e buttare la chiave. Al contrario, è creare una potenza ancora più irraggiungibile, meno diplomatica e più militarizzata; egoista perché intende ambire a questa grandezza a scapito e non con il contributo dei tradizionali alleati né dei partner in affari.
Se cerchiamo le prove del ritiro americano dagli scacchieri nei quali si era progressivamente impegnato negli ultimi 70 anni, in realtà scopriamo le evidenze di una Grand Strategy. In un articolo sull’ultimo numero di “Foreign Affairs”, Barry Posen, direttore del Programma di studi sulla sicurezza al Massachussets Institute of Technology di Cambridge, la chiama “Ascesa dell’egemonia illiberale”. Donald Trump, in sostanza, non cerca orizzonti nuovi come aveva tentato di trovare Barack Obama nelle sue due legislature. Piuttosto, ricostruisce un modello di potenza da XIX secolo: qualcosa di più vicino alla Russia regressiva di Putin che alle eredità progressive, anche se non sempre progressiste, trasmesse dagli altri presidenti americani.
Sebbene si dica che gli Stati Uniti si siano ritirati dal Medio Oriente, in realtà oggi controllano circa un terzo del territorio siriano: direttamente o attraverso le milizie locali alleate. Per la sua permanenza in Iraq e Siria l’amministrazione Trump ha chiesto al Congresso un finanziamento da due miliardi di dollari in armi di precisione: è il 20% più di quanto il Pentagono aveva speso nel 2017 in tutte le aree di conflitto mediorientali. La ragione ufficiale è la lotta all’Isis, quella reale è controbilanciare le forze siriane di Bashar Assad e la presenza militare russa e iraniana nella regione. Sia pure come atto dimostrativo contro l’uso di armi chimiche, nell’aprile dell’anno scorso Trump aveva lanciato sulla Siria i missili che Barak Obama si era rifiutato di usare.
In Afghanistan l’impegno contro i Talebani è aumentato e la lotta si è fatta più dura. Nel confronto con l’Iran la sempre più probabile denuncia degli accordi internazionali sul nucleare presuppone un riarmo nella regione. Contro il parere degli alleati europei, l’esercito ucraino riceverà dagli Stati Uniti missili anti-carro e altri letali strumenti di precisione: armi offensive, non difensive. In Estremo Oriente nessun presidente aveva minacciato così esplicitamente una guerra contro la Corea del Nord, spostando scudi missilistici e flotte: nell’area del Pacifico la Marina americana partecipa a una media di 160 esercitazioni l’anno. Da ultimo, nel 2018 il monumentale bilancio per la Difesa sarà aumentato del 20%.
Riguardo all’hard power, scrive ancora Barry Posen, “le politiche dell’amministrazione Trump sembrano, come minimo, più ambizione di quelle di Barack Obama”. Se questo è un ritiro dalla geopolitica, è ben mascherato.
“Renderò le nostre forze armate così grandi, potenti & forti che nessuno scherzerà più con noi”, aveva twittato Trump durante la campagna elettorale. L’uomo ha molti difetti ma quanto a promesse elettorali sta dimostrando un’inaspettata coerenza. La recente cacciata di Rex Tillerson dal dipartimento di Stato e la metodica eliminazione degli ultimi internazionalisti dall’amministrazione, rafforzeranno quell’idea di isolazionismo aggressivo, di “egemonia illiberale” che il presidente vuole perseguire.
Samuel Huntington, lo scienziato della politica molto criticato per il suo realismo, ma forse il più lucido osservatore contemporaneo dopo Henry Kissinger, sosteneva che il potere americano ha sei componenti: economica, militare, diplomatica, ideologica, tecnologica e culturale. Nella quasi totalità di queste categorie, gli Stati Uniti continuano ad avere un primato assoluto sui concorrenti. Nella sua idea di potere nel mondo, tutt’altro che riduttiva a dispetto dei muri, Donald Trump sta usando solo alcune delle qualità americane: le più minacciose e non quelle che prima di lui avevano reso gli Stati Uniti una potenza indispensabile.

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