Ebrei orientali

Pubblichiamo alcuni passaggi dell’intervista di Cinzia Nachira e Nicola Perugini a Ella Shohat, contenuta all’interno del libro “Le vittime ebree del sionismo” (Edizioni Q). Il lavoro di Ella Shohat analizza le ripercussioni della fondazione dello Stato di Israele sugli ebrei orientali.  
Ella Shohat



Lei è nata in una famiglia irachena di religione ebraica. Quanto la sua origine ha inciso sulla scelta di dedicare gran parte della sua attività di ricerca alla questione sefardita?
Sono nata fuori dal nostro ambiente naturale: i miei genitori erano rifugiati iracheni e non si può certo dire che si siano sentiti ben accolti in Israele. Il colonialismo, così come la nascita del nazionalismo, sia ebraico che arabo, ha avuto conseguenze disastrose per diverse minoranze. La violenza che ha caratterizzato i rapporti politici nella regione ha fatto sì che intere comunità siano state sradicate nell’arco di una notte. Come la mia famiglia che, a causa del conflitto arabo-israeliano, è stata espulsa da Baghdad dove gli ebrei erano vissuti per millenni.
In Israele i miei si sono sentiti fuori posto, sia a causa del razzismo sia perché la loro era la cultura del nemico. I miei genitori dicevano: “In Iraq eravamo ebrei e in Israele siamo arabi”. La nostra cultura araba era un tabù. Anche se provavamo a non sembrare diversi, la nostra alterità era evidente nei nostri corpi, nel nostro aspetto e nei nostri accenti. I miei genitori non si erano azzardati a scrivere sul certificato di nascita israeliano il nome arabo che mi avevano dato: Habiba. Però i miei nonni hanno parlato in arabo fino alla morte. Io sono stata per anni la loro traduttrice quotidiana. Sono cresciuta fra persone che provavano un grande senso di vuoto per aver dovuto abbandonare l’Iraq all’improvviso.
Ho iniziato a lavorare sulla questione degli ebrei orientali stabiliti in Israele perché volevo inserire nel dibattito su Israele e Palestina le modalità usate dai sionisti per imporre il silenzio sia nei riguardi dei palestinesi sia, come corollario, nei riguardi degli ebrei orientali. Nel saggio I sefarditi in Israele: il sionismo dal punto di vista delle sue vittime ebree (1988) ho scritto del furto colonialista della storia costituito dalla rappresentazione, endemica nel sionismo, degli ebrei orientali come culturalmente inferiori.
Ho anche mostrato in che modo la storiografia sionista ha interpretato la loro immigrazione in Israele, considerandola come la fine di una lunga storia di antisemitismo e come impegno ideologico e devozione religiosa. Ho reso più complessa tale narrazione ideologico-storiografica facendo emergere i motivi economici che spinsero i sionisti a trasferire i sefarditi in Israele/Palestina, nonché gli incentivi finanziari concessi ad alcuni regimi arabi per agevolare la loro partenza.
Ed ho mostrato – cosa fondamentale, per quanto dimenticata – il legame tra gli ebrei arabi e i palestinesi. L’aliya, l’immigrazione in Israele, viene celebrata dall’ideologia ufficiale e spesso vista dagli stessi ebrei orientali come un ritorno a ‘casa’, ma, di fatto, questo ritorno, se considerato in una prospettiva storica più ampia, può essere visto anche come una nuova forma di esilio. Gli ebrei iracheni, in quanto rifugiati o migranti di massa – a seconda della prospettiva politica che si vuole adottare – sono stati costretti ad abbandonare tutto e a rinunciare alla cittadinanza irachena.
La produzione, da parte del potere egemonico, di un approccio di stampo isolazionista allo studio della “storia ebraica” è stata determinante per la realizzazione di un progetto anomalo come quello di Israele, in cui lo Stato ha creato la nazione – non solo nel senso metaforico della sua invenzione, ma anche nel senso proprio, organizzando dei trasferimenti di popolazioni provenienti da tutto il mondo. E per assicurare la riuscita di tale impresa gli ebrei dovevano essere percepiti in modo nuovo, in modo da collocare i palestinesi e gli ebrei sionisti europei ai poli opposti dello scontro di civiltà.
Però, per la cultura sionista gli ebrei arabi rappresentavano un elemento di disturbo proprio perché la loro esistenza capovolgeva il paradigma illuministico che ripuliva l’ebreo moderno dal suo passato est-europeo nello shtetl. In Palestina, dopo essersi liberato dall’ostjuden (l’antenato est-europeo), il Nuovo Ebreo (poi israeliano) poteva vivere nell’‘Oriente’ senza, paradossalmente, farne parte.
Qual è stato l’impatto della sua famiglia con lo Stato d’Israele, dopo il trasferimento dall’Iraq? In famiglia quale lingua parlavate?
Ho vissuto il cambiamento da “ebrea araba” come una categoria data per scontata alla divisione tra arabo ed ebreo come elementi antinomici. Ad esempio mia nonna, vivendo in Israele e parlando quasi solo arabo, ha dovuto imparare a parlare di “noi” riferendosi agli ebrei e di “loro” riferendosi agli arabi. Quando è entrata in contatto con la società israeliana per la prima volta negli anni cinquanta, il contrasto era tra ebrei e arabi da un lato e cristiani dall’altro. Era convinta che le persone che avevano un aspetto molto diverso dal nostro e che parlavano e mangiavano in modo del tutto differente – gli ebrei europei – fossero dei cristiani europei. Essere ebrei, per la sua generazione, significava tout court essere mediorientali, ma questa connessione era totalmente negata dal sistema educativo israeliano.
A causa del trasferimento improvviso e del successivo disorientamento, la mia famiglia ha provato un senso di perdita immenso – che oggi verrebbe probabilmente diagnosticato dagli esperti di psicologia come stato di stress post-traumatico. Per molti versi credo di aver vissuto, testimoniato e interiorizzato il dolore dei miei genitori e dei miei nonni. In una certa misura il mio scrivere dell’oppressione degli ebrei arabi è stato un modo per tradurre in parole la sofferenza dei miei genitori e dei miei parenti e per esprimere il loro senso di smarrimento. Ho spesso evocato questo senso di tristezza provato dagli ebrei arabi, invertendo una celebre frase biblica a proposito del ricordo di Sion: “sulle acque di Sion, là sedevamo piangendo al ricordo di Babilonia”.
A suo avviso, quale peso ha la cultura araba d’origine per gli ebrei arabi che vivono in Israele? Possono esprimere e manifestare questa loro cultura in modo esplicito oppure è stata ridotta a mero folklore?
Gli ebrei orientali sono stati a lungo percepiti attraverso un paradigma orientalistico e ridotti a esotismo ebraico. Il nazionalismo ebraico ha favorito la creazione di una nuova cultura fondata sul concetto di “cultura occidentale”, mentre la nostra è stata accettata all’interno delle istituzioni nella misura in cui è stato possibile separarla dal suo contesto geo-culturale arabo-musulmano. I suoi vestiti, gioielli e testi sono stati esposti nei musei ebraici come folklore variopinto. Infatti, molti studi antologici ebraici e israeliani sono stati dedicati alla catalogazione dei rituali ebraico-yemeniti, ebraico-marocchini o ebraico-curdi. Il concetto del “ritorno degli ebrei orientali nella patria ebraica” è tutt’uno con il rifiuto sionista dell’”Oriente”.
Il processo con cui i non-ashkenaziti sono stati incorporati nella cultura euro-israeliana è stato molto più intenso di quanto la semplice narrazione di immigrazione e assimilazione permetta realmente di immaginare. Nello Stato di Israele le politiche pubbliche hanno esplicitamente promosso la trasformazione dell’orientale “primitivo” nell’israeliano “civilizzato”.
Il progetto di assimilazione ha in parte “funzionato”, quanto meno in termini di smantellamento di una civiltà di grande portata come quella degli ebrei del Levante. Crescere da ebrei arabi in Israele ha significato doversi adattare a diversi modi di praticare la propria identità: in primo luogo, da euro-israeliani sabra, come ci avevano indottrinati a essere, ma all’interno di una sorta di paradosso di Zenone, non potevamo mai essere davvero euro-israeliani, poiché eravamo ontologicamente e geneticamente inadeguati e regolarmente marchiati come arabi, quindi come primitivi.
In secondo luogo ha significato praticare la nostra identità da iracheni, i cui codici di vita domestica erano arabi, sia nel modo di parlare, di cantare, di mangiare, di fare festa, sia nel celebrare i lutti. Eravamo costretti a negoziare un’esistenza conflittuale tra la sfera ‘privata’ di casa e di quartiere e quella pubblica di Euro-Israele. Per un verso facevamo di tutto affinché l’Iraq o il Marocco, i Paesi da cui provenivamo, fossero invisibili a scuola, negli autobus, nelle strade o al lavoro, reprimendo tutto ciò che era nostro, proprio mentre allo stesso tempo eravamo indotti ad ammirare ed emulare lo stile di vita e a condividere i valori di coloro che ci opprimevano. Per altro verso, con i nostri festeggiamenti familiari entravamo spesso in uno spazio insieme collettivo e privato, inaccessibile agli euro-israeliani.
Nel suo saggio lei affronta le difficoltà che hanno gli ebrei arabi stabiliti in Israele ad esprimere in modo esplicito che cosa significava essere ebrei nei Paesi arabi e che cosa significa oggi essere ebreo arabo in Israele. Lei descrive Israele come un Paese dove predomina una memoria a una sola dimensione, quella ashkenazita. Ventiquattro anni dopo è ancora vero?
Ho cercato di analizzare i modi in cui gli ebrei arabi vivono quotidianamente – e visceralmente – le contraddizioni della loro identità arabo-ebraica. Inoltre, ho sostenuto che in Israele le versioni prestabilite di questa scissione hanno accentuato le tensioni destra/sinistra e religioso/laico, omettendo di spiegare i paradossi identitari degli ebrei arabi sviluppatisi sulla scia del sionismo. Quando ho scritto i miei primi lavori, la sola posizione “legittima” era quella che scimmiottava la retorica dello “scambio di popolazione” tra palestinesi ed ebrei provenienti dai Paesi arabi e musulmani.
Il mio testo cercava di offrire un’analisi alternativa al rapporto fra sionismo e ebrei arabi collegandolo alla questione palestinese. Ho ritenuto che l’approfondimento di tale prospettiva avesse una rilevanza cruciale, data la sua frequente assenza nella narrazione sionista. Infatti la storia degli ebrei arabi era stata soffocata dal discorso dominante che l’aveva trasformata in un’allegoria utilizzata per giustificare lo spossessamento dei palestinesi. Il mio tentativo di impostare il concetto di “ebreo arabo” lontano da qualsiasi teleologia nazionalistica e trionfalistica, come nella mia ricerca ho tentato di fare, era sostanzialmente un tabù.
Il panorama narrativo è cambiato drammaticamente con gli accordi di Oslo, anche se la violenza sul terreno non ha fatto che peggiorare. Nello stesso tempo le questioni fondamentali – i diritti storici e giuridici legati alla terra, la natura del sionismo e della lotta palestinese, la legge israeliana del ritorno e il diritto palestinese al ritorno e lo status storico e politico degli ebrei arabi esiliati in seguito alla spartizione della Palestina – restano tuttora irrisolte e vivacemente contestate. Inoltre, le proposte alternative odierne sono rimaste intrappolate tra le violente reazioni di destra alla seconda intifada in Israele e quelle che hanno fatto seguito all’11 settembre negli Stati Uniti. L’insieme di queste contraddizioni continua a condizionare gli studi contemporanei sugli aspetti culturali della politica di Israele e Palestina.
La questione della memoria unidimensionale ashkenazita non è esente da queste contraddizioni. Nonostante che gli ebrei orientali occupino posizioni relativamente più rilevanti rispetto a quelle di ventiquattro anni fa, continuo a ritenere che oggi quanto ieri sia urgente e indispensabile raccontare la storia del loro spostamento dopo la spartizione. È indispensabile ripensare la questione fuori dal concetto scontato della “nazione ebraica” e cercare di analizzare le formazioni identitarie all’interno di dinamiche comparative e relazionali multiple.
Nella scrittura sionista della storia gli arabi musulmani di oggi sono semplicemente un ulteriore ostacolo “non-ebraico” nel percorso nazionale ebraico-israeliano. L’idea di una vittimizzazione comune e unica di tutti gli ebrei in tutte le epoche è un puntello fondamentale del discorso ufficiale israeliano. Il concetto di unicità preclude analogie e metonimie, producendo una lettura selettiva della “storia ebraica” che sottrae agli ebrei dell’Islam la loro geografia giudeo-islamica e la subordina a quella dello shtetl, o ghetto europeo-ashkenazita.
Questo doppio processo implica la diffusione di pratiche comuni nella sfera pubblica tra tutti gli ebrei di Israele, in modo tale da evocare un passato nazionale omogeneo e mettere a tacere qualsiasi deviazione verso una narrazione più globalizzata e storicizzata, che vedrebbe gli ebrei non solamente attraverso quanto hanno in comune in campo religioso, ma anche con riferimento alle loro specifiche istituzioni, culture e costumi. In questo quadro, complicato dal conflitto israelo-arabo, non sorprende che gli ebrei dell’Islam, e più in particolare gli ebrei arabi, abbiano lanciato una seria sfida a qualsiasi definizione semplicistica della storia ebraica nonché all’emergente identità ebraica euro-israeliana.
In altre parole, le letture selettive della storia del Medio Oriente hanno reso evidenti due processi: per un verso il rifiuto di un apporto arabo e musulmano a livello delle istituzioni, dell’identità e della cultura sionista, e per l’altro verso la loro pura e semplice subordinazione a un’esperienza ebraica “universale”. Nella ‘prova’ sionista di un’esperienza ebraica “universale” non vi sono paralleli o sovrapposizioni con altre comunità religiose o etniche, né nei termini di una cultura ebraica sincretica e confluente con altre, né con riferimento a esperienze di oppressione analoghe. Tutti gli ebrei sono considerati più vicini tra loro che non alle culture di cui hanno fatto parte. Quindi al comune aspetto religioso fatto di identità ebraiche diversamente intrecciate e interrelate è stato attribuito un ruolo primario e tale categorizzazione è equivalsa a smantellare ogni identità comunitaria.
Per l’appunto nel caso degli ebrei mediorientali, la separazione operata da Euro-israele della parte “ebraica” da quella “mediorientale” si è tradotta nello smantellamento delle comunità ebraiche del mondo islamico come anche in forti pressioni sugli ebrei orientali affinché adeguassero la loro identità ebraica ai paradigmi sionisti euro-israeliani. Sin dagli inizi del sionismo europeo gli ebrei dell’Islam hanno dovuto far fronte, per la prima volta nella loro storia, al dilemma a loro imposto: la scelta tra ebraicità e arabicità, all’interno di un contesto geopolitico che ha riprodotto, da un lato, l’equazione arabicità-mediorientalità-Islam e dall’altro lato quella di ebraicità-europeità-occidentalità.
Un altro aspetto determinante del racconto è stata la possibilità di affermare che la “nazione ebraica” combatteva un comune “nemico storico” – l’arabo musulmano – sviluppando una duplice amnesia relativamente alla storia giudeo-islamica e alla spartizione coloniale della Palestina. Le false analogie tra arabi e nazisti e, nel 1992, tra arabi e inquisitori iberici sono diventate non solo un punto fisso della retorica sionista, ma anche un sintomo dell’incubo ebraico-europeo proiettato sulle dinamiche politiche, strutturalmente distinte, del conflitto israelo-palestinese. Gli ebrei orientali hanno sperimentato nel mondo musulmano una storia profondamente diversa da quella che ha perseguitato le memorie europee degli ebrei ashkenaziti. E nel contesto dei massacri e delle privazioni inflitte al popolo palestinese la sovrapposizione tra la figura dell’arabo-musulmano e quella dell’europeo oppressore degli ebrei mette la sordina alla storia degli insediamenti coloniali dello stesso Euro-Israele.
Le vittime ebree del sionismo

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