Amira Hass :La storia dei Palestinesi in un incontro casuale con un autostoppista


Haaretz 26/05/2014
È ancora buio nella via Al-Rukab a Ramallah. L’unico posto aperto è il piccolo negozio di libri e giornali di Ju’ebeh, e i giornali appena stampati aspettano di essere distribuiti nelle altre edicole della città. Fermo l’auto. L’uomo che ha alzato il braccio in cerca di un passaggio corre verso di me, mi guarda attraverso il finestrino con una certa sorpresa, ma apre la porta e sale in macchina.
Non c'è bisogno che lo dica lui- posso dire che è uno dei fortunati con un permesso di lavoro per entrare in Israele, in viaggio verso il checkpoint di Hashmonaim ( sulla terra che Israele ha rubato al villaggio palestinese di Ni’ilin). Anch’io mi sto dirigendo in quella direzione. Questa settimana la pavimentazione della piazza Arafat e le strade che vi arrivano sono state divelte di nuovo cosicché tutti i taxi che di solito trasportano i lavoratori da lì al checkpoint sono spariti. Così al mattino presto molti lavoratori stanno agli incroci sperando di avere un passaggio con altri mattinieri.
L’uomo lavora nell’edilizia,nella zona di Haifa. Prova a tornare a casa ogni giorno, anche se il permesso gli consente di dormire in Israele. È già nonno di sei nipoti e sta lavorando in Israele dal 1970 quando aveva 13 anni. Mi dice tutto questo mentre il cielo si schiarisce e si riescono a leggere gli slogan contrapposti scritti sul blocco di cemento all’uscita occidentale del villaggio di Dei Ibizi’a verso la “by pass road” tutta illuminata che isola i villaggi palestinesi e forma un lungo continuum in espansione di colonie. Qualcuno ha scritto sul cemento“ Morte agli arabi”. Poi qualcun altro è arrivato e ha sostituito “Ebrei” a “Arabi”. Poi qualcun altro ha scritto qualcos'altro sopra Arabi/Ebrei. Solo la parola "Morte" è ancora leggibile.
Abbiamo parlato di questioni d' attualità: del tempo, dei due ragazzi adolescenti che i soldati dell’IDF hanno ammazzato il giorno della commemorazione della Nakba, se veramente ci fosse stato un tentativo di rapimento a [un esponente di] una moshav. E allora improvvisamente lui dice: “Anch’io ho perso un figlio”. Per un po' sono rimasta senza parole e poi ho cominciato a fargli delle domande- quando, dove, come. È stato nell’autunno del 2002. Il ragazzo aveva 12 anni, era fermo in strada, non lontano da casa. Una raffica da un veicolo militare oppure da una postazione militare ( non ho chiesto dettagli). In seguito, dice, si sono scusati. Hanno ammesso che avevano sparato senza alcun motivo. Il ragazzo non stava mettendo in pericolo la sicurezza dei soldati , per non parlare di quella dello Stato di Israele. Non ho chiesto se aveva avuto un risarcimento. Ho chiesto cosa era successo dopo con il permesso di lavoro, e, come supponevo, siccome suo figlio era stato ucciso, Israele gli aveva anche tolto il permesso di lavoro e il suo mezzo di sostentamento. Dopo 10 anni con l’aiuto di un avvocato, è riuscito ad ottenere di nuovo il permesso, così ora può lavorare - 15 ore al giorno, compresi i viaggi, costruendo case per ebrei.
Al checkpoint mi sono scusata di non poterlo portare oltre. Il padre colpito da quel lutto mi ha ringraziato e ha raggiunto il resto dei lavoratori che stavano camminando verso il posto di controllo. In quanto ebrea israeliana sono passata al checkpoint senza alcun problema. In questo checkpoint (come in altri) i Palestinesi con cittadinanza israeliana subiscono un trattamento speciale che gli porta via del tempo. Sono indirizzati su un lato [del piazzale] e speciali macchinari ad aria sono utilizzati per controllare se i loro veicoli trasportano esplosivi. Vengono anche interrogati e le loro borse sono perquisite.Terroristi fino a prova contraria.
Questa è la routine dei Palestinesi, che non viene filmata o scritta, né trapela da un documento segreto. Una foto di una camera da presa dei servizi o della cinepresa di qualche attivista compare casualmente e mette in crisi il racconto ufficiale dominante che i media leali [al governo] riportano e che l’opinione pubblica israeliana accetta molto volentieri. Qualche volta è un documento interno che viene portato alla luce grazie alla legge sulla libertà di informazione, e riesce a rompere per poche ore il muro auto-assolutorio.
La crepa ci mostra il tutto. La testimonianza di un Palestinese, la storia della sua vita, il lavoro sul campo di giornalisti che è fondato su prove testimoniali e sulla verifica diretta, su milioni di “storie” simili- tutto questo non ha importanza. L’arabo mente fino a prova contraria e quando si è provato il contrario è presentato come un deplorevole e infrequente caso che richiede un’indagine, e viene rapidamente dimenticato. E anche se non viene dimenticato, non è mai percepito come l’anello di una catena di eventi, come parte di un continuum, come un dettaglio di un reale e consolidato schema di comportamento. Vediamo il risultato di questo modello negli abbondanti vigneti e nell’espansione delle colonie, e nei cartelli di avvertimento posti all’ingresso delle zone riservate[ai coloni], quelle parti della Cisgiordania dalle quali noi non siamo riusciti ad espellere i Palestinesi.
(traduzione di carlo tagliacozzo)

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