Papa Francesco in Terra Santa, parte il conto alla rovescia



di Piero Schiavazzi
Bergoglio è intenzionato a "bucare il tetto" del processo di pace mediorientale recandosi a Gerusalemme, probabilmente in tarda primavera. Un viaggio che conviene a tutti, arabi e israeliani, americani e russi.


[Carta di Laura Canali tratta da Limes QS "La battaglia per Gerusalemme"]
Il papa è determinato ad aprire un "buco sul tetto", per dare fiato e visuale al processo di pace, nell'orizzonte paralizzato della Terra Santa: una promessa che agli occhi delle cancellerie, dopo il debutto di settembre nella crisi siriana, ne fa il nuovo, incisivo protagonista della politica mediorientale.

La metafora evangelica, declinata ieri dal pulpito di Santa Marta, custodisce un intento e tradisce un'attesa. L'Avvento per Francesco infatti durerà 6 mesi, non 4 settimane: prioritario nei programmi, è partito il countdown del suo viaggio nella patria degli apostoli, assai probabile in tarda primavera. Diversamente il comunicato sull'incontro con Netanyahu avrebbe omesso, tout court, di "accennare" al progetto, verbo che nel linguaggio politico serve a confondere, mentre in quello ecclesiastico a confermare.

Galeotto fu il salmo della domenica, che sembrava messo lì apposta come una tentazione: "Già sono fermi i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme!". Difficile immaginare una liturgia più intrigante, per un papa che si apprestava a ricevere il primo ministro di Israele. Così come sarebbe arduo definire un'agenda più "tosta", per dare inizio alla settimana di un leader. Nel giro di 8 giorni, da un lunedì all'altro, Francesco si è confrontato vis à vis con i due grandi "antipatici" tra i grandi della terra: Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu. La visita di quest'ultimo, il 2 dicembre, ha chiuso una triangolazione cominciata il 20 novembre al Cremlino, dove il premier israeliano aveva visto il presidente russo, che subito dopo è venuto in Vaticano a incontrare il pontefice.

Per il capo del Likud, Bergoglio è il 3° papa dopo Wojtyla e Ratzinger. Quando fu eletto la prima volta, nel 1996, c'erano ancora Clinton e Blair, Arafat e re Hussein, Assad padre e Saddam. Se il mondo è cambiato, non ha però cambiato lui. "Bibi" è rimasto lo stesso del 29 maggio di 18 anni fa, quando sconfisse a sorpresa Peres e gli exit poll, inducendo in errore perfino le firme più celebri e originando memorabili gaffe editoriali.

"Nel nome di Rabin: il voto ha diradato la nebbia", azzardò Bernardo Valli su Repubblica, in un fondo di apertura scritto all'ora di chiusura, mentre il tempo stringeva in tipografia e il vantaggio di Peres, nelle proiezioni, sembrava destinato ad allargarsi: 50,6 contro 49,4. Uno virgola due per cento. Insieme alla penna degli opinionisti anche la matita dei disegnatori ebbe fretta. E a Forattini bastò quell'orizzonte decimale, per vestire la stella di Davide con le ali della colomba, liberandola vittoriosa in un cielo di carta e librandola nel volo bugiardo di un mattino, sulle prime pagine di giovedì 30 maggio, anno 5757 del calendario ebraico: "La vittoria di Peres segna il trionfo postumo di Rabin. Israele non è stato sopraffatto dalla paura". La paura invece si nascondeva nelle urne, per uscire allo scoperto e prendere il sopravvento durante lo spoglio, rovesciando le previsioni degli osservatori. Come un tramonto d'oriente, la forbice elettorale si richiuse improvvisa, lanciando l'astro di Netanyahu nel firmamento internazionale.

Sei mesi più tardi, alla vigilia del suo viaggio a Roma, entravo nell'ufficio del nuovo premier a Gerusalemme, lo stesso in cui avevo intervistato Rabin due anni prima: "In questa stanza, signor primo ministro, chiesi al suo predecessore di raccontare il sogno della pace, all'indomani di Camp David. Qualcuno adesso ritiene che sarebbe inutile porre a Lei la stessa domanda, perché Netanyahu non sogna..."

Lui, da consumato comunicatore, incassò la provocazione divertito, riproponendo in versione onirica la priorità della sicurezza, vera vincitrice delle elezioni: "Il mio sogno è vedere il popolo ebraico al sicuro nella propria terra, vivere in pace con i propri vicini...e intendo adoperarmi molto nei prossimi anni per farlo progredire".

Diciotto anni dopo, di converso, il sogno è regredito: lungi dal diventare maggiorenne e maggioritario, appare piuttosto un'aspettativa minore, nonché minoritaria. Più che un "avvento" un'ipotesi avventata. Lo Stato palestinese, nato di per sé istituzionalmente dimezzato, si è diviso in due anche geograficamente, tra Cisgiordania fedele all'Olp e striscia di Gaza in mano ad Hamas. Iraq e Siria sono fuori controllo. Egitto e Libano fuori gioco. Già implosi i primi, pronti a esplodere i secondi. Mentre sauditi e iraniani si contendono l'egemonia regionale a colpi di mosse destabilizzanti.

Benjamin Netanyahu sa bene che il suo ritorno al potere, da 4 anni a questa parte e dopo 10 di opposizione, è figlio dell'incubo che attanaglia i connazionali. Ed è altrettanto conscio, nel pragmatismo che lo distingue, che l'equazione tra caos oltrefrontiera e calma interna, quale conseguenza della fragilità dei vicini, costituisce un calcolo ad alto rischio, insostenibile sulla distanza.

Per questo l'ingresso in scena del Papa venuto dai confini del mondo, attore senza copione, imprevisto e imprevedibile, rappresenta un fattore aggregante di ricomposizione e una valvola insperata di decompressione, in un contesto bloccato quanto instabile. "Le paralisi delle coscienze sono contagiose. Con la complicità delle povertà della storia, e del nostro peccato, possono espandersi ed entrare nelle strutture sociali e nelle comunità fino a bloccare popoli interi", ha detto ancora nella messa concelebrata con il patriarca copto Sidrak, esibendo un'attitudine interventista con la quale i governi dell'area dovranno imparare a rapportarsi.

"Le interessa davvero sviluppare i rapporti con la Santa Sede?", avevo domandato a un giovane Nethanyau, allora quarantenne. "Ho una duplice base, storica e politica, che me lo fa desiderare", mi aveva risposto, con riferimento agli studi biblici di famiglia. Le due "basi", moderna e antica, ritrovano oggi sinergia e sintesi nella profezia che Francesco ha ripetuto, per due volte, all'Angelus della prima domenica di avvento, come chi calca le orme del passato e ci ripassa sopra con l'evidenziatore del presente, confermando la predisposizione a una lettura politica delle sacre scritture: "Mi permetto di ripetere questo che dice il profeta, ascoltate bene: spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci".

Per chi lo ascolta da Gerusalemme, con le antenne di un pubblico sensibilissimo, l'appello del papa risuona come un esorcismo geopolitico, in una regione dove il nucleare di Teheran, al netto delle svolte ginevrine, ha scatenato la corsa agli armamenti, evocando la tromba dell'apocalisse.

Se dunque anche in sinagoga, non appena giunto a Roma, Netanyahu ha ribadito il suo mantra e messo in guardia "dai sorrisi degli iraniani", con ben altro spirito, la mattina dopo, è andato incontro al sorriso di Bergoglio, disarmante e in grado di disarmare, congiuntamente a Putin, gli arsenali di Assad: un successo personale che in termini di realpolitik, dall'osservatorio della stella di Davide, ha destato un'impressione formidabile.

Pur essendo per formazione il più yankee tra i politici d'Israele, "Bibi" notoriamente non ama Obama, visceralmente ricambiato, e non vede quindi con pregiudizio il coinvolgimento crescente di Putin, non fosse altro per l'appoggio, determinante, che il suo governo riceve dal partito degli immigrati post-sovietici.

Nella frantumazione impazzita del mosaico mediorientale tra fedi, feudi e faide, le prove di dialogo triangolare con la prima e terza Roma, dei papi e degli zar, configurano per il primo ministro un elemento geometrico di razionalità, e ragionevolezza, supplendo all'asse preferenziale con la seconda Roma di Costantinopoli, venuto meno per l'indisponibilità, e palese ostilità, del turco Erdoğan.

“Alzati e cammina”: il sogno di Bergoglio ha già il motore acceso. il papa si è messo in testa, e in cuore, di rimettere in movimento la storia della Terra Santa, dove hanno fallito in successione i conducenti della Casa Bianca, tra lunghe soste e accelerazioni a tavoletta.

Il passaggio più geopolitico della Evangelii Gaudium sembra pensato e scritto appositamente sul puzzle palestinese, quando il pontefice insegna a non incartarsi nelle vicende spaziali, ergo territoriali: "Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente...Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi...".

Iniziare processi: a differenza di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, il viaggio di Francesco si colloca, emblematicamente, all'inizio del pontificato. Non alla fine, come per Wojtyla nel 2000, e neppure a metà, come per Ratzinger nel 2009. Il suo attivismo sul "fronte orientale" non conosce pause. A meno di un anno dalla sua elezione ha già incontrato Shimon Peres il 30 aprile, Abdullah di Giordania il 29 agosto, Abu Mazen il 17 ottobre. Ha convocato a Roma il 21 novembre il summit dei patriarchi e ha mandato in Iraq come suo "inviato speciale" Giovanni Paolo II, attraverso una statua del papa polacco che l'Opera romana pellegrinaggi si accinge a recare nella cattedrale di Baghdad, lungo la via che fu di Abramo e che Wojtyla non poté percorrere, impedito dalle guerre del Golfo.

"Apritemi le porte della giustizia": un discorso kennediano, pronunciato da Bergoglio a Gerusalemme, tra mura antiche e nuovi muri, che separano israeliani e palestinesi, potrebbe schiudere una porta temporale e riportare la storia indietro, risvegliando negli Stati Uniti, sul finire del secondo mandato presidenziale, la voglia di essere e sentirsi America, che nel 2000 spinse Clinton a forzare e sfiorare la pace, in quello che resta l'ultimo, autentico tentativo di soluzione del conflitto.

Se non si deve pretendere tutto e subito, non si possono nemmeno lasciare le cose come stanno. Il papa non avallerà pertanto l'alibi che subordina la questione palestinese all'esito delle trattative con l'Iran, consegnandola de facto, e sine die, in ostaggio agli ayatollah. "Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l'esclusione e l'inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza", scrive ancora nell'Esortazione Apostolica, che si caratterizza, ogni giorno di più, quale Magna Carta del pontificato.

"Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme": se Francesco non entrerà negli aspetti specifici, per non restare "intrappolato", alzerà però la voce su quelli di principio, a cominciare dall'equità degli assetti territoriali e dal riconoscimento dello Stato di Palestina, obiettivo rispetto al quale la sua visita segna profeticamente, e segnala politicamente, la "pienezza dei tempi".

La penna ritorta, offerta in dono ad Abu Mazen e modellata sul baldacchino del Bernini, indica che il pontefice affronta la sfida con lucida, nonché scaramantica, consapevolezza dei problemi a cui la pace si attorciglia, per poter essere sottoscritta. Non ultima la spirale di contraddizioni interne all'islam.

A riguardo, e a dispetto dei luoghi comuni, Bergoglio teorizza non meno di Ratzinger il primato d'amore del cristianesimo. Tuttavia, diversamente dal professore di Ratisbona e alla stregua del santo d'Assisi davanti al sultano, trasferisce il confronto dalle aule universitarie all'accampamento della vita, dall'eloquenza pungente dei concetti alla testimonianza coinvolgente dei gesti, scendendo dalla cattedra e scegliendo il terreno della misericordia, quale categoria politica, su cui le religioni sono chiamate misurarsi.

"Ma c'è qualcosa di più alto dell'amore rivelato a Gerusalemme?", si è chiesto a luglio in Brasile, mostrando che il pensiero dell'Oriente lo accompagna pure nei suoi ritorni a Occidente: "Nulla è più alto dell'abbassamento della croce, poiché lì si raggiunge veramente l'altezza dell'amore!”.

Nonostante la imprevedibilità di Francesco, il viaggio in definitiva conviene a tutti: arabi e israeliani, americani e russi. E tutto prelude alla sua realizzazione, complice il cinquantesimo anniversario dell'incontro tra Paolo VI e Atenagora: il primo "volo" di un papa.

Bergoglio, dal canto suo, non predilige i "vescovi di aeroporto", anzi li ha espressamente invitati a rimanere accanto alle diocesi, loro spose, senza indulgere a frequenti abbandoni del tetto coniugale. Ma Gerusalemme rappresenta il "richiamo delle sorgenti", una sete dello spirito e dei sensi alla quale nemmeno il vescovo di Roma può resistere e una strada che la Chiesa deve percorrere, anche fisicamente, oltre che in via di metafora.

"Vorrei che ci domandassimo tutti, oggi: siamo ancora una Chiesa capace di riscaldare il cuore? Una Chiesa capace di ricondurre a Gerusalemme? Di riaccompagnare a casa? In Gerusalemme abitano le nostre sorgenti...Siamo ancora in grado di raccontare queste fonti così da risvegliare l'incanto per la loro bellezza?"

La Città Santa costituisce la meta di un viaggio interiore, interno a una strategia di rinnovamento ecclesiale. Ma esso può riservare impensati risvolti esterni, posando la mano del pontefice argentino, con il suo tatto e istinto riformatore, sul nervo scoperto della storia contemporanea.

Se dagli scogli di Lampedusa Bergoglio ha puntato il faro, e tuffato lo sguardo, dentro l'abisso tra Nord e Sud, lungo la Via Dolorosa muoverà i passi, e metterà il piede, sulla faglia sismica tra Oriente e Occidente.

Dovesse riuscire nell'impresa, sollevando e rilanciando la pace, colmerebbe all'istante un vuoto che l'immaginario del mondo, in queste ore, ha sentito con gigantesca intensità.

In un pianeta orfano di Mandela, Gerusalemme potrebbe "ungere" Francesco e consacrarne la leadership morale, attuando il mandato del Concilio, che ai successori di Pietro affida il compito, squisitamente politico, di rappresentare un simbolo di unità non solo per la loro Chiesa, o l'universo dei credenti, ma per l'intero genere umano.

Articolo originariamente pubblicato su L'Huffington Post | L'atlante di papa Francesco

Per approfondire: "La battaglia per Gerusalemme"

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