DI MANO ITALIANA – di Filippo Landi

Il Medio Oriente infuocato e la Palestina nel difficile contesto internazionale.  L’intelligence, i tentativi di dialogo e le politiche italiane.

Filippo Landi

Giornalista Rai, già corrispondente a Gerusalemme


Gli italiani in Medio Oriente per anni hanno avuto il volto degli operai andati, nella seconda metà dell’Ottocento, a scavare il Canale di Suez in Egitto. A qualche centinaia di chilometri, sulla costa libica del Mediterraneo, contigua a quella egiziana, avevano il volto dei soldati italiani andati a costruire la prima colonia italiana in Africa. Se in Egitto avevano l’aspetto di chi fatica per guadagnare il pane per sé e per la propria famiglia, diversamente andarono gli avvenimenti sulle coste e nel deserto libico. Qui i nostri generali guidarono una feroce repressione che raggiunse il culmine negli anni Trenta, nel periodo fascista, con migliaia di libici rinchiusi nei campi di internamento e altrettanti fucilati o morti di stenti in prigionia. Svanisce, con questi morti e con quelli che, poi, seguirono in Etiopia e in Eritrea, la favola degli italiani, colonialisti ma brava gente, che irrigavano il deserto e costruivano strade.


IL VOLTO DEGLI ITALIANI

Non sempre i diversi popoli arabi hanno così incontrato il volto buono degli italiani, ma talvolta hanno dovuto sopportare, invece, anche feroci repressioni che si sono prolungate per decenni.

Tuttavia, accanto alle divise dei militari o alle tute degli operai, o ai poveri indumenti di braccianti e contadini, gli arabi hanno incontrato anche i sai dei francescani, quasi sinonimo di italiani.

Questo è accaduto, e accade ancora oggi, ad Alessandria d’Egitto, a Gerusalemme, a Damasco. Sin dal lontano 1300, la Custodia dei luoghi santi, affidata all’Ordine francescano, ha rappresentato un formidabile, sia pur indiretto legame tra gli arabi e l’Italia. Insieme ai francescani, altri ordini religiosi, incardinati in Italia, dalle suore di san Vincenzo a quelle d’Ivrea, dai domenicani ai salesiani.

Quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i nuovi governanti italiani ereditarono il fardello delle nostre colonie e delle comunità italiane nei Paesi al di là del Mediterraneo (solo quella in Egitto contava quasi centomila persone) si trovarono in molti casi un percorso già tracciato.

Il cattolicesimo italiano, che diventa nella nuova età repubblicana forza politica e di governo, avrebbe trovato in alcuni personaggi la memoria storica, la forza e l’intelligenza per riannodare tra il Medio Oriente e l’Italia legami che andavano bel oltre la politica. Esemplare, in proposito, furono i viaggi di Giorgio La Pira in Terra Santa e in Egitto, accompagnato dall’amico e giornalista fiorentino Vittorio Citterich.

Al Cairo giunge nel 1960 e poi ancora nel 1968. Qui non mancarono di visitare l’Istituto tecnico salesiano, nel popolare quartiere di Shubra. Era un’occasione per approfondire la conoscenza del popolo arabo e le necessità e le aspirazioni dei giovani (cristiani e musulmani), una conoscenza che già andava ben oltre quella che si aveva nella maggior parte delle classi politiche e intellettuali europee. Gli incontri del Mediterraneo, che La Pira sindaco di Firenze avrebbe organizzato nella sua città, saranno un tentativo, forse l’unico, per aprire negli anni Sessanta un dialogo tra israeliani e palestinesi, tra i popoli arabi e l’Occidente europeo. La creazione dello Stato d’Israele e la guerra del 1948, con la sconfitta degli eserciti arabi e l’esilio di almeno 700mila palestinesi, avevano aperto in Medio Oriente una ferita non rimarginata. La guerra del 1956, con l’intervento franco-inglese contro l’Egitto, e poi la guerra del 1967, con la manifestazione della superiorità dell’esercito israeliano, avevano accresciuto nel mondo arabo un senso di frustrazione e rabbia, contro Israele e i suoi alleati europei e americani, che segneranno per decenni la storia, dalla fine della Seconda Guerra mondiale all’inizio del terzo millennio.


VERSO IL MEDIO ORIENTE

Ebbene, in quel contesto internazionale segnato dalla violenza, dal terrorismo e dalla disperazione, la politica italiana verso il Medio Oriente e la Palestina, in particolare, assume tratti di autonomia e originalità rispetto agli Stati Uniti e ai Paesi europei.

L’approccio di La Pira, che ricerca occasioni d’incontro tra israeliani e palestinesi, per raggiungere un’intesa che si fondi però sulla giustizia e il riconoscimento dei diritti dei due popoli, diventa la bussola culturale della nostra azione politica.

I nostri governanti, prima Giulio Andreotti e Aldo Moro, poi Bettino Craxi diventano interlocutori politici di Yasser Arafat e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Da questa reciproca conoscenza giungerà il via libera palestinese all’arrivo, nel 1982, a Beirut di un contingente di soldati italiani a difesa dei profughi palestinesi superstiti della strage compiuta nei campi di Sabra e Chatila. I due anni della presenza dei nostri bersaglieri a Beirut, sotto la guida del colonello e poi generale Franco Angioni, saranno fondamentali per consolidare un rapporto di rispetto e per certi aspetti di amicizia tra palestinesi, milizie libanesi musulmane sciite e soldati italiani. Esemplare un episodio accaduto nei primi giorni dell’arrivo a Beirut, quando il colonello Angioni diede l’ordine di disarmare qualsiasi miliziano si aggirasse armato nel perimetro della città sottoposto alla vigilanza dei soldati italiani.

I primi arresti furono effettuati, volutamente, nelle strade presidiate dai miliziani cristiani delle falangi libanesi. Il segnale era chiaro: nessuno poteva pensare di violare le direttive del comando italiano, anche se cristiano e quindi della stessa fede dei bersaglieri italiani.

Un messaggio chiaro, che fu accolto con stupore e apprezzamento dalle milizie musulmane sciite. Fu così che anche loro decisero di rinunciare a far girare armati i propri miliziani nell’aerea vigilata dagli italiani. Angioni diede, in quell’occasione, un primo segnale di imparzialità, al quale si aggiunsero molti altri.

L’accoglienza nell’ospedale militare a Beirut della popolazione cittadina, in particolare dei bambini bisognosi di cure, fu un altro caposaldo dell’imparzialità italiana.

Quasi una generazione di bambini musulmani attraversò l’ospedale italiano.

Non è arbitrario dire che una parte importante degli attuali ufficiali delle milizie sciite degli Hezbollah è stata visitata e curata dai nostri dottori militari a Beirut agli inizi degli anni Ottanta.

Un’accoglienza mai dimenticata e che rappresenta il vero asso nella manica della protezione da atti terroristici del nostro contingente sotto bandiera Onu nel sud del Libano.

In quegli anni l’Italia consolida e affina una propria rete di intelligence in Medio Oriente, che rappresenterà per decenni la possibilità di conoscere in profondità i movimenti e le azioni dei movimenti di resistenza palestinesi e di altri presenti in altri Paesi arabi. Con l’OLP abbiamo anche tentato accordi, al fine di preservare l’Italia da attentati da parte di gruppi palestinesi. In particolare, nel 1973, dopo il ritrovamento di razzi antiaerei in una casa di Ostia, non lontano da Fiumicino, e l’arresto di un gruppo di palestinesi. A cui seguì la strage a Fiumicino del dicembre 1973 e, molti anni dopo, un’altra strage, sempre a Fiumicino, nel dicembre del 1985. D’altra parte i servizi segreti israeliani non esitavano a trasformare l’Italia in un campo di battaglia contro i palestinesi, come in occasione dell’uccisione nel 1973 di Walil Zwaiter, un dirigente dell’OLP nel quartiere Trieste di Roma e, sempre nella capitale, di due altri dirigenti nel 1982.

Senza dimenticare nel novembre 1973 la caduta di un aereo, Argo 16, usato dai nostri servizi segreti o il rapimento nel 1986 a Roma del tecnico israeliano Mordechai Vanunu, accusato di aver rivelato il possesso di armi atomiche da parte di Israele.

Il cambiamento radicale della politica italiana verso la Palestina avviene con i governi Berlusconi. Il ministro degli Esteri Franco Frattini si reca a Gerusalemme e pronuncia un’affermazione di grande effetto: “L’Italia – dice – è il più importante amico di Israele, dopo gli Stati Uniti”. Parole che, nella nuova era delle televisioni  satellitari, raggiungono tutto il mondo arabo e musulmano. Uno dei primi atti sarà di esaudire una richiesta israeliana: quella di inserire il movimento di Hamas nella lista dei movimenti considerati terroristici dall’Unione Europea.

Quando questo movimento vincerà nel gennaio 2006 le elezioni politiche in Palestina i Paesi europei si troveranno nell’impossibilità di avviare un dialogo politico.

Un fatto, questo, che l’ex premier inglese Tony Blair recentemente ha giudicato un grave errore politico e diplomatico da parte dei Paesi europei.


VERSO GERUSALEMME CAPITALE?

Non solo. L’Italia cambia la sua politica di intelligence.

Smantella in gran parte la sua rete di agenti in Medio Oriente, che aveva trovato il suo fondatore nel colonello Giovannoni, che operava nella sede di Beirut. Tutte le informazioni che giungono in Italia passano, in modo o nell’altro, attraverso l’intelligence israeliano. La lotta al terrorismo fondamentalista diventa l’unico sforzo operativo a cui tutto sottomettere.

L’Italia cessa di avere una propria politica rispetto al conflitto palestinese. Tace rispetto all’avanzare delle colonie israeliane a Gerusalemme est e negli altri territori palestinesi. Rispetto alla fondamentale richiesta di Gerusalemme est capitale dello Stato palestinese i governi italiani restano in silenzio, si defilano, si nascondono dietro la necessità di trattative e accordi tra le parti. Nella piena consapevolezza che le parti non hanno affatto uguale forza nella trattativa. Di più, l’Italia giunge a vendere aerei “da addestramento” a Israele e avvia esercitazioni militari congiunte con l’aviazione israeliana. Ha un sussulto quando vota per l’ammissione della Palestina come Stato osservatore alle Nazioni Unite.

Ancor più recentemente quando, all’ONU, si schiera in Assemblea Generale con la maggioranza di Stati che condanna la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. Una decisione per la quale vale il detto che non serve chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Nel contempo, le fonti di informazione italiane, in primo luogo i canali radiofonici e televisivi che fanno capo alla Rai e a Mediaset, restringono sempre più lo spettro delle notizie e delle analisi, eliminando quelle che potrebbero mettere in discussione le tesi dei governanti israeliani.

La nostra unica azione “politica” verso i palestinesi e le loro fragili istituzioni è stato un flusso (modesto) di denaro, sotto il mantello europeo, o direttamente attraverso iniziative della nostra cooperazione internazionale.

Un tentativo, in verità maldestro, di coprire una politica avviata da Berlusconi e Fini, ma proseguita per lungo tempo anche da Monti e Renzi, di concreto sostegno politico a Israele.

Scelte che non hanno avvicinato di un solo giorno la conclusione del conflitto tra palestinesi e israeliani.


DI MANO ITALIANA – di Filippo Landi

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