Iran e Usa, un’intesa sul nucleare malgrado tutto


 
 
 
 
Mesi di trattative difficili, costellate dalle pressioni di chi non voleva l'intesa. Il pragmatismo di Teheran e la dedizione di Washington hanno superato gli...
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[Carta di Laura Canali]
Mesi di trattative difficili, costellate dalle pressioni di chi non voleva l’intesa. Il pragmatismo di Teheran e la dedizione di Washington hanno superato gli ostacoli.
Dopo un lungo susseguirsi di annunci e smentite, all’alba del 14 luglio è stata finalmente annunciata la firma dell’accordo tra Iran e paesi del 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina + Germania), concludendo un iter negoziale lunghissimo e caratterizzato da colpi di scena continui.

È un accordo storico quello siglato a Vienna ed è stato voluto, costruito e gestito dagli Stati Uniti e dall’Iran, con la partecipazione di attori secondari decisamente poco attivi e costruttivi, se non addirittura ostili al conseguimento del risultato. Le amministrazioni di Washington e Teheran hanno a lungo pianificato – anche segretamente – il laborioso iter che ha portato all’intesa.

Nel difficilissimo percorso negoziale entrambe hanno dovuto combattere l’ostilità di agguerrite lobby all’interno dei propri consessi nazionali e la determinazione di attori internazionali per nulla propensi a favorire un passo così significativo per l’assetto regionale e globale. A parte l’impegno dell’alto commissario per la Politica Estera e di Sicurezza Federica Mogherini, che ha quantomeno difeso l’apparenza di un’entità europea, sui paesi dell’Ue che hanno negoziato andrebbe steso un velo pietoso.

La Gran Bretagna ha da anni assunto una posizione del tutto priva di identità, limitandosi ad annuire o dissentire in armonico accordo con le esternazioni della diplomazia statunitense. Un bene tutto sommato, soprattutto perché non ha ostacolato il brillante lavoro svolto dal segretario di Stato Usa John Kerry, finendo per fungere da involontario facilitatore.

La Francia, notoriamente opposta al negoziato, ha cercato sino all’ultimo di frapporre ostacoli – senza mai riuscirci. In quest’ultima fase ha sostenuto l’introduzione di un provvedimento che permetta di sospendere l’obiettivo raggiunto, con quasi contestuale rispristino delle sanzioni, qualora si dimostrino passate infrazioni dell’Iran alle disposizioni sullo sviluppo di un programma nucleare civile. Un inutile orpello giuridico, ignorato dagli Stati Uniti in sede negoziale, per cercare di lasciare la porta aperta al roll back delle sanzioni che comunque rimane sempre possibile.

Perché una posizione così dura? Parigi, sebbene non ami parlarne, sta vivendo una crisi economica di portata non trascurabile, alla quale cerca di trovare soluzione anche attraverso forti sinergie commerciali con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che, tuttavia, comportano l’adozione di una posizione politica netta nei confronti dell’Iran. La Francia è tuttavia consapevole dell’impossibilità di arginare la riapertura a Teheran, cui senza particolari problemi dietro le quinte del negoziato ha chiesto un occhio di riguardo in quelle nicchie che essa considera ancora suoi piccoli feudi – ad esempio l’industria automobilistica.

La Germania ha invece da tempo adottato una strategia di radicale pragmatismo nel negoziato. Non è un segreto per nessuno che Angela Merkel non fosse una sostenitrice del rapporto con l’Iran, e con lei l’apparato della Difesa nazionale, ma contrariamente a quello francese il ministero degli Esteri tedesco è riuscito a far prevalere l’interesse economico di lungo periodo su quello geopolitico. Berlino non si è esposta in sede negoziale e domani trarrà beneficio delle aperture che consentiranno all’industria tedesca di tornare a mettere radici nella Repubblica Islamica.

La Cina è tradizionalmente cauta, soprattutto nei tavoli negoziali dove l’elemento ideologico gioca un ruolo predominante. Ha assunto una posizione di generale sostegno per l’Iran e per il negoziato, senza tuttavia mai attirare l’attenzione della stampa. Un basso profilo che da anni permette a Pechino di condurre affari senza esporre la bandiera politica o quella dell’etica nella costruzione delle relazioni internazionali.

La Russia, infine, ha come di consueto giocato il ruolo dell’alleato di Teheran sino a quando il negoziato non si è avviato verso una soluzione positiva. I rapporti tra Iran e Russia non sono mai stati idilliaci, e soprattutto condizionati da una visione di reciproco interesse ad “utilizzarsi” in chiave anti-americana. Mosca non può rinnegare il suo sostegno alla Repubblica Islamica ma vuole contenere i margini di successo delle controparti, soprattutto per difendere i propri interessi strategici mediorientali.

Che obiettivo è stato raggiunto? Le oltre cento pagine di testo dell’accordo siglato a Vienna includono buona parte dei contenuti già divulgati ai primi di aprile dal Dipartimento di Stato dopo l’ultima sessione negoziale di Losanna.

Viene ribadito il diritto dell’Iran all’arricchimento dell’uranio e al perseguimento di un programma di sviluppo nazionale dell’energia atomica, sebbene entro limiti e con clausole che di fatto impongono a Teheran di manifestare il proprio rifiuto a qualsiasi ipotesi di sviluppo di armamenti nucleari o tecnologie a queste in qualsiasi modo riconducibili. L’Iran si impegna a non superare la soglia del 3,67% nel processo di arricchimento dell’uranio, riducendo contestualmente a 300 kg le scorte di uranio arricchito già in suo possesso. Teheran accetta di trasferire all’estero tali quantità in segno di rispetto dell’accordo e ad ulteriore garanzia delle controparti.

Un pragmatismo non indifferente, soprattutto se considerato nell’ottica complessiva dell’accordo, dove di fatto viene chiesto all’Iran di ottemperare “tutto e subito” a fronte di ritorni che saranno non solo graduali, ma ben più lenti di quanto l’opinione pubblica iraniana si aspetti. La Repubblica Islamica si impegna a impiegare centrifughe di prima generazione (le cosiddette Ir-1), limitando l’impiego di quelle di generazione successiva solo all’interno del polo di sviluppo della ricerca universitaria. Non solo, il numero delle centrifughe sarà ridotto di oltre due terzi: si scenderà a un totale di 5060 operative, di cui 1044 destinate unicamente alla produzione di isotopi per uso medico.

L’attività ispettiva dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica verrà implementata attraverso l’installazione e la messa a regime di un sistema di sensori che permetterà il controllo e l’esame dei dati in tempo reale, eliminando quindi il processo di raccolta ed esame in remoto dei campioni e permettendo una verifica costante e completa dell’intero ciclo. L’Iran ha accettato la richiesta di limitare l’attività di arricchimento primaria nel solo sito di Natanz, impegnandosi invece alla dismissione delle attività svolte presso Fordo. L’accesso alle ispezioni sarà esteso all’infrastruttura di Parchin, sebbene attraverso una procedura di richiesta che esclude gli automatismi e lascia ampio margine decisionale a Teheran. L’accordo sarà gestito attraverso una calendarizzazione che di fatto si tradurrà in una gradualità di esecuzione.

La rimozione delle sanzioni in tempi brevi sarà quindi parziale e connessa solo ad alcuni ambiti – peraltro fondamentali per l’Iran, come il settore bancario. L’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica potrà condurre le sue ispezioni e dare il via libera ai successivi passi formali per l’implementazione dell’intesa.

Questi dettagli dimostrano quanto l’Iran abbia voluto e saputo essere flessibile, smentendo quella ridda di voci secondo le quali la Guida Suida Ali Khamenei era orientata al sabotaggio piuttosto che ad accettare l’umiliazione di una progressiva rimozione delle sanzioni.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrà entro fine luglio predisporre il testo per una risoluzione che regoli l’implementazione dell’accordo, nell’ambito di un articolato meccanismo che da un lato revoca (o sospende, nel caso della gestione temporale differita) le sanzioni all’Iran, mentre dall’altro indica procedure di ripristino del piano sanzionatorio pre-esistente molto snelle e rapide, in modo da poter offrire garanzie di ritorno allo status quo ante entro 65 giorni nel caso di accertata violazione dell’accordo da parte dell’Iran. Saranno più lunghi, infine, i tempi di rimozione delle sanzioni relative alla vendita degli armamenti e della componentistica per l’industria balistica (rispettivamente 5 e 8 anni). Si chiude in tal modo il non indifferente contenzioso che l’Iran ha sollevato in sede di avvio dei negoziati su questo specifico argomento.

La contropartita di questa nutrita serie di impegni consiste nella progressiva rimozione e sospensione delle sanzioni dell’Onu, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, partendo da quelle sulle transazioni finanziarie e permettendo un ulteriore sblocco dei crediti vantati dall’Iran all’estero o qui congelati.

Tuttavia, il Congresso degli Stati Uniti ha 60 giorni per valutare se opporsi alla fine delle sanzioni statunitensi (l’accordo in sé non ha bisogno dell’approvazione di Capitol Hill). I tanti oppositori si accalcheranno a Washington cercando di compromettere l’avvio della fase operativa dell’accordo, anche se i numeri in parlamento sono contro di loro.

Successivamente si aprirà una complessa fase politica in entrambi i paesi. Nel 2016 sono previsti il rinnovo del parlamento in Iran (a fine maggio) e le elezioni presidenziali negli Stati Uniti (a novembre). Entro l’anno prossimo quindi Washington e Teheran dovranno consolidare una strategia di confidence building che renda il prezzo politico del sabotaggio al negoziato troppo elevato per qualsiasi candidato nei rispettivi sistemi istituzionali.

Il risultato raggiunto a Vienna sembra disporre dei necessari requisiti di credibilità. Si può facilmente trasformare in un elemento sul quale costruire un vero e proprio riavvicinamento tra Usa e Iran.

Per approfondire: La radice quadrata del caos

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