Giorgio Berruto : Convergenze parallele Trump, l’estremismo ebraico e le reversibili fortune di Bibi il marinaio

Racconta Erodoto nel primo libro delle Storie che il ricco re di Lidia Creso, indeciso se muovere guerra all’impero persiano unificato da Ciro il Grande, avrebbe inviato emissari a Delfi e ad Anfiarao, sede di due tra i più importanti e riconosciuti oracoli del mondo greco. “Se farai guerra ai persiani abbatterai un grande impero”, fu la risposta degli oracoli. Creso allora dichiarò guerra a Ciro e provocò la distruzione di un grande impero. Il proprio.
Creso è un personaggio piuttosto comune. Anche ai nostri tempi, di Creso ce ne sono moltissimi. Sono quelli che pensano che aver vinto oggi renda superflua la domanda sul domani o almeno inevitabile la risposta. Il perché è ovvio: domani sarà come oggi. Gli dei accecano coloro che vogliono perdere e la vittoria obnubila la mente: non sempre, ma spesso rende più difficile l’emergere di certo genere di domande, quelle brutte, difficili, quelle che sgorgano invece con naturalezza nei giorni amari che seguono una sconfitta. La sconfitta favorisce la riflessione sugli errori commessi, su che cosa si può e si deve fare per cambiare, per vincere la prossima volta.
Da alcune settimane la Casa Bianca ha un nuovo inquilino, un personaggio anomalo e un po’ pittoresco. Donald Trump è irrispettoso verso il modo tradizionale di fare politica. Non è un intellettuale come Obama, ma nemmeno come Bush, che già non lo era affatto. Si fa beffe del politicamente corretto in nome di un pensare e un agire diverso, non nuovo in assoluto ma del tutto inedito per chi siede nello Studio Ovale. Un pensare laterale rispetto a quello cui siamo abituati, e a cui gli americani - tutti gli americani, democratici e repubblicani - erano abituati. Credo che il modo di fare e di porsi al pubblico, cioè all’occhio della telecamera, sia sempre strettamente connesso con un sistema di pensiero che può essere più o meno consapevole di sé, e tuttavia c’è. Il modo di fare di Trump mi sembra dipenda da un pensiero miscellaneo i cui ingredienti principali sono l’idea che la storia sia a un punto di svolta e che le abituali categorie del discorso politico abbiano fatto il proprio tempo, una grossa porzione di ottimismo verso il futuro, fiducia nella propria capacità di intuizione e una massiccia dose di incoscienza, perché sull’altra riva dell’Atlantico è risaputo che fortuna iuvat audentes, ma dalla cima della Trump Tower ancora di più.
Queste caratteristiche convergono a creare un’immagine: alla Casa Bianca siede oggi il sogno dell’estrema destra israeliana. È vulgata diffusa in certi ambienti in Israele, e largamente accettata tra migliaia di estremisti ebrei che vivono nei territori contesi, che il diritto risieda nell’atto. Un’idea di giurisprudenza che ha avuto teorici nel Novecento e che oggi Nati Rom, dell’incontro con il quale ho raccontato su queste colonne alcuni mesi or sono, e migliaia di altri come e più fanatici di lui riassumono in una massima che è tutto fuorché edificante: se voglio una cosa, me la prendo. Se voglio costruire un nuovo insediamento su terreni di privati palestinesi o del demanio in West Bank, lo faccio. E se la Corte Suprema israeliana ordina lo sgombero faccio resistenza, come ad Amona non molti giorni fa. Dio è con noi, i nuovi pionieri, e si deus nobiscum, quis contra nos? Secondo questo pensiero Israele, in fondo, non ha problemi geopolitici, demografici e di riconoscimento da discutere e fronteggiare. O forse li ha, ma non sono problemi che è necessario affrontare e risolvere, perché non cambierebbe nulla. Tanto tutti ci odiano. Tutto ciò che a Israele serve, secondo questa teoria del diritto supersemplificata, è trovare il coraggio di annunciare a sé e al mondo intero la strada della verità, cioè quella del possesso della terra e del diritto come imposizione unilaterale. Se qualcuno ha da ridire, affari suoi. La fortuna aiuta gli audaci è inciso nelle menti, trasformato in modello per l’azione e perfino in paradigma metafisico. Masada, la fedeltà che basta a se stessa, che non si misura con le condizioni mutevoli del mondo, con interlocutori reali in carne e ossa, è modello storico insuperabile e “mai più cadrà”. Autosufficienza fa rima con superomismo. Omnia munda mundis.
Molti fanatici ebrei degli insediamenti in West Bank pensano, come Trump, che la storia sia a una svolta. Propugnatori del messianismo politico, certamente sono ottimisti: “Il Bene e la Verità trionferanno”, sono parole che ben ricordo di Nati Rom, perché “prendo ordini dal Messia soltanto”. Come Trump, e come numerosi altri protagonisti della scena mediorientale, sono giocatori d’azzardo, gamblers. Per tutti questi motivi sono convinto che ci sia un’affinità particolare tra la destra radicale ed estrema in Israele e il nuovo presidente degli Stati Uniti. Per responsabilità diretta di Netanyahu, però, e complice il pessimo rapporto personale che si è consumato nel recente passato tra questi e Obama, ma anche l’ambizione e la spregiudicatezza del leader del Likud, questa affinità si è propagata a tutto il corpo grosso della destra israeliana, anche quella che per altri aspetti guarderebbe al centro più che alle estremità. Il sostegno totale offerto da Netanyahu ai primi provvedimenti di Trump, inclusi quelli che nulla hanno a che vedere con Israele, va tutto in questa direzione. Un caso ormai tra i molti è quello del tweet con cui Netanyahu ha commentato la decisione di Trump a proposito del muro divisorio da edificare tra Stati Uniti e Messico: “President Trump is right. I built a wall along Israel’s southern border. It stopped all illegal immigration. Great success. Great idea” (“Il presidente Trump ha ragione. Ho costruito un muro lungo il confine meridionale di Israele. Ha bloccato completamente l’immigrazione illegale. Un grande successo. Una grande idea”). Alle parole Netanyahu ha aggiunto due bandiere, quella degli Stati Uniti e quella di Israele, a rimarcare come, adesso che Obama è uscito di scena, il legame tra i due Paesi torni indissolubile. Il tweet è stato fatto rimbalzare circa 40.000 volte in poche ore dagli utenti di Twitter, e ha provocato tra le altre cose la reazione del governo messicano, la ferma presa di posizione contro Netanyahu della comunità ebraica messicana e una prevedibile globale perdita di immagine di Israele.
Israele sta salendo sulla barca della destra radicale guidata da Trump? È presto per affermarlo ma molti, troppi segnali indicano che è così. La circostanza in cui Israele si trova - il governo attuale è di gran lunga quello più sbilanciato verso destra dalla fondazione dello Stato - facilita e rende spedita la salita a bordo. Bibi il marinaio sente che il vento soffia dalla parte giusta e già sta staccando gli ormeggi. Il problema è che non è chiaro se ci sarà la possibilità di scendere ai prossimi scali e, in caso di naufragio, se le scialuppe basteranno per tornare a riva in mezzo alle onde senza finire travolti. I venti potrebbero girare, e con loro anche la fortuna di Bibi. Oppure può darsi che Trump il timoniere cambi direzione, ha già dimostrato spregiudicatezza d’altra parte, e anche in questo caso per il marinaio Bibi sarebbero guai grossi. Certo, Trump sta già mettendo in atto alcune delle roboanti premesse della campagna elettorale, non è detto però che dia seguito a quelle che interessano Bibi, portavoce di un Paese grande come una regione italiana e dal peso specifico tutto sommato limitato sullo scenario internazionale.
C’è un altro aspetto che credo non vada sottovalutato, e che non dipende strettamente dalle scelte di Trump. L’elezione del nuovo presidente americano ha sollevato gli entusiasmi della destra israeliana, in particolare quella che rappresenta gli interessi di chi vive in West Bank e guarda con favore, quando non appoggia esplicitamente, le imprese dei “ragazzi delle colline” e l’edificazione sistematica di insediamenti illegali. L’aspettativa di una porzione rilevante del Paese è stata galvanizzata vedendo Trump alla Casa Bianca, e questo ha contribuito a creare un clima in cui scelte fino a poco tempo fa impensabili si sono trasformate in proposte politiche concrete. Dubito che il Parlamento israeliano tre mesi or sono avrebbe votato a favore di un provvedimento per la legalizzazione degli insediamenti ebraici su terre private palestinesi. Lo ha fatto invece appena tre settimane dopo l’insediamento di Trump grazie a 60 voti favorevoli (52 i contrari) a una legge retroattiva che, pur prevedendo una compensazione del 125% del valore dei terreni espropriati, è in tutta evidenza arbitraria, e che peraltro offre nuovi spunti alle numerose e unilaterali iniziative di delegittimazione di Israele promosse dai palestinesi e non solo.
Piaccia o no, già le nomine e le prime scelte di Trump sono state molto divisive e particolarmente contestate. Non so dire se in futuro questa tendenza verrà esasperata o al contrario contenuta. Non so neppure se Trump procederà davvero fino in fondo alla demolizione sistematica dell’opera del suo predecessore Obama e allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, come promesso in campagna elettorale. In ogni caso, mi sembra un azzardo puntare tutto su un solo attore, soprattutto con queste premesse. E invece Netanyahu e il governo israeliano sembrano essere saltati sul carro di Trump senza pensarci due volte. Se non scenderanno presto, e non sembrano intenzionati a farlo, è possibile che il giorno in cui lo vorranno non sarà più possibile, almeno in modo indolore, e che Israele rimanga legata a filo doppio alla parabola dell’attuale presidente degli Stati Uniti, ai suoi altari ma anche alla sua polvere.
L’opposizione a Trump e lo sconforto per le sue scelte sono destinati a crescere negli Stati Uniti: non solo tra quanti sono già stati colpiti dalle decisioni del nuovo presidente, ma anche all’interno dei quadri dei partiti democratico e repubblicano, in cui lo stile di Trump è visto molto negativamente. Previsioni troppo nere per il fresco vincitore contro tutto e tutti? Può darsi, ma un dato è certo: fra quattro anni gli statunitensi tornano al voto. Vince nuovamente Trump? La parola fine sarà spostata fra otto anni. Non so quanto possa durare l’epoca di Trump, ma una cosa va oltre ogni ragionevole dubbio: come ha avuto termine il regno di Creso, anche quello di Trump un giorno finirà. “Domani è un altro giorno” è formula un po’ stantia che assolve di solito a scopi autoconsolatori. È un’altra la frase che i sostenitori più strenui di Trump dovrebbero fare propria per evitare in incorrere in errori fatali: “C’è sempre un domani”.
Giorgio Berruto




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