Antonella Sinopoli :La tratta arabo-islamica e l’odio per gli africani neri


 
 
 
 
 
Il termine inglese rende bene, "uncomfortable truth". E di verità sgradevoli, scomode ce ne sono a bizzeffe. Soprattutto le verità storiche. Una di queste
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Il termine inglese rende bene, uncomfortable truth. E di verità sgradevoli, scomode ce ne sono a bizzeffe. Soprattutto le verità storiche. Una di queste riguarda la schiavitù, la tratta degli schiavi.
C’è però una sottile e immensa questione, perché della tratta europea non si fa fatica a parlare mentre molto meno accade per quella perpetrata dal mondo arabo/islamico? Sembra – almeno nella memoria di molti – che addirittura non sia mai esistita. Molti ne ignorano l’entità, le motivazioni, i luoghi. E spesso, appunto, che sia mai avvenuta.
Qualcuno dice che c’entri la religione, appunto, passi del libro sacro dell’Islam – che toccherebbe così disconoscere – ma anche la scarsità di gruppi di opinione e di lobby per la sua condanna e, soprattutto, il fatto che ancora venga perpetrata…
Tempo fa John Azumah religioso e studioso di origini ghanesi, da anni residente e docente negli States – ha pubblicato un libro dal titolo che non lascia spazio a dubbi, The legacy of Arab-Islam in Africa, colmando di fatto un vuoto esistente in materia.
Se centinaia, migliaia di testi sono stati pubblicati e discussi riguardo alla tratta atlantica, molto meno esiste invece sull'”esercizio” della schiavitù a cui il mondo arabo si è dedicato a partire dall’epoca dell’Impero romano e fino al Ventesimo secolo. Quattordici secoli – non 400 anni quanto più o meno durò la schiavizzazione da parte degli europei – e che avrebbe prodotto secondo gli studiosi tra i 20 e i 30 milioni di schiavi. A partire dal Nord Africa, poi verso Occidente e, infine, verso Est, nel momento in cui i mercanti europei presero il controllo delle coste a ovest del continente.

Una storia fatta di abusi, violenze inenarrabili, conversioni forzate. Ovviamente sotto l’egida della fede – e come fanno notare gli studiosi – del libro sacro dell’Islam, che riconosce la presenza degli schiavi e il loro possesso. Del resto accadeva lo stesso per l’altra parte – l’Europa cattolicissima o protestante – che a furia di bolle papali e di diritti presunti di superiorità sui neri primitivi si arrogava le loro vite.
Basta andare in uno qualunque dei forti lungo le coste dell’Africa occidentale – ultima tappa per gli schiavi che sarebbero poi stati imbarcati – per vedere le belle e curate chiesette o cappelle all’interno di ognuno di essi. Qui si pregava, forse per il buon esito delle trattative sulla pelle nera.
Del resto la religione ha finito per essere motivo, arma e anche scusa e giustificazione per i crimini più efferati, compreso – appunto – quello di ridurre in schiavitù altri esseri umani e farne oggetti privati. Nonostante le “dimenticanze” di chi preferisce non sapere, i documenti a portata di mano sono infiniti – garantiti, da una certa epoca in poi, anche dalle nuove tecniche di registrazione degli eventi, come macchine fotografiche e cineprese. Su YouTube ne circolano non pochi di docufilm che hanno un grande valore testimoniale.

Una delle domande che gli storici si sono posti è come mai le discendenze degli schiavi sono assai visibili negli USA, in Brasile e – ovviamente – nella Repubblica Dominicana e Haiti – ma lo stesso non è accaduto nei Paesi del Medio Oriente, Iraq, Iran, Arabia Saudita, ect. Nonostante la tratta da parte degli arabi sia durata molti secoli e aveva preceduto di 700 anni quella europea.
Mentre ai “neri d’America” e alle loro donne era consentita in un certo qual modo una vita “privata”, le donne nei regni arabi e orientali venivano utilizzate come concubine per accrescere gli harem – dunque solo a fini sessuali o di servizio – e per gli uomini era largamente praticata l’evirazione. Uno su cinque rimaneva in vita. Quelli che sopravvivevano non avrebbero potuto “nuocere” al loro padrone. Molti poi venivano usati negli eserciti e anche lì la loro vita non durava certo a lungo. Solo una minima parte aveva funzione di forza lavoro in piantagioni.
Il Maafa, l’olocausto africano è durato un tempo infinito e per alcuni – a dire il vero – non è mai veramente terminato. Non è finito perchè generato non da motivi economico-commerciali (che nel caso della tratta da parte degli arabi era un elemento secondario) ma dall’odio, dal disprezzo, dalla convinzione profonda dell’inferiorità degli africani neri.
Basta riflettere sul modo in cui vengono trattati non solo nei Paesi arabi, ma anche in Cina e in India, per esempio. Mentre nulla di nuovo sotto il sole avviene nel Nord Africa – in Libia ad esempio – dove gli africani costretti oggi a transitarci per cercare lavoro o per tentare il passaggio del Mediterraneo, finiscono per diventare vittime di soprusi, stupri, rinchiusi a marcire nelle carceri e trattati come delinquenti. E non si tratta di politiche per frenare l’immigrazione, no, si tratta di odio e disprezzo che continua ad alimentarsi. I neri rimangono Adb, schiavi, inferiori. Nessuna umanità concessa o riconosciuta.
Quindi, non è storia passata, purtroppo. È oggi, adesso, continua. La tratta di esseri umani – dei neri – è ancora in atto, praticata sotto gli occhi di tutti. Ma nel denunciare – nel raccontare la storia – non basta e non serve accusare. John Azumah non ha scritto solo la storia della schiavitù perpetrata tra gli arabi per secoli sul suo continente, ha scritto libri sul dialogo, la conciliazione, l’incontro tra le due religioni.
Salire su un pulpito e proporre la Storia in modo manicheo distoglie dal centro e il centro è questo: chi ha fatto e fa queste cose sono gli uomini, non le loro religioni.
Sono i fatti che contano. Sentirli raccontare da Marcus Gravey è una grande lezione di Storia, elaborata con ironia e ancora ricorrendo alle fonti cartacee, i libri. È una lunga conferenza questa di Garvey, un documento prezioso fatto di competenza, misura e orgoglio. L’odio sarebbe stato di troppo e pare non appartenere a questa “razza inferiore” che sono i neri.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista e blogger su Ghanaway. Si interessa e scrive di Africa, diritti umani, questioni sociali. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali.

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