Fulvio Scaglione: Ma Israele si fida di Trump?
Nell’orgia di luoghi comuni partita con l’elezione di Donald Trump, è diventato un assioma che il nuovo Presidente
Usa piacesse a quelli che i benpensanti occidentali giudicano, per
ragioni diverse, antipatici e incazzosi. L’ungherese Orban, il russo
Putin, l’egiziano Al Sisi, per esempio. Con loro anche Benjamin “Bibi”
Netanyahu, premier di Israele e non esattamente un prodigio di
affabilità.
Ma siamo sicuri che sia così? Nell’ostinato tentativo di giudicare Trump solo come un fenomeno da baraccone e non anche come un fenomeno politico (gradito o meno), i più si sono scordati di qualche piccolo particolare. Quando The Donald, durante la campagna elettorale, propose di chiudere i confini degli Usa ai musulmani, Netanyahu fece pubblicare un comunicato in cui freddamente affermava di “respingere le recenti osservazioni di Donald Trump sui musulmani”. E in seguito a quello scambio di cortesie, Trump annullò il viaggio in Israele durante il quale, in data 28 dicembre, avrebbe dovuto incontrare proprio il primo ministro.
Altro particolare di un qualche peso: la comunità ebraica americana ha votato in massa per Hillary Clinton, snobbando Trump. Secondo un sondaggio realizzato da JStreet (il notissimo sito che si definisce “la casa degli americani che sono pro Israele e per la pace”) e ripreso dai giornali israeliani,
il 75% degli ebrei americani ha votato per la Clinton. Non solo: quasi
un quarto (22%) degli elettori americani di fede ebraica ha fatto una o
più donazioni in favore della campagna della Clinton.
I rapporti dello Stato ebraico con la comunità ebraica americana sono intensi e, per certi aspetti, decisivi. Per molti anni i protagonisti dell’Aliya (la “salita”, ovvero l’immigrazione verso Israele) sono stati proprio gli ebrei americani, superati nel numero solo negli ultimissimi anni da coloro che provengono dai Paesi dell’ex-Urss. E Trump, pur usando qualche accortezza da campagna elettorale, non si è premurato di risultare simpatico. Tutti ricordano la sua apparizione davanti alla Republican Jewish Coalition, cioè una delle organizzazioni che chiamarono Netanyahu a parlare davanti al Congresso, umiliando Obama. In quel consesso Trump, rude fino alla maleducazione, trovò modo di dire: “So che non mi appoggerete perché non voglio il vostro denaro”.
Insomma: i rapporti tra la Casa Bianca e Israele sono sempre stati e sempre saranno un capitolo importante della politica americana. Ma da questo punto di vista la storia di Donald Trump e Bibi Netanyahu è ancora tutta da scrivere e potrebbe riservare più di una sorpresa. Come conciliare, per esempio, la priorità che Trump afferma di voler assegnare alla lotta contro l’Isis con l’indicazione strategica del Governo israeliano, che considera invece Assad e l’Iran i principali ostacoli da affrontare?
Sperando nel meglio, Israele comunque si prepara al peggio, cioè a un Trump un po’ più difficile da aggirare di quanto sia stato Obama. Si spiega anche così il fatto che il Comitato per l’urbanistica e l’edilizia di Gerusalemme abbia deciso di mandare avanti il progetto per 1.400 nuove unità abitative a Gerusalemme Est, nel sobborgo di Ramat Shlomo, proprio sulla linea Verde, progetto che era stato “congelato” per le pressioni di Obama. E non solo: altre 2.600 unità sono progettate per l’insediamento di Givat Hamatos e 3 mila per quello di Gilo. La filosofia di queste decisioni è stata espressa con chiarezza da Meir Turgeman, vice-sindaco di Gerusalemme, in un’intervista televisiva: “Abbiamo un sacco di altri progetti e sono deciso ad approfittare del periodo di transizione (da un Presidente all’altro, n.d.r) per farli approvare. Finora ci è stato impedito di costruire a causa delle pressioni dell’amministrazione Obama su Israele. Ma quella storia è finita. D’ora in poi tireremo fuori dal freezer tutti i progetti”. (There are a lot more plans, and I intend to use the US transition period to get them approved. Until now we were prevented from building by the Obama administration’s pressures on Israel. It’s over. From now on we’re going to pull those plans out of the freezer).
Ci portiamo avanti fin che possiamo, insomma. Il che fa pensare che
gli israeliani non prevedano di scambiare con Trump solo baci e
abbracci.
Ma siamo sicuri che sia così? Nell’ostinato tentativo di giudicare Trump solo come un fenomeno da baraccone e non anche come un fenomeno politico (gradito o meno), i più si sono scordati di qualche piccolo particolare. Quando The Donald, durante la campagna elettorale, propose di chiudere i confini degli Usa ai musulmani, Netanyahu fece pubblicare un comunicato in cui freddamente affermava di “respingere le recenti osservazioni di Donald Trump sui musulmani”. E in seguito a quello scambio di cortesie, Trump annullò il viaggio in Israele durante il quale, in data 28 dicembre, avrebbe dovuto incontrare proprio il primo ministro.
I rapporti dello Stato ebraico con la comunità ebraica americana sono intensi e, per certi aspetti, decisivi. Per molti anni i protagonisti dell’Aliya (la “salita”, ovvero l’immigrazione verso Israele) sono stati proprio gli ebrei americani, superati nel numero solo negli ultimissimi anni da coloro che provengono dai Paesi dell’ex-Urss. E Trump, pur usando qualche accortezza da campagna elettorale, non si è premurato di risultare simpatico. Tutti ricordano la sua apparizione davanti alla Republican Jewish Coalition, cioè una delle organizzazioni che chiamarono Netanyahu a parlare davanti al Congresso, umiliando Obama. In quel consesso Trump, rude fino alla maleducazione, trovò modo di dire: “So che non mi appoggerete perché non voglio il vostro denaro”.
Insomma: i rapporti tra la Casa Bianca e Israele sono sempre stati e sempre saranno un capitolo importante della politica americana. Ma da questo punto di vista la storia di Donald Trump e Bibi Netanyahu è ancora tutta da scrivere e potrebbe riservare più di una sorpresa. Come conciliare, per esempio, la priorità che Trump afferma di voler assegnare alla lotta contro l’Isis con l’indicazione strategica del Governo israeliano, che considera invece Assad e l’Iran i principali ostacoli da affrontare?
Sperando nel meglio, Israele comunque si prepara al peggio, cioè a un Trump un po’ più difficile da aggirare di quanto sia stato Obama. Si spiega anche così il fatto che il Comitato per l’urbanistica e l’edilizia di Gerusalemme abbia deciso di mandare avanti il progetto per 1.400 nuove unità abitative a Gerusalemme Est, nel sobborgo di Ramat Shlomo, proprio sulla linea Verde, progetto che era stato “congelato” per le pressioni di Obama. E non solo: altre 2.600 unità sono progettate per l’insediamento di Givat Hamatos e 3 mila per quello di Gilo. La filosofia di queste decisioni è stata espressa con chiarezza da Meir Turgeman, vice-sindaco di Gerusalemme, in un’intervista televisiva: “Abbiamo un sacco di altri progetti e sono deciso ad approfittare del periodo di transizione (da un Presidente all’altro, n.d.r) per farli approvare. Finora ci è stato impedito di costruire a causa delle pressioni dell’amministrazione Obama su Israele. Ma quella storia è finita. D’ora in poi tireremo fuori dal freezer tutti i progetti”. (There are a lot more plans, and I intend to use the US transition period to get them approved. Until now we were prevented from building by the Obama administration’s pressures on Israel. It’s over. From now on we’re going to pull those plans out of the freezer).
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