–Ugo Tramballi :Sei giorni, mille guerre

 
 
 
 
«Ci sono cose di cui mi rammarico. Per esempio gli insediamenti nei Territori nei quali io stesso, sfortunatamente, ho messo mano, e che sono stati
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«Ci sono cose di cui mi rammarico. Per esempio gli insediamenti nei Territori nei quali io stesso, sfortunatamente, ho messo mano, e che sono stati davvero un grande errore», ammise Shimon Peres nel 2007, quando diventò presidente d’Israele. Ma era ormai troppo tardi.
Apparentemente quella dei Sei giorni non fu molto diversa dalle altre guerre combattute e vinte da Israele. Fu rapida: iniziò all’alba del 5 giugno 1967 e l’11 le parti firmarono il cessate il fuoco. Mai gli israeliani ebbero un successo così folgorante: l’attacco a sorpresa della loro aviazione distrusse a terra l’aeronautica egiziana e siriana. Avevano preso l’iniziativa per anticipare quella che sembrava un’imminente aggressione, dopo che l’Egitto aveva chiuso alle navi israeliane gli stretti di Tiran, nel golfo di Aqaba. Oggi la storiografia ha quasi accertato che Gamal Nasser stesse barando. Millantare la forza che non si possiede, è un pericoloso vizio dei rais. Circa 35 anni dopo anche Saddam Hussein avrebbe fatto credere di possedere l’atomica che l’Iraq non aveva: invece di tenere lontano gli americani, offrì loro il pretesto per attaccare. Più o meno così andò anche a Nasser.
Levi Eshkol, l’unico premier della storia d’Israele ad essere più incline al negoziato che all’azione, cercò di evitare il conflitto. Fu sconfitto dal partito della guerra nel suo governo che poche ore prima dell’attacco impose Moshe Dayan come ministro della Difesa. Alcuni anni dopo anche Dayan sarebbe diventato uomo del dialogo. Come Yitzhak Rabin che nel ’67 era il capo di Stato Maggiore delle forze armate: guidando la guerra dal quartier generale di Tel Aviv, Rabin s’intossicò di sigarette fino a svenire; e come Ezer Weizman il comandante dell’aeronautica, l’artefice di “Bazak” la vittoria lampo.
Questo sarebbe stata la guerra dei Sei giorni – una delle tante nella regione - se nel corso di quella settimana scarsa Israele non avesse conquistato 26mila miglia quadrate di territorio arabo, tre volte più grande degli 8mila dello Stato d’Israele. È questo che ne fa il conflitto più importante: ha aperto mezzo secolo di conflitti e speranze ancora in sospeso, in attesa di soluzione. La bibliografia è vasta. Dal bellissimo “1967” di Tom Segev (Metropolitan Books, 2008), all’ortodosso La Guerra dei Sei Giorni – Alle origini del conflitto arabo-israeliano di David Oren (Mondadori 2004), al polemico Six Days War – A Narrative History di Jeremy Bowen (Simon & Shuster, 2004).
Israele ha restituito la penisola del Sinai agli egiziani (1979), la striscia di Gaza ai palestinesi (2005); se volessero farlo, non saprebbero a chi riconsegnare le alture del Golan siriane. Ma il cuore del problema sono Gerusalemme Est e la Cisgiordania, occupate da più di 700mila coloni ebrei. La conquista fu un imprevisto della storia: Israele aveva invitato Hussein a restare fuori dalla guerra. Ma quando Nasser gli telefonò barando anche sull’andamento del conflitto, il re giordano gli credette e intervenne. In poche ore “Motta” Gur, il comandante dei parà, conquistò la città vecchia e in due giorni il generale Uzi Narkis prese tutta la Cisgiordania.
A Elyakim Ha’etzny, uno dei fondatori del Gush Emounim, i radicali israeliani dalle cui costole sono nati tutti i movimenti ebraici nazional-religiosi di oggi, una volta chiesi cosa ne sarebbe stato della sua vita da militante sulle colline della Giudea se Hussein non avesse creduto alla menzogna di Nasser. «Avrei continuato a fare l’avvocato a Tel Aviv», rispose nella sua casa di Kiryat Arba, la più violenta delle colonie. La sproporzionata differenza fra una vita estrema e una normale solo per un dettaglio della storia, era il sottile veleno che l’occupazione aveva inoculato nell’organismo d’Israele.
L’occupazione dei Territori «ha contaminato le nostre norme come una falda acquifera inquinata», sosteneva A.B. Yehoshua. «Dal 1967 in Israele hanno incominciato a funzionare due sistemi paralleli: quello normativo, costituzionale dello Stato d’Israele e, dall’altro lato, i Territori amministrati dove le norme morali e di polizia erano completamente differenti». All’inizio, dopo la vittoria, gli israeliani non avevano le idee chiare su cosa fare dei territori. Un mese dopo la guerra, di fronte a un milione di palestinesi da governare, il ministro dell’Educazione inviò una lettera al generale Narkis: «Dobbiamo insegnare loro i nostri programmi scolastici? Bialik, Chernichowsky, Sholom Aleichem, la Bibbia? Cosa dobbiamo fare?». Non ebbe una risposta.
Sei mesi prima della guerra il Mossad aveva stabilito che in caso di guerra l’esercito avrebbe dovuto entrare in Cisgiordania solo per eliminare i centri della resistenza palestinese dai quali partivano gli attacchi dei fedayn. Un’occupazione sarebbe stata “una catastrofe”. In un memorandum segreto che affrontava gli aspetti politici ed economici di un’occupazione, il centro studi delle Forze armate, il Collegio della difesa nazionale, sottolineò che fra il 2035 e il ’50 la popolazione araba avrebbe superato quella ebraica. Se agli arabi d’Israele si fossero aggiunti quelli di una Cisgiordania annessa, il partito palestinese sarebbe stato il secondo in parlamento. L’alternativa all’estensione agli arabi dei diritti goduti dagli ebrei, sarebbe stata la riduzione della libertà, la chiusura dei palestinesi in zone isolate. Razzismo e oppressione che «noi come popolo e come ebrei aborriamo, che porrebbero Israele in una luce negativa e in una posizione internazionale difficile», concluse il generale Elad Peled, il comandante del Collegio di difesa.
Nel settembre 1967, tre mesi dopo la guerra, fu inaugurato il primo insediamento ebraico, Kfar Etzion, a Sud di Betlemme. «Nessuno in Israele ha il diritto di cedere uno iota della Terra d’Israele che possediamo», stabilì Yitzhak Nissim, il rabbino capo sefardita di allora. Il conflitto politico, il risorgimento nazionale di due popoli, l’ebraico e il palestinese, sarebbe inesorabilmente scivolato verso lo scontro religioso. Cinquant’anni più tardi, è ormai incapace di liberarsene.
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