Il
rapporto completo della Commissione ONU economica e sociale per l’Asia
Occidentale (ESCWA) di Richard Falk e Virginia Tilley è stato rimosso
dal sito web della Commissione delle Nazioni Unite (ESCWA).
La
redazione di Zeitun ritiene molto importante tradurre e pubblicare
almeno la sintesi del rapporto, che denuncia il regime di apartheid che
Israele esercita contro il popolo palestinese sia all’interno dei propri
confini che nei territori occupati, compresa Gerusalemme est.
Compendio sintetico
Questo rapporto giunge
alla conclusione che Israele ha stabilito un regime di apartheid che
domina il popolo palestinese nel suo complesso. Consci della gravità di
questa affermazione, gli autori del rapporto concludono che prove a
disposizione dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio che Israele è
responsabile di politiche e prassi che configurano il crimine di
apartheid, in base alla definizione giuridica contenuta nella
legislazione internazionale.
L’analisi contenuta in
questo rapporto si basa sul corpus delle leggi e dei principi
internazionali sui diritti umani, incluse la Carta delle Nazioni Unite
(1945), la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) e la
Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni Forma di
Discriminazione Razziale (1965), che ripudiano l’antisemitismo ed altre
ideologie di discriminazione razziale. Il rapporto basa la sua
definizione di apartheid anzitutto sull’articolo II della Convenzione
Internazionale sulla Soppressione e Punizione del Crimine di Apartheid
(1973, d’ora in poi Convenzione sull’Apartheid):
Il termine “crimine di
apartheid”, che include politiche e prassi simili alla segregazione e
discriminazione razziale praticate in Sudafrica, si applica a …atti
inumani compiuti allo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un
gruppo razziale di persone su un altro gruppo razziale e di opprimerlo
in modo sistematico.
Benché
il termine “apartheid” sia stato originariamente associato alla
situazione specifica del Sudafrica, oggi rappresenta una fattispecie di
crimine contro l’umanità in base al diritto internazionale
consuetudinario e allo Statuto di Roma della Corte Penale
Internazionale, secondo cui per “il crimine di apartheid” si intendono
atti inumani….compiuti nel contesto di un regime istituzionalizzato di
oppressione e dominazione sistematica da parte di un gruppo razziale nei
confronti di un altro gruppo o gruppi razziali e commessi con
l’intenzione di perpetuare tale regime.
In questo contesto, il
rapporto riflette il consenso degli esperti sul fatto che la proibizione
dell’apartheid è universalmente applicabile e non è stata messa in
discussione dalla fine dell’apartheid in Sudafrica e in Africa sud
occidentale (Namibia) .
Le prassi israeliane nei confronti del popolo palestinese e la questione dell’apartheid.
L’approccio giuridico
alla questione dell’apartheid adottato in questo rapporto non deve
essere confuso con l’uso del termine nel discorso corrente come
espressione dispregiativa. Considerare l’apartheid come singole azioni e
prassi ( quale ad esempio “muro dell’apartheid”), come fenomeno
generato da condizioni strutturali astratte come il capitalismo
(“apartheid economico”), o comportamento sociale privato da parte di
certi gruppi razziali verso altri (razzismo sociale), può essere
opportuno in certi contesti. Tuttavia questo rapporto riconduce la sua
definizione di apartheid al diritto internazionale, che comporta
responsabilità per gli Stati, come specificato nelle norme
internazionali.
La scelta delle prove si
basa sulla Convenzione sull’Apartheid, che sancisce che il crimine di
apartheid consiste in specifici atti inumani, ma tali atti acquisiscono
lo status di crimini contro l’umanità solo se intenzionalmente
finalizzati allo scopo fondamentale di dominazione razziale. Lo Statuto
di Roma specifica nella sua definizione la presenza di un ‘regime
istituzionalizzato’ che risponde all’ “intenzione” di dominazione
razziale. Poiché “scopo” e “intenzione” sono centrali in entrambe le
definizioni, questo rapporto, per stabilire oltre ogni dubbio la
presenza di tale scopo fondamentale, prende in esame elementi
apparentemente disgiunti dalla situazione palestinese – in particolar
modo la dottrina per la costituzione dello Stato ebraico come declinata
nella legge ed il progetto delle istituzioni statali israeliane.
Che il regime israeliano
sia finalizzato a questo scopo fondamentale trova conferma nel corpo
delle leggi, solo alcune delle quali, per ragioni di spazio, vengono
prese in considerazione nel rapporto. Un esempio rilevante è la politica
della terra. La Legge Fondamentale di Israele (Costituzione) sancisce
che la terra di proprietà dello Stato di Israele, dell’Autorità
Israeliana per lo Sviluppo o del Fondo Nazionale Ebraico non potrà
essere trasferita in alcun modo, stabilendo che la sua gestione resti
permanentemente sotto la loro autorità. La Legge della Proprietà dello
Stato del 1951 prevede la devoluzione della proprietà (inclusa la terra)
allo Stato in ogni area “in cui vige la legge dello Stato di Israele”.
L’Autorità Israeliana per la Terra (ILA) gestisce la terra dello Stato,
che consiste nel 93% della terra all’interno dei confini
internazionalmente riconosciuti di Israele e vi è per legge vietato
l’uso, lo sviluppo o la proprietà da parte di non-ebrei. Queste leggi
incarnano il concetto di “finalità pubblica”, come espresso nella Legge
Fondamentale. Tali leggi possono essere modificate dal voto della
Knesset (Parlamento israeliano), ma non la Legge Fondamentale: la
Knesset vieta a tutti i partiti politici di mettere in discussione
quella finalità pubblica. Di fatto, la legge israeliana rende illegale
l’opposizione alla dominazione razziale.
L’ingegneria demografica
è un altro settore della politica che serve allo scopo di mantenere
Israele uno Stato ebraico. La più conosciuta è la legge israeliana che
conferisce agli ebrei di tutto il mondo il diritto di entrare in Israele
ed ottenere la cittadinanza israeliana, qualunque sia il loro Paese di
origine ed a prescindere dal fatto che possano o meno dimostrare legami
con Israele-Palestina, mentre d’altro lato nega ogni analogo diritto ai
palestinesi, compresi quelli con documenti di possesso di antiche case
nel Paese. L’Organizzazione Mondiale Sionista e l’Agenzia Ebraica
dispongono di autorità legale come agenzie dello Stato di Israele per
agevolare l’immigrazione ebraica e salvaguardare in primo luogo gli
interessi dei cittadini ebrei su questioni che vanno dall’uso della
terra ai piani di sviluppo pubblici ed altri aspetti considerati vitali
per lo Stato ebraico. Alcune leggi con contenuti di ingegneria
demografica sono formulate con linguaggio implicito, come anche quelle
che consentono ai consigli ebraici di respingere le richieste di
residenza da parte di cittadini palestinesi.
La
legge israeliana permette normalmente ai coniugi di cittadini
israeliani di trasferirsi in Israele, ma nega ingiustamente questa
possibilità se si tratta di palestinesi dei territori occupati o che
vivono all’estero. Su scala molto maggiore, è una prerogativa della
politica israeliana rifiutare il ritorno di tutti i palestinesi
rifugiati e in esilio (in totale circa sei milioni di persone) nel
territorio sotto il controllo di Israele.
Per
attribuire ad un regime la qualifica di apartheid devono essere
presenti altre due caratteristiche di un regime sistematico di
dominazione razziale. La prima riguarda l’identificazione delle persone
oppresse come appartenenti ad uno specifico “gruppo razziale”. Questo
rapporto recepisce la definizione della Convenzione Internazionale
sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale, che
definisce “discriminazione razziale” “ogni distinzione, esclusione,
restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, la stirpe, o
l’origine nazionale o etnica, che abbia l’obbiettivo o l’effetto di
annullare o ridurre il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, con
pari dignità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali nell’ambito
politico, economico, sociale, culturale o altri della vita pubblica.”
Su questa base il rapporto ritiene che nel contesto geopolitico della
Palestina, ebrei e palestinesi possano essere considerati “gruppi
razziali”. Inoltre la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di
ogni Forma di Discriminazione Razziale viene espressamente citata nella
Convenzione sull’Apartheid.
La seconda caratteristica sono la delimitazione ed il carattere del gruppo o dei gruppi coinvolti.
Lo status dei
palestinesi come popolo titolato ad esercitare il diritto
all’autodeterminazione è stato giuridicamente stabilito nel modo più
autorevole dalla Corte Internazionale di Giustizia nel suo parere
consultivo del 2004 sulle conseguenze legali della costruzione di un
muro nei territori palestinesi occupati. Su questa base, il rapporto
prende in esame il trattamento da parte di Israele del popolo
palestinese nel suo complesso, considerando le chiare situazioni di
frammentazione geografica e giuridica del popolo palestinese come una
condizione imposta da Israele. (L’allegato II tratta la questione di una
corretta identificazione del “Paese” responsabile della negazione dei
diritti palestinesi previsti dalle leggi internazionali).
Il rapporto rileva che
la frammentazione strategica del popolo palestinese è il principale
metodo con il quale Israele impone un regime di apartheid. Anzitutto
prende in esame le prassi israeliane verso il popolo palestinese e la
questione dell’apartheid, di come la storia del conflitto, la divisione,
l’annessione di diritto e di fatto e la prolungata occupazione in
Palestina abbiano portato il popolo palestinese ad essere diviso in
diverse zone geografiche amministrate da diversi ordinamenti
legislativi. Questa frammentazione agisce nel senso di stabilizzare il
regime israeliano di dominazione razziale sui palestinesi ed indebolire
la volontà e la capacità del popolo palestinese di organizzare una
resistenza unitaria ed efficace. Vengono utilizzati metodi differenti a
seconda di dove vivono i palestinesi. Questo è il mezzo principale con
cui Israele impone l’apartheid e al tempo stesso impedisce la presa di
coscienza internazionale di come funziona il sistema in quanto insieme
complementare per costituire un regime di apartheid.
Dal
1967 in poi, i palestinesi in quanto popolo sono vissuti in quelle che
il rapporto definisce quattro “ ambiti”, in cui i vari settori della
popolazione palestinese vengono chiaramente trattati in modo diverso, ma
hanno in comune l’oppressione razziale che deriva dal regime di
apartheid. Questi “ambiti” sono:
-
Il diritto civile, con particolari restrizioni, che governa i palestinesi che sono cittadini di Israele;
-
La legge di residenza permanente che governa i palestinesi residenti a Gerusalemme;
-
La legge militare che governa i palestinesi, compresi
quelli nei campi profughi, che vivono dal 1967 in una situazione di
occupazione aggressiva in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza;
-
La politica di negazione del ritorno dei palestinesi,
sia rifugiati che esiliati, che vivono fuori dal territorio sotto
controllo israeliano.
Il primo ambito
comprende circa 1.7 milioni di palestinesi che sono cittadini di
Israele. Nei primi 20 anni di esistenza del Paese hanno vissuto sotto la
legge marziale ed ancor oggi vengono oppressi per il fatto di non
essere ebrei. Questa politica di dominazione si manifesta attraverso
peggiore qualità dei servizi, leggi che impongono zone soggette a
restrizioni e limitate disponibilità di bilancio per le comunità
palestinesi; limitazioni nelle opportunità di lavoro e professionali e
il contesto prevalentemente segregato in cui ebrei e palestinesi
cittadini di Israele vivono. I partiti politici palestinesi possono
condurre campagne per limitate riforme e maggiori finanziamenti, ma la
Legge Fondamentale proibisce loro di mettere in discussione la
legislazione che perpetua il regime razziale. Questa politica è
rafforzata dalle implicazioni derivanti dalla distinzione che avviene in
Israele tra “cittadinanza” (ezrahut) e “nazionalità” (le’um): a tutti i
cittadini di Israele viene attribuita la prima, ma solo agli ebrei la
seconda. Diritti “nazionali” per la legge israeliana significa diritti
nazionali ebrei. La lotta dei cittadini palestinesi di Israele per
l’uguaglianza e per riforme civili in base alla legge israeliana è
perciò tenuta separata da parte del regime da quella degli altri
palestinesi.
Il secondo ambito
comprende circa 300.000 palestinesi che vivono a Gerusalemme est, che
subiscono discriminazioni nell’accesso all’educazione, alla sanità, al
lavoro, alla residenza e ai diritti di edificazione. Subiscono anche
espulsioni e demolizioni di case, funzionali alla politica israeliana di
“bilanciamento demografico” a favore dei residenti ebrei. I palestinesi
di Gerusalemme est sono classificati come residenti permanenti, il che
li inserisce in una categoria separata creata per impedire che il loro
peso demografico e soprattutto elettorale si possa sommare a quello dei
cittadini palestinesi in Israele. In quanto residenti permanenti, non
hanno una condizione giuridica che consenta loro di mettere in
discussione la legge israeliana. Inoltre, identificarsi apertamente con i
palestinesi dei territori occupati comporta il rischio politico di
essere espulsi in Cisgiordania e di perdere il diritto anche solo di
visitare Gerusalemme. Così, l’epicentro urbano della vita politica
palestinese è intrappolato in una bolla giuridica che limita la capacità
dei suoi abitanti di opporsi legalmente al regime di apartheid.
Il terzo ambito è il
sistema di legislazione militare imposto su circa 4.6 milioni di
palestinesi che vivono nei territori palestinesi occupati, 2.7 milioni
in Cisgiordania e 1.9 milioni nella Striscia di Gaza.
I territori sono
amministrati in un modo che corrisponde pienamente alla definizione di
apartheid secondo la Convenzione sull’Apartheid: ad eccezione del
genocidio, tutti gli evidenti “atti inumani” elencati nella Convenzione
sono continuamente e sistematicamente perpetrati da Israele in
Cisgiordania. I palestinesi sottostanno alla legge militare, mentre i
circa 350.000 coloni ebrei sono sottoposti alle leggi civili di Israele.
Il carattere razziale di questa situazione è confermato ulteriormente
dal fatto che tutti i coloni ebrei della Cisgiordania godono della
tutela del diritto civile israeliano per il fatto di essere ebrei, che
siano o no cittadini israeliani. Questo sistema giuridico duale, di per
sé problematico, è indicativo di un regime di apartheid se accompagnato
dalla gestione discriminatoria su base razziale della terra e dello
sviluppo condotta da istituzioni di nazionalità ebraica, che sono
incaricate di amministrare “la terra dello Stato” nell’interesse della
popolazione ebrea. A sostegno dei risultati complessivi di questo
rapporto, l’allegato I illustra più in dettaglio le politiche e le
prassi di Israele nei territori palestinesi occupati, che costituiscono
violazione dell’articolo II della Convenzione sull’Apartheid.
Il quarto ambito è
relativo ai milioni di palestinesi rifugiati ed esiliati contro la loro
volontà, la maggior parte dei quali vive in Paesi limitrofi. Gli è
vietato il ritorno alle loro case in Israele e nei territori palestinesi
occupati. Israele difende la sua negazione al ritorno dei palestinesi
con un linguaggio apertamente razzista: si presume che i palestinesi
costituiscano una “minaccia demografica” e che il loro ritorno andrebbe
ad alterare il carattere demografico di Israele al punto da annullarlo
come Stato ebraico.
La negazione del diritto al ritorno gioca un ruolo essenziale nel regime di apartheid,
assicurando che la
popolazione palestinese nella Palestina mandataria non cresca al punto
da minacciare il controllo militare israeliano dei territori e/o da
fornire ai palestinesi cittadini di Israele la leva demografica per
richiedere (ed ottenere) pieni diritti democratici, annullando in tal
modo il carattere ebraico dello Stato di Israele.
Benché il quarto ambito
sia relativo alle politiche di negazione del diritto dei palestinesi al
ritorno in base alle leggi internazionali, in questo rapporto esso viene
trattato come parte integrante del sistema di oppressione e dominazione
del popolo palestinese nel suo complesso, dato il suo ruolo cruciale in
termini demografici nel mantenere il regime di apartheid.
Il rapporto rileva che,
considerati nel loro insieme, i quattro ambiti costituiscono un regime
complessivo sviluppato allo scopo di garantire la continua dominazione
sui non-ebrei in tutta la terra sotto l’esclusivo controllo di Israele
in qualunque campo. In una certa misura, le differenze di trattamento
destinate ai palestinesi sono state provvisoriamente considerate
accettabili dalle Nazioni Unite, in assenza di una valutazione circa la
possibilità che configurassero una forma di apartheid. Alla luce dei
risultati di questo rapporto, questo perdurante approccio internazionale
che prende in considerazione aspetti separati necessita di una
revisione.
Per rispetto della
correttezza e della completezza, il rapporto esamina diverse
contro-argomentazioni avanzate da Israele e dai sostenitori delle sue
politiche, che negano che la Convenzione sull’Apartheid sia applicabile
al caso Israele-Palestina. Esse comprendono le seguenti affermazioni: la
determinazione di Israele a rimanere uno Stato ebraico è in linea con
le prassi di altri Stati, come la Francia; Israele non è tenuto a
trattare in modo uguale i palestinesi non cittadini e gli ebrei, proprio
perché i primi non sono cittadini; il modo in cui Israele tratta i
palestinesi non riflette alcuno “scopo” o “intenzione” di dominio, è
piuttosto una condizione temporanea dettata ad Israele dalla realtà del
perdurante conflitto e dalle esigenze di sicurezza. Il rapporto dimostra
che nessuna di queste argomentazioni regge all’esame dei fatti. Un’
ulteriore rivendicazione del fatto che Israele non può essere
considerato colpevole di crimini di apartheid poiché i cittadini
palestinesi di Israele hanno diritto al voto, si basa su due errori di
interpretazione giuridica: un paragone eccessivamente letterale con la
politica di apartheid sudafricana e il fatto che la questione del
diritto di voto è scollegata da altre leggi, soprattutto da quanto
previsto dalla Legge Fondamentale, che vieta ai partiti politici di
mettere in discussione il carattere ebraico, quindi razziale, dello
Stato.
Il
rapporto giunge alla conclusione che il peso delle prove giustifica
oltre ogni ragionevole dubbio l’affermazione che Israele è colpevole di
imporre un regime di apartheid al popolo palestinese, che comporta il
commettere un crimine contro l’umanità, il cui divieto è considerato jus cogens (norma cogente, ndtr.)
nel diritto internazionale consuetudinario. La comunità internazionale,
soprattutto le Nazioni Unite e le relative agenzie, e gli Stati membri
hanno l’obbligo legale di agire nei limiti delle loro possibilità per
impedire e punire situazioni di apartheid che vengono sottoposte con
competenza alla loro attenzione. Più specificamente, gli Stati hanno un
compito collettivo: a) non riconoscere come legittimo un regime di
apartheid; b) non aiutare o sostenere uno Stato nel mantenere un regime
di apartheid; c) cooperare con le Nazioni Unite ed altri Stati per porre
fine ai regimi di apartheid. Anche le istituzioni della società civile e
i singoli individui hanno il compito morale e politico di usare i mezzi
a loro disposizione per risvegliare l’attenzione su questa perdurante
impresa criminale e di fare pressione su Israele per convincerlo a
smantellare le strutture di apartheid, in conformità con il diritto
internazionale. Il rapporto termina con raccomandazioni generali e
specifiche alle Nazioni Unite, ai governi nazionali, alla società civile
ed ai soggetti privati sulle azioni che dovrebbero intraprendere, alla
luce della constatazione che Israele mantiene un regime di apartheid
nell’esercitare il controllo sul popolo palestinese.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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