Palestina. “Gaza 36mm”, ascesa e fine del cinema gazawi



Palestina. “Gaza 36mm”, ascesa e fine del cinema gazawi

Un documentario racconta come, in questa striscia di mondo, la settima arte sia stata eliminata nel giro di 20 anni. Ma anche di quando le sale erano affollate, e Gaza City ospitava la più grande del mondo arabo.

Gaza 36mm è piccolo gioiello, per estetica e contenuti.
Opera prima come produttore di Ibrahim Yaghi, è stato diretto da Khalil Almuzain, con la collaborazione e partecipazione dei due fratelli Ahmed e Mohamed Abu Nasser, in arte Tarzan & Arab, anche loro attori-registi.
L’idea di un documentario sul cinema a Gaza, nasce da alcune constatazioni. Primo: di cinema, a Gaza, non ce ne sono.
Secondo, la popolazione della Striscia è divisa in due categorie: chi è nato prima degli anni ’80, ed ha potuto sperimentare il gusto di entrare nel buio di una sala cinematografica; e chi dopo, e in un cinema non ha mai messo piede.
La terza, più che una constatazione è una frustrazione: quella del regista, del produttore e dei protagonisti del documentario, che si definiscono ‘bulimici cinematografici’ e che, per assistere a una proiezione pubblica, devono sperare di raggiungere quando è possibile almeno l’Egitto.
C’è stato un tempo però in cui nella Striscia di Gaza i cinema erano tanti, e a Gaza City esisteva quello più grande del mondo arabo. 
È questa la storia raccontata da Gaza 36mm.
Un documentario-racconto nel quale i tre protagonisti Khalil, Tarzan e Arab, in una narrazione alla Nuovo cinema paradiso, ricordano il loro primo incontro con il grande schermo e soprattutto la storia delle sale cinematografiche a Gaza. 
I loro stralci di vita scorrono sulle immagini e i suoni di quello che sembra essere un proiettore artigianale, recuperato dal telaio di una bicicletta. La presentazione dell’idea iniziale, sul primo piano di Khalil, poi le immagini di una stanza, la camera che riprende al contrario e il sole che gira.
Luce del tramonto, arancione e bolle di sapone. “Avevo delle immagini molto belle, volevo farci qualcosa, ma non sapevo cosa raccontare. Poi è nata l’idea”, spiega Khalil.
Una fotografia bellissima che fa virare il documentario verso l’opera artistica più che informativa. Ed è da questi esercizi di stile che emerge il gusto degli autori per la settima arte a loro negata, vissuta quasi in clandestinità.
Non esistono ricerche ufficiali sui cinema gazawi: anche il racconto più storico e documentaristico, allora, si costruisce attraverso testimonianze personali e aneddoti.
Le voci dei tre protagonisti e di altri intervistati - come il direttore delle relazioni pubbliche e internazionali del ministero della Cultura di Gaza, Mohammad Aeraar - scorrono sulle immagini dei luoghi del cinema della Striscia, alternate a quelle dei manifesti di film e di scene celebri, in un montaggio rapidissimo e nervoso, quasi a voler mostrare il più possibile, in una volta sola.
Tutto ciò che per anni è stato vietato.
Sul filo dei ricordi allora si racconta che la prima sala, a Gaza, sarebbe stata aperta grazie alla licenza ottenuta da Rashad Shawa, nella prima metà degli anni ’40 e sarebbe stata addirittura visitata da Farid al-Atrash e da sua sorella Asmahan, famosa cantante dell’epoca. Il cinema al-Samer, in quei giorni, era colmo della folla dei grandi eventi. 
Poi qui anche la storia dell'arte si intreccia a quella della guerra. E allora si racconta che, dopo l’esperienza di al-Samer, i primi film proiettati a Gaza su larga scala siano stati quelli dell’Unrwa nel 1948, quando la Striscia si è trovata isolata per la prima volta e le Nazioni Unite organizzavano proiezioni pubbliche sotto le tende, per spiegare le regole di igiene ai rifugiati.
Ma è a partire dagli anni ’50 che la magia dell’arte cinematografica come svago e divertimento sbarca realmente a Gaza: è il 1953 quando apre le sue porte la sala al-Nasr, 3 mila metri quadri di superficie per il più grande cinema della regione all’epoca.
Negli anni seguenti le sale si moltiplicano, diventano 10 negli anni ’70. La maggior parte dei film proiettati arriva dall’Egitto.
Tra gli anni ’50 e gli anni ’70 il cinema a Gaza è una delle attrazioni principali, c’è competizione tra le sale e i ragazzi si affollano agli ingressi per acquistare i biglietti.
Ascoltare i ricordi di Khalil, sulla sua relazione personale con il mondo dei film, in quegli anni, fa capire che importanza avesse per i gazawi: “Improvvisamente ci si spalancava davanti il mondo del cinema. Per un ragazzo povero, proveniente da un campo per rifugiati, era qualcosa di meraviglioso. Io di solito rovistavo tra i rifiuti inglesi, lasciati indietro dal Mandato, sul confine tra Rafah e l’Egitto, e vendevo ciò che trovavo a prezzi stracciati per mettere da parte qualche soldo e comprare il biglietto del cinema”, racconta.
Poi però è ancora la storia politica a prevalere e condizionare ogni aspetto della vita nella Striscia. Tra gli anni ’70 e ’80, con l’ascesa dell’Islam politico, i film proiettati nella sale iniziano ad essere considerati "pornografici", lo svago offerto dal cinema peccaminoso.
Ancora le parole amare di Khalil: “Un’attrice che mostra i suoi capelli deve essere considerata pornografica? Chi può definire cosa lo sia e cosa no, nel cinema? Il suo unico, vero lato negativo è stato che la nostra generazione ha iniziato ad abbracciare il romanticismo, ognuno di noi credeva di essere un eroe  che avrebbe potuto salvare la sua amata. Una polveriera di violenza e fervore”.
Inizia così il periodo buio per il cinema a Gaza. L’assedio israeliano, l’economia in peggioramento, l'integralismo interno rendono la situazione sempre più tesa.
Nel corso degli anni ’80 vengono chiuse, una ad una, tutte le sale. Bruciate nel corso della prima Intifada o chiuse dagli israeliani per evitare che diventino centri di ritrovo per organizzazioni politiche.
Nel documentario scorrono le immagini di vestigia di sale vuote delle quali sono rimaste in piedi solo le mura esterne a testimonianza della loro esistenza.
Inizia così la frustrazione di una generazione nata prima della fine degli anni ’80, che ha potuto incontrare la magia dell’arte ma si è vista chiudere in faccia le porte delle sale, quando aveva appena iniziato ad assaporarne l’odore.
E’ stato così anche per Arab & Tarzan, ma la loro passione non si è spenta. Nel documentario mostrano quale sia il loro modo di resistere.
Fratelli gemelli, raccontano come hanno iniziato a riprodurre manifesti cinematografici nel più classico stile americano. I loro volti truccati somigliano a quelli dei miti del cinema d’azione,mai titoli dei film sono quelli delle operazioni militari israeliane.
Come l’offensiva “Cast Lead”, raccontata dal punto di vista della violazione di un’intimità amorosa nel cortometraggio “Condom Lead”, che ne distorce il nome ironizzando sugli effetti che le guerre hanno sulla sessualità di uomini e donne.
Gaza 36mm è un bellissimo documentario, testimonianza preziosa di ciò che Gaza è stata e ora non è più. 
E' anche la celebrazione della magia di un’arte, quella cinematografica, che può raggiungere tutte le latitudini e i contesti; è una commemorazione del superfluo necessario, perché una sala cinematografica può significare tutto per un “bambino povero che vive in un campo profughi”.
Ed è anche un atto di accusa contro chi ha ridotto la Striscia in questa condizione. Contro l’occupazione militare israeliana, ma anche contro chi ha scelto di distogliere l’attenzione dal suo assedio senza fine imposto dall'esterno per crearne uno interno.
Lasciando che da Gaza scomparissero, uno dopo l’altro, anche i cinema.

Per il trailer del documentario clicca qui.

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