Noa Landau
Le
molte dichiarazioni del primo ministro negli ultimi due anni riguardo
ad un presunto e vistoso cambiamento nell’atteggiamento del mondo verso
Israele non hanno superato la prova della realtà.
Più
passava il tempo prima della sconfitta all’Assemblea generale dell’ONU,
tanto più a Gerusalemme cambiavano le aspettative sui risultati attesi.
All’inizio
Israele ha cercato di convincere più Paesi possibile a votare contro la
risoluzione, ma quando le esplicite minacce americane di tagliargli gli
aiuti non hanno cambiato in modo significativo la situazione, il
principale tentativo fatto è stato centrato sul convincere i leader
almeno ad astenersi o ad andarsene improvvisamente per le vacanze di
Natale e assentarsi dall’aula. E se questo non avesse funzionato, che
per lo meno abbassassero il tono dei loro discorsi durante il dibattito.
Dopo
il voto, il primo ministro Benjamin Netanyahu ed il suo ministro degli
Esteri, Benjamin Netanyahu [Netanyahu ricopre entrambi gli incarichi,
ndt.], hanno risposto all’unisono: “Israele rifiuta la risoluzione
dell’ONU ed esprime la sua soddisfazione per il grande numero di Paesi
che non hanno votato a favore della risoluzione,” rallegrandosi delle
astensioni e festeggiando le assenze.
La
maggiore delusione per Israele è venuta dai Paesi che negli ultimi anni
hanno rafforzato i rapporti bilaterali, soprattutto quelli che
condividono con il governo Netanyahu una visione molto conservatrice.
Per esempio l’India, il cui primo ministro Narendra Modi ha visitato
Israele in luglio – un viaggio memorabile soprattutto per le immagini
bucoliche di lui e Netanyahu abbracciati che sguazzavano nelle onde – ha
votato la risoluzione contro Israele e contro gli Stati Uniti. Durante
la sua visita Netanyahu aveva definito Modi “un’anima gemella”. Ma anche
con la visita bilaterale prevista a metà del prossimo mese, l’India non
cambiato idea sul proprio rifiuto di astenersi.
Altre
delusioni significative sono venute dalla Grecia e da Cipro, con cui è
stato firmato molto recentemente un accordo per il gas naturale. La
Russia e la Cina che Netanyahu loda in continuazione per i loro calorosi
rapporti con Israele, hanno di nuovo votato, come al solito, per la
posizione palestinese.
Un
diplomatico israeliano ha detto che il principale insegnamento da
trarre da questo episodio potrebbe essere una “lezione di umiltà”. Alla
luce del voto del consiglio a New York, dove 128 quadratini luminosi
verdi sono apparsi al suono di fragorosi applausi che sono rimbombati
nell’aula quando si è saputo il risultato, le molte dichiarazioni del
primo ministro negli ultimi due anni riguardo al presunto cambiamento
significativo dell’atteggiamento del mondo verso Israele ora appaiono a
dir poco diverse.
Ma
ci sono state anche modeste consolazioni. Sei Paesi hanno rotto
l’unanimità dell’Unione Europea ed hanno accolto le pressioni israeliane
ad astenersi. L’Ungheria ed il suo leader Orban hanno guidato la
ribellione, insieme alla Repubblica Ceca, il cui primo ministro è stato
messo sotto pressione da Netanyahu prima del voto, ed alla Polonia, la
cui posizione in Europa è comunque indebolita, e insieme a Croazia,
Lettonia e Romania hanno votato per la risoluzione. Austria e Lituania,
anche loro considerate amiche di Israele, hanno votato a favore della
risoluzione. E ad ogni modo l’astensione dei Paesi dell’Europa
orientale, come ha spiegato dalla tribuna il rappresentante della
Cechia, è stata debole: “Non ci opponiamo alla posizione dell’Unione
Europea sulla questione di Gerusalemme (la salvaguardia dei confini del
1967), ma ci asteniamo perché non pensiamo che il voto di questo
pomeriggio farà progredire la pace.”
Il
ministro degli Esteri ha riservato i suoi commenti più negativi
all’”Europa classica”, alla Germania, per esempio. Alcuni Paesi
africani, in cui Israele sta investendo un notevole impegno, si sono
astenuti (per esempio il Rwanda e il Sud Sudan) o erano assenti (come il
Kenia), mentre uno, il Togo, ha persino votato contro la risoluzione. È
anche interessante notare l’astensione dell’Argentina, che Netanyahu ha
visitato quest’anno. Tuttavia, in sostanza, se prendiamo in
considerazione i viaggi di Netanyahu quest’anno, e sono stati molti – 59
giorni all’estero – non ci sono prove che queste visite abbiano dato
risultati giovedì all’Assemblea Generale dell’ONU.
Rispetto
agli esiti di importanti votazioni precedenti, per esempio nel 2012
sulla promozione dei palestinesi allo status di osservatori, c’è qualche
miglioramento per quel che riguarda il governo: allora votarono “sì”
138 Paesi; questa volta lo hanno fatto “solo” 128. Ma questa volta non è
stato messo alla prova solo il sostegno a Israele, era sotto esame
soprattutto l’appoggio agli Stati Uniti. Poiché negli scorsi giorni il
presidente Donald Trump e la sua ambasciatrice alle Nazioni Unite, Nikki
Haley, non hanno esitato da fare esplicite minacce (“di prendere i
nomi”) e di vendicarsi di chi avesse votato “sì” tagliando gli aiuti USA
a quei Paesi, i quadratini verdi sulla lavagna elettronica hanno
segnato non solo il chiaro appoggio della maggior parte dei Paesi alla
soluzione dei due Stati all’interno dei confini del 1967, ma anche una
crescente sfiducia nell’amministrazione Trump come mediatrice neutrale
nel conflitto e nello stesso Trump come leader di una potenza mondiale.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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