Dire e inibire di Claudio Vercelli

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Qualche parola è dovuta, a questo punto, rispetto a una vicenda che sta facendo il giro del web, quanto meno in quel circuito di interlocutori che si occupano di scrittura e comunicazione pubblica.
Le persone e i fatti, intanto: Marina Morpurgo – per me da sempre MM (come la chiamo, per prenderla amichevolmente in giro, facendo del suo nome un acrostico che equivale a quello di metropolitana di Milano, la città in cui abita e lavora) – è una firma nota in campo ebraico come anche in quello della carta stampata. A lungo ha lavorato nella stampa quotidiana, seguendo la classica trafila di chi fa la cosiddetta gavetta, per poi impegnarsi in quel singolare e irripetibile settimanale che è stato Diario allora diretto da Enrico Deaglio, di cui è stata caporedattrice. Ha raccontato il nostro paese, e non solo, per tantissimi anni. Dopo di che, chiusa quest’ultima testata, del pari a tanti, ha dovuto arrangiarsi da sé, non potendo più contare su un reddito fisso. Si è rimboccata le maniche e ha continuato nel suo lavoro, che è anche la passione della sua esistenza, la scrittura (e la lettura, come traduttrice e redattrice per le case editrici). Di sé dice di essere una “giornalista disoccupata”. In realtà, chi come me la conosce, sa che è una lavoratrice superoccupata ma sottopagata e senza alcuna tutela che non sia la sua stessa capacità di lavorare indefessamente. È il mercato, bellezza! Peccato che sia principio che vale per certuni ma non per altri.
Nel suo profilo Facebook racconta, a mo’ di diario quotidiano, in forma faceta e ilare (mai cinica o sarcastica), quadretti di vita lavorativa, familiare e collettiva, aiutandoci a sorridere di tempi così difficili. Marina non si è mai nascosta dietro a un dito. Persona riservata e forse anche un poco timida, malgrado la grande disponibilità a raccontare e raccontarsi, ha dimostrato di avere il coraggio delle sue posizioni. Peraltro mai urlate. Semmai esplicitate.
Da questi giorni, tuttavia, oltre ad essere una persona molto impegnata nel tanto lavoro che le viene pagato molte volte di meno di quanto meriterebbe, è purtroppo anche una persona “preoccupata”. Perché? Nei giorni scorsi, convocata al comando dei vigili urbani, si è vista notificare un avviso di garanzia emesso dalla Procura della Repubblica di Foggia. L’accusa, basata sulla denuncia presentata da una scuola professionale privata di quella città, è di avere usato “espressioni denigranti” nei riguardi di un manifesto pubblicitario della medesima impresa. Il luogo del reato è Facebook (oramai una sorta di purgatorio della parola, che diventa inferno per certuni e luogo di licenza per tanti altri). In un suo post polemico, Marina aveva duramente criticato il contenuto del manifesto, il quale presenta una bambina, dell’età apparente di non più di dieci anni, una sorta di piccola Barbie, all’atto di truccarsi le labbra, con uno sguardo ammaliante, nel mentre su di lei campeggia quello che sarebbe il pensiero che intende così esprimere: “farò l’estetista. Ho sempre avuto le idee chiare”.
Non ci vuole un particolare acume analitico né una intelligenza iconografica e pubblicitaria sovraumana per cogliere in ciò quanto meno il cattivo gusto, quello che rinvia a una qualche forma di ammiccamento. Al di là delle stesse intenzioni degli autori dell’affiche, qualora non fossero queste.
Marina scrive parole al contempo severe e ironiche: “I vostri manifesti e i vostri banner sono semplicemente raggelanti”. E ancora: “complimenti per la rappresentazione della donna che offrite”. “Negli anni Cinquanta vi hanno ibernato e poi svegliati?”. Infine, riferendosi alla figura di zio Paperone, poiché l’immaginario e la comunicazione dell’autrice si rifanno spesso al mondo dei fumetti, nonché parafrasando quanto scritto nel manifesto: “anche io ho sempre avuto le idee chiare, chi concepisce un manifesto simile andrebbe impeciato e impiumato”. Dalla lettura di queste considerazioni, fatte già un anno fa, è derivata la denuncia e l’indagine della Procura foggiana. Infine, la comunicazione giudiziaria, che avvia la fase dibattimentale del procedimento. Per il quale la querelata dovrà intervenire sostenendo le sue ragioni. Fin qui, forse, qualcosa certamente di preoccupante ma nulla di troppo inquietante (quanto meno se le sue parole verranno accolte e ponderate con ragionevolezza). Da subito, tuttavia, dovrà caricarsi di spese che per una persona che deve fare i conti con un reddito molto contenuto non sono certo le benvenute. Il giudizio che verrà espresso è poi una spada di Damocle. Se dovesse essere riconosciuta colpevole di ciò che le è imputato, l’onere economico risulterebbe oltremodo aggravato. Questo per ciò che riguarda la nuda vicenda.
Più in generale, tuttavia, vi sono alcune considerazioni da aggiungere. È senz’altro vero che chi si sente diffamato o calunniato dalle altrui affermazioni ha diritto a chiedere di vedere riconosciuto il dolo che ritiene di avere subito. Non è meno vero, tuttavia, che se il web, e in particolare i social network, sono divenuti contenitori di urla, strepitii ma anche epiteti e insulti, sussiste un ragionevole ordine di considerazioni che deve sempre subentrare, rispetto alla dimensione, al contesto e al valore di quanto viene affermato. Poiché se invece le cose andassero altrimenti, la grande maggioranza degli italiani che usano Internet come piattaforma di comunicazione rischierebbero di essere soggetti a querela. Con un effetto non solo di intasamento di tribunali e procure (lo sono già da sé, in un mare di carte, faldoni, tra denari che mancano e risorse sempre più contratte) ma di combinato disposto tra vaglio sistematico e preventivo della comunicazione (leggasi: totale autocensura) e prevedibile nullificazione dei procedimenti, affastellati l’uno sull’altro, nell’illusoria convinzione, già adesso coltivata da certuni, che la tutela dei diritti di ognuno di noi coincida con il ricorso ad atti di inibizione dell’altrui parola.
Ho sempre sostenuto che il confine tra critica radicale e calunnia può risultare, in certi casi, sottile. La penna può sfuggire di mano, a volte non intenzionalmente. Tuttavia, anche nelle situazioni più ambigue, poiché maggiormente sfumate, tale linea di divisione sussiste. Che sia chiamato a tracciarla un giudice è una sconfitta dell’intelligenza. Guardo il manifesto, rileggo le parole di Marina e mi convinco che la ragione stia dalla sua parte. Ma mi viene da pensare anche a qualcosa d’altro. L’articolo 21 della Costituzione tutela la libertà di stampa e, per diretta associazione, quella più generale di informazione, comunicazione e giudizio. C’è in giro – ed è l’altra faccia della medaglia di una libertà di parola trascesa invece in bieca licenza di calunnia – un desiderio inconfessabile di porre la museruola alla discussione pubblica, quand’anche essa sia realizzata su un social network. Magari concedendo il ricorso all’insulto, o derogando sulla sua natura di certo degradante (oggi spesso derubricato a espressione della “veracità” del comune sentire), ma sindacando ossessivamente sulle opinioni, quand’anche esse siano manifestate in forma garibaldina, come a volte l’autrice va facendo. Una delle strade attraverso le quali la democrazia si contrae è il sindacato permanente sulle altrui parole, che si trasforma in processo preventivo alle intenzioni, considerate aprioristicamente malevoli e offensive. Soprattutto in un Paese come il nostro, dove tutti si sentono vittime di qualcuno o qualcosa ma nel quale il concetto di responsabilità condivisa è spesso inesistente. Così non va. Proprio per niente.
La vicenda di Marina Morpurgo è forse in sé piccola, ma intanto colpisce, e grandemente, la già non facile esistenza di una persona non di certo ricca – e men che meno protetta da altro che non siano le leggi e la ragione -, che deve ora aggiungere, alle già tante difficoltà quotidiane, un aggravio di oneri materiali e psicologici: produzione di memorie difensive, ricorso a un avvocato e tutto il resto. Nel corso della sua carriera, afferma, anche trattando argomenti problematici e spinosi con la penna che le è propria, mai era stata chiamata a renderne conto dinanzi ad un magistrato.
C’è sempre una prima volta, recita un vecchio adagio. In questo caso, è la volta dello sconcerto

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