Israele-Palestina, Mark LeVine: «Sionismo in crisi»
Israele-Palestina, Mark LeVine: «Sionismo in crisi»
Mentre continua indefessa in Israele l'Intifada dei Coltelli, il
“processo di pace” di Oslo appare ormai lettera morta. E il fatto che
vari Paesi riconoscano lo Stato Palestinese (ultimo nella lista la
Grecia) può essere incoraggiante da un lato, ma non offre soluzioni
operative. Anzi, provoca rimostranze da parte di ‘Bibi’ Netanyahu e dei
falchi che lo appoggiano nella leadership del governo israeliano.
Tra le soluzioni 'alternative' spicca quella portata avanti da Mark LeVine, ebreo americano, ricercatore presso la University of California Irvine, che con lo svedese Mathias Mossberg, ex ambasciatore e uno dei maggiori responsabili per lo storico incontro di Oslo, è autore del libro One Land Two States - Israel and Palestine as Parallel States.
Il lavoro di LeVine e Mossberg non si è trasformato solo in un libro, ma anche in un progetto politico noto come Psp (Parallel States Project), visto come nuovo strumento nel tentativo di andare oltre lo stallo nel processo di pace.
CRESCE LA VIOLENZA COLONIALE. «La novità essenziale di questo approccio», spiega LeVine a Lettera43.it, «consiste nell’eliminazione delle frontiere: possono invece esistere due Stati a cui fanno riferimento due popoli con la loro identità».
Basti pensare a un condominio: un palazzo unico con famiglie o individui che amministrano separatamente le loro vite, ma che seguono anche regole comuni di convivenza.
Il volume, uscito nel 2014, esplora sistematicamente gli inevitabili nodi sul tappeto: «La sicurezza, importante non solo per gli israeliani, ma anche per i palestinesi», dice LeVine, «e naturalmente l’economia, per un’evoluzione al di là dell’assetto praticamente coloniale presente nei territori occupati».
E proprio sui territori occupati si concentra il ricercatore: «Col crescere della violenza coloniale risulta più che mai chiara la crisi del sionismo, il movimento sta perdendo adepti». Non solo: l’opposizione alla politica coloniale oggi «coinvolge anche molti israeliani».
Tra le soluzioni 'alternative' spicca quella portata avanti da Mark LeVine, ebreo americano, ricercatore presso la University of California Irvine, che con lo svedese Mathias Mossberg, ex ambasciatore e uno dei maggiori responsabili per lo storico incontro di Oslo, è autore del libro One Land Two States - Israel and Palestine as Parallel States.
Il lavoro di LeVine e Mossberg non si è trasformato solo in un libro, ma anche in un progetto politico noto come Psp (Parallel States Project), visto come nuovo strumento nel tentativo di andare oltre lo stallo nel processo di pace.
CRESCE LA VIOLENZA COLONIALE. «La novità essenziale di questo approccio», spiega LeVine a Lettera43.it, «consiste nell’eliminazione delle frontiere: possono invece esistere due Stati a cui fanno riferimento due popoli con la loro identità».
Basti pensare a un condominio: un palazzo unico con famiglie o individui che amministrano separatamente le loro vite, ma che seguono anche regole comuni di convivenza.
Il volume, uscito nel 2014, esplora sistematicamente gli inevitabili nodi sul tappeto: «La sicurezza, importante non solo per gli israeliani, ma anche per i palestinesi», dice LeVine, «e naturalmente l’economia, per un’evoluzione al di là dell’assetto praticamente coloniale presente nei territori occupati».
E proprio sui territori occupati si concentra il ricercatore: «Col crescere della violenza coloniale risulta più che mai chiara la crisi del sionismo, il movimento sta perdendo adepti». Non solo: l’opposizione alla politica coloniale oggi «coinvolge anche molti israeliani».
- Nel riquadro, Mark LeVine, ebreo americano, ricercatore presso la University of California Irvine.
DOMANDA. Partiamo dalla proposta del Psp: com’è stata accolta finora?
RISPOSTA. In Israele, ironicamente, più i politici sono di destra e più sembrano pronti a prenderla in considerazione.
D. Come mai?
R. Perché in realtà il loro vero obiettivo è l’annessione della Cisgiordania, o almeno di parte di essa.
D. Ma questo sarebbe in contrasto con la soluzione 242 dell’Onu che richiede la restituzione della Cisgiordania conquistata con la Guerra dei 6 Giorni nel 1967.
R. Assolutamente: questi estremisti non vogliono rinunciarvi. Rimane un problema: questo significherebbe anche concedere la cittadinanza ai palestinesi, con la conseguente fine dello Stato d’Israele come lo conosciamo, per un semplice motivo di squilibrio demografico.
D. Nel vostro libro si parla però di una fase di transizione in cui rimangono comunque due Stati nettamente separati.
R. Tenendo a mente che non abbiamo la pretesa di offrire una roadmap precisa, l’idea è che, almeno nella fase iniziale, rimarrebbero delle distinte entità territoriali laddove c’è maggiore omogeneità demografica ebrea o palestinese. Il punto chiave è permettere la mobilità a entrambi le popolazioni, cosa che per ora non esiste.
D. Al di là di Israele, cosa ne pensa la comunità diplomatica internazionale della proposta?
R. Gli americani l’hanno ignorata, invece bisogna dire che è stata accolta con maggiore interesse tra i diplomatici europei.
D. Ma l’Europa come entità unita e armonica sta avendo dei grossi problemi.
R. Lo so. Ma bisogna ricordare che la Ue nel suo insieme è il maggiore partner commerciale d’Israele e l’idea del boicottaggio dei prodotti provenienti dalle colonie spaventa molto Tel Aviv. Inoltre la Ue è il più grande contributore al bilancio statale dell’Autorità palestinese e, diversamente dagli Usa, ha dei rapporti con Hamas. L’Europa conta molto più di quel che pensiamo, e potrebbe veramente avere molta influenza verso un’eventuale risoluzione del conflitto.
D. Quanto può incidere negativamente il fenomeno di radicalizzazione in corso nel conflitto?
R. La radicalizzazione non è un fenomeno nuovo. Se nel 1993, ai tempi di Oslo, c’erano 100 mila coloni ebrei in Cisgiordania, ora ce ne sono 600 mila. Ero a Hebron (città in Cisgiordania circondata da colonie ebree, ndr) nel 1995 e mi ricordo bene quando i soldati israeliani pisciavano nelle provviste d’acqua dei palestinesi, e, senza alcun motivo, ne distruggevano le case. Allora, come adesso, si tratta di un’occupazione coloniale nient’affatto benigna.
D. Qual è la situazione attualmente nell'opposizione palestinese?
R. Molto più complessa di quanto crediamo. Se da un lato a Gaza, che conosco molto bene, c’è una crescita di simpatizzanti dell'Isis e, fenomeno ignorato, un aumento di musulmani sciiti, l’opposizione alla politica coloniale si è fatta più sofisticata col tempo e ci sono dimostrazioni pacifiche quasi ogni settimana in diversi villaggi in Cisgiordania e nella sezione palestinese di Gerusalemme.
D. Come reagisce il governo israeliano?
R. Sta letteralmente andando fuori di testa, soprattutto perché questa opposizione di base coinvolge non solo palestinesi e attivisti stranieri, ma anche molti israeliani.
D. Sta dicendo che il sionismo sta perdendo adepti?
R. Certo. Se vogliamo, si possono vedere delle analogie col movimento contro l’apartheid in Sudafrica e ancor prima con il movimento per i diritti civili negli Usa che coinvolse non solo le vittime, i neri, ma anche moltissimi bianchi.
D. E gli accoltellamenti?
R. Ra rappresentano soltanto una parte infinitesimale della reazione palestinese. Esiste un grosso e crescente movimento di disobbedienza civile. Naturalmente il governo Netanyahu fa di tutto per produrre un’altra narrativa: quella di un Israele sotto continua minaccia di natura violenta.
D. Esiste la possibilità di una “Primavera Israeliana”?
R. Alla fine di giugno 2011 ci fu un enorme movimento sociale molto vasto legato soprattutto al tema del costo delle case. Il problema è che non si preoccupava della questione più importante, quella palestinese appunto. Poi venne cooptato dal Partito Laburista e tutto finì.
D. La situazione, in generale, rimane quindi piuttosto fosca?
R. Senza dubbio, ma guardiamola da un’altra prospettiva. Col crescere della violenza coloniale risulta più che mai chiara la crisi del sionismo e diventa sempre più difficile per lo Stato d’Israele difendere la propria immagine di Paese progressista, occidentale e illuminato. Dal punto di vista diplomatico la parola d’ordine israeliana negli ultimi anni è stata: rimandare. Al tempo stesso, aumentando di ben sei volte il numero di coloni in Cisgiordania, ha consciamente voluto creare una situazione di non ritorno. Ma ovviamente questo non può andare avanti per sempre.
RISPOSTA. In Israele, ironicamente, più i politici sono di destra e più sembrano pronti a prenderla in considerazione.
D. Come mai?
R. Perché in realtà il loro vero obiettivo è l’annessione della Cisgiordania, o almeno di parte di essa.
D. Ma questo sarebbe in contrasto con la soluzione 242 dell’Onu che richiede la restituzione della Cisgiordania conquistata con la Guerra dei 6 Giorni nel 1967.
R. Assolutamente: questi estremisti non vogliono rinunciarvi. Rimane un problema: questo significherebbe anche concedere la cittadinanza ai palestinesi, con la conseguente fine dello Stato d’Israele come lo conosciamo, per un semplice motivo di squilibrio demografico.
D. Nel vostro libro si parla però di una fase di transizione in cui rimangono comunque due Stati nettamente separati.
R. Tenendo a mente che non abbiamo la pretesa di offrire una roadmap precisa, l’idea è che, almeno nella fase iniziale, rimarrebbero delle distinte entità territoriali laddove c’è maggiore omogeneità demografica ebrea o palestinese. Il punto chiave è permettere la mobilità a entrambi le popolazioni, cosa che per ora non esiste.
D. Al di là di Israele, cosa ne pensa la comunità diplomatica internazionale della proposta?
R. Gli americani l’hanno ignorata, invece bisogna dire che è stata accolta con maggiore interesse tra i diplomatici europei.
D. Ma l’Europa come entità unita e armonica sta avendo dei grossi problemi.
R. Lo so. Ma bisogna ricordare che la Ue nel suo insieme è il maggiore partner commerciale d’Israele e l’idea del boicottaggio dei prodotti provenienti dalle colonie spaventa molto Tel Aviv. Inoltre la Ue è il più grande contributore al bilancio statale dell’Autorità palestinese e, diversamente dagli Usa, ha dei rapporti con Hamas. L’Europa conta molto più di quel che pensiamo, e potrebbe veramente avere molta influenza verso un’eventuale risoluzione del conflitto.
D. Quanto può incidere negativamente il fenomeno di radicalizzazione in corso nel conflitto?
R. La radicalizzazione non è un fenomeno nuovo. Se nel 1993, ai tempi di Oslo, c’erano 100 mila coloni ebrei in Cisgiordania, ora ce ne sono 600 mila. Ero a Hebron (città in Cisgiordania circondata da colonie ebree, ndr) nel 1995 e mi ricordo bene quando i soldati israeliani pisciavano nelle provviste d’acqua dei palestinesi, e, senza alcun motivo, ne distruggevano le case. Allora, come adesso, si tratta di un’occupazione coloniale nient’affatto benigna.
D. Qual è la situazione attualmente nell'opposizione palestinese?
R. Molto più complessa di quanto crediamo. Se da un lato a Gaza, che conosco molto bene, c’è una crescita di simpatizzanti dell'Isis e, fenomeno ignorato, un aumento di musulmani sciiti, l’opposizione alla politica coloniale si è fatta più sofisticata col tempo e ci sono dimostrazioni pacifiche quasi ogni settimana in diversi villaggi in Cisgiordania e nella sezione palestinese di Gerusalemme.
D. Come reagisce il governo israeliano?
R. Sta letteralmente andando fuori di testa, soprattutto perché questa opposizione di base coinvolge non solo palestinesi e attivisti stranieri, ma anche molti israeliani.
D. Sta dicendo che il sionismo sta perdendo adepti?
R. Certo. Se vogliamo, si possono vedere delle analogie col movimento contro l’apartheid in Sudafrica e ancor prima con il movimento per i diritti civili negli Usa che coinvolse non solo le vittime, i neri, ma anche moltissimi bianchi.
D. E gli accoltellamenti?
R. Ra rappresentano soltanto una parte infinitesimale della reazione palestinese. Esiste un grosso e crescente movimento di disobbedienza civile. Naturalmente il governo Netanyahu fa di tutto per produrre un’altra narrativa: quella di un Israele sotto continua minaccia di natura violenta.
D. Esiste la possibilità di una “Primavera Israeliana”?
R. Alla fine di giugno 2011 ci fu un enorme movimento sociale molto vasto legato soprattutto al tema del costo delle case. Il problema è che non si preoccupava della questione più importante, quella palestinese appunto. Poi venne cooptato dal Partito Laburista e tutto finì.
D. La situazione, in generale, rimane quindi piuttosto fosca?
R. Senza dubbio, ma guardiamola da un’altra prospettiva. Col crescere della violenza coloniale risulta più che mai chiara la crisi del sionismo e diventa sempre più difficile per lo Stato d’Israele difendere la propria immagine di Paese progressista, occidentale e illuminato. Dal punto di vista diplomatico la parola d’ordine israeliana negli ultimi anni è stata: rimandare. Al tempo stesso, aumentando di ben sei volte il numero di coloni in Cisgiordania, ha consciamente voluto creare una situazione di non ritorno. Ma ovviamente questo non può andare avanti per sempre.
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