Uri Avnery : 1967 - Un testimonianza personale

Gush Shalom
07.06.2013
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1967 – Una testimonianza personale
Il 25 di maggio del 1967, dodici giorni prima della Guerra-dei-sei-giorni, pubblicai su Haolam Hazeh, la rivista di cui ero il redattore, un articolo intitolato: “Nasser è caduto in trappola” che sembrava una pazzia, perché, a quel tempo, tutto Israele era alle prese con un terrore mortale. 
di Uri Avnery
Qualche mese prima, ero stato invitato a tenere una conferenza in un kibbutz del nord. Dopo la conferenza venni invitato per un caffè con alcuni membri. In quell’occasione, il mio ospite mi riferì , in confidenza, che solo una settimana prima era stato da loro il Comandante del Comando Nord, generale David (“Dado”) Elazar. Nella stessa sala, Dado aveva confidato ai soliti pochi membri fidati: “Ogni notte, prima di andare a dormire, prego che Nasser concentri le sue truppe nel deserto del Sinai. Là, le avremmo annientate.”
                              



Quando a metà maggio, Nasser concentrò le sue truppe nel Sinai, sembrò fosse una risposta a questa preghiera. Così, mentre la maggior parte della gente attorno a me era pietrificata dalla paura, io non ero preoccupato. 
Quella paura era reale. C’era un gran parlare di un imminente secondo olocausto. Dall’inizio della crisi fino all’inizio della guerra, per tre intere settimane, la paura che aveva avvinto Israele cresceva di giorno in giorno. La “Voce del Tuono”, la stazione radio del Cairo che trasmetteva in ebraico stentato – fino ad allora considerata abbastanza ridicola – lanciava minacce raccapriccianti. Gamal Abd-al-Nasser stesso – che in realtà aveva una mortale paura di un attacco israeliano e non si sognava per nulla di andare all’assalto – pensava che con la minaccia di gettare Israele a mare ci avrebbe costretto ad abbandonare ogni idea di guerra. Ciò, naturalmente, ebbe l’effetto opposto. 
La catena degli avvenimenti che hanno reso inevitabile la guerra assomigliò per certi versi alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, “la guerra che nessuno voleva.” 
La Siria sovvenzionò la guerriglia palestinese iniziata da Arafat ai suoi confini. Israele rispose con terribili intimidazioni. Il Capo di Stato Maggiore, Yitzhak Rabin, minacciò pubblicamente di occupare Damasco e di rovesciare il regime. I siriani si spaventarono e chiesero aiuto all’Egitto. 
Poco prima dell’inizio della crisi, l’ambasciatore sovietico, Chubakhin, mi chiese di andargli a fare visita nella sua ambasciata di Ramat Gan. Mi disse che Israele aveva in programma di attaccare la Siria e che aveva già ammassato truppe al confine. Riteneva che questo facesse parte di un più ampio progetto statunitense di installare in tutta l’area regimi filo americani, a cominciare dal recente colpo di stato dei colonnelli in Grecia (aprile 1967) e dalle macchinazioni statunitensi in Iran. L’ambasciatore mi chiese di usare la mia influenza, in quanto membro della Knesset e capo-redattore di una popolare rivista, per mettere all’erta il pubblico israeliano 
Temo che la mia risposta sia stata abbastanza cinica: se ha paura di questo, perché non dà istruzioni al suo ambasciatore a Damasco di chiedere agli amici siriani di porre fine alle azioni di guerriglia in Israele, almeno per un po’ di tempo? Perché mai offre al nostro governo un pretesto per la guerra? 
La risposta di Chubakhin mi lasciò sbalordito: ”Cosa pensa, che a Damasco qualcuno dia ascolto al nostro ambasciatore?” 
La storia “dell’ammassare delle truppe ai confini “ di Israele, era, naturalmente, ridicola. Un generale sovietico può credere che prima di dare l’inizio a un attacco si devono ammassare le truppe alla frontiera. Ma nel minuscolo territorio di Israele, “ammassare” le truppe era sia impossibile che superfluo. 
In ogni caso, di fronte alle richieste di aiuto della Siria e le storie sovietiche riguardo il concentramento delle truppe israeliane, Nasser vide in questo l’opportunità per affermare la sua leadership sul mondo arabo. Mandò le sue truppe nel Sinai. Se avesse avuto realmente l’intenzione di cominciare una guerra, l’avrebbe dovuto fare nel modo più segreto possibile. Mentre le sue truppe oltrepassarono il Cairo in pieno giorno, a riprova che il suo obiettivo era quello di far mostra di sé. 
Si dava il caso che a un party incontrassi Ezer Weizman, che fino a poco tempo fa è stato comandante delle forze aeree israeliane,. Mi disse di essere stupefatto. Il servizio segreto dell’esercito israeliano era stato colto completamente di sorpresa dalla comparsa di truppe egiziane nel Sinai. Erano stati persuasi che tutto l’esercito egiziano fosse impegnato nel lontano Yemen, dove Nasser si era intromesso in una guerra civile. Anzi, la capacità della forza aeree egiziana di rifornirvi le proprie truppe suscitò in Weizman una riluttante ammirazione. 
Il 23 maggio, Nasser annunciò (falsamente) di aver minato gli accessi marittimi a Eilat. Questo per Israele fu un casus belli. Eilat rappresentava il varco per il mondo orientale, la libertà di transito aveva laggiù un’importanza emotiva ben al di là del suo valore reale. Ricordo che, quel giorno, di ritorno dalla Knesset, e parlando ai colleghi del comitato esecutivo del New Force Party: “Ora la guerra è inevitabile.” Aggiunsi: “Questa guerra cambierà ogni cosa.” 
Per esasperare questi passi, Nasser chiese al Segretario Generale delle Nazioni Unite, U Thant, di ritirare le forze dell’ONU – ma solo da un determinato settore. (Queste forze erano state dislocate su confine fin dalla Guerra del Sinai del 1956). 
Fraintendendo completamente la situazione, U Thant ritirò tutte le truppe. Ora, di fronte alla possibilità di un attacco preventivo israeliano e credendo alla sua stessa propaganda che Israele non era altro che un fantoccio degli americani, Nasser inviò negli Stati Uniti il suo vice per convincere gli americani a fermare Israele. Nel frattempo, gli israeliani videro solo la minaccia incombente e ritennero di poter essere attaccati in ogni istante. 
Posso attestare lo stato d’animo nelle alte sfere. Pochi giorni prima della guerra, alla Knesset Menachem Begin mi prese da parte. “Uri,” disse con grande agitazione, “abbiamo opinioni diverse, ma in questa crisi esistenziale abbiamo tutti lo stesso obiettivo: salvare Israele. Tu e la tua rivista esercitate una grande influenza sui giovani. Per favore, usatela per rafforzare il loro morale!” 
Nel mio ultimo intervento alla Knesset prima della guerra dichiarai: “Proprio in un’ora di esitazione come questa, sull’orlo della guerra, un grande statista israeliano potrebbe assumere un’iniziativa rivoluzionaria per dare inizio a un dialogo diretto, forse segreto, forse pubblico e plateale, che potrebbe portare a un cambiamento fondamentale per ciò che riguarda la nostra posizione nell’area.” 
Alla disperazione generale andava aggiunta la personalità di Levy Eshkol, successore di David Ben-Gurion alle cariche di Primo Ministro e Ministro della Difesa. Era considerato – abbastanza a torto – un leader goffo, indeciso e incompetente. In un cruciale discorso radiofonico incespicò su una parola che era stata aggiunta all’ultimo minuto da uno dei suoi consiglieri, e sembrò fosse balbuziente. 
Nel corso di questi “Giorni di ansia” , come da allora divennero noti, Eshkol fu sottoposto a forti pressioni. Generali di spicco (tra cui Matti Peled, che in seguito divenne mio amico e attivista per la pace) si recarono da Eshkol e gli consegnarono l’equivalente di un ultimatum, pretendendo un attacco immediato. Con quasi tutta la popolazione maschile mobilitata e in allerta ai confini, la vita normale era giunta a un punto morto. Tutto il paese stava col fiato sospeso. 
Ricevevo rapporti quasi quotidiani su quando succedeva nel gabinetto. La mia fonte era Yigal Allon. 
Allon, ex comandante del Palmach (truppe d’assalto dell’Haganah) e , nel 1948, comandante del fronte meridionale, ora era ministro del lavoro. Eravamo divenuti amici dopo la guerra del 1948. Quando iniziò la crisi del 1967, decisi di pubblicare un giornale temporaneo, chiamato Daf (“pagina”). Tuttavia non c’era alcuna tipografia disponibile e in grado si stamparlo, tranne quella di proprietà del movimento dei Kibbutz di Allon. 
Durante la crisi, mi incontrai con Allon quasi ogni giorno per definire l’accordo e in queste occasioni mi confidò il suo cuore. Il suo impiego nel governo, di minor livello, era frustrante per l’eroe dei soldati del 1948. Si struggeva per il Ministero della Difesa e l’aggravarsi della crisi gli offrì l’opportunità. 
Ogni giorno, in modo praticamente percettibile, diventava più consistente la richiesta che Eshkon rassegnasse la carica di primo ministro o almeno lasciasse il portafoglio della Difesa. All’inizio, vennero resi noti i nomi di diversi candidati al Ministero della Difesa. Allon era in alto nella lista. Altri candidati plausibili erano il “vecchio” David Ben-Gurion, facente funzioni di Capo si Stato Maggiore nel 1948 – il generale Yigael Yadin, ex vice ministro della difesa – Shimon Peres e un ex Capo di Stato Maggiore, Moshe Dayan. 
Allon era sicuro che avrebbe ottenuto l’incarico, dal momento che era già membro del governo e, in guerra, era stato un generale di molto successo. Di giorno in giorno diventava sempre più radioso. Per via la lista diventava sempre più corta, finché la richiesta generale alla fine s’incentrò su Dayan. Un gruppo di donne (subito soprannominate “Le allegre comari di Windsor”) manifestò a suo favore di fronte alla sede principale del Labor Party. 
Alla fine di maggio, quando poi vidi Allon, era a pezzi. Aveva appena saputo che Eshkol aveva ceduto e dato l’incarico a Dayan. Allon disprezzava il famoso generale. Come gran parte dei comandanti del 1948, considerava Dayan un pessimo soldato, incapace di un lavoro di stato maggiore ordinato e completamente irresponsabile. (In effetti, una volta ho sentito Dayan vantare la sua “irresponsabilità”)
                                          
                                             Levy Eshkol e Moshe Dayan
 Dayan ebbe scarsa influenza sulla pianificazione della guerra, ma un enorme impatto sul morale delle truppe – carismatico, affascinante e con la reputazione di un comandante coraggioso ed energico. 
Le riserve che erano state mobilitate , solo per aspettare, aspettare e aspettare ancor di più, salutarono con entusiasmo la sua nomina. Capirono che la lunga attesa era pressoché finita. 
Quando il nostro esercito attaccò, fu come venisse sganciata una potente molla. 
Il primo giorno di guerra, dopo una sessione parlamentare di emergenza, ero seduto nel rifugio antiaereo della Knesset sotto il bombardamento dell’artiglieria giordana a Gerusalemme Est, quando un amico mi sussurrò all’orecchio: “Abbiamo già vinto la guerra. L’aviazione ha distrutto gli aerei egiziani a terra.” 
Questa informazione venne tenuta nascosta all’opinione pubblica. Tutti i rapporti sulle incredibili vittorie del nostro esercito erano stati tacitati dalla censura, perché il governo temeva che, se fossero divenuti di dominio pubblico, le Nazioni Unite avrebbero imposto un cessate-il-fuoco., che ora pareva d’intralcio. Così la gente si trovò esposta alla ridicola iperbole della “Voce del Tuono” secondo la quale Tel Aviv era in fiamme. 
Molti territori furono conquistati quasi per caso. C’era un piano militare per la distruzione delle forze egiziane del sud, ma non ce n’erano per una guerra globale. Dayan era non solo contro l’occupazione della Striscia di Gaza, ma anche contro l’occupazione di Gerusalemme Est. La West Bank era stata occupata con un’operazione non preventivata, dopo che re Hussein aveva inaspettatamente aperto il fuoco al fine di dimostrare la sua solidarietà con l’Egitto. All’inizio, Dayan non era d’accordo con l’operazione contro la Siria, per timore di un intervento sovietico. A causa di ciò, non vi era alcun piano che prevedesse il futuro della numerosa popolazione dei Territori occupati. 
Il quinto giorno di guerra, proprio dopo che il nostro esercito ebbe conquistato la West Bank e la Striscia di Gaza, scrissi una lettera aperta a Levy Eshkol, con la quale proponevo di cogliere l’opportunità storica e di offrire al popolo palestinese la possibilità di costituire un proprio Stato. Avevo sostenuto questa idea fin dal 1949, ma ero convinto che questo momento, con l’intera regione in stato di shock, sarebbe stato quello giusto per fare la pace con i palestinesi, facendo loro un’offerta storica. 
Subito dopo la guerra, Eshkol mi invitò a un colloquio privato. Ascoltò pazientemente mentre gli spiegavo questa idea. “Uri, che tipo di commerciante sei?” disse con un sorriso benevolo. “Nei negoziati, si inizia offrendo il minimo e richiedendo il massimo. Poi, poco a poco, si alza l’offerta fino a che viene raggiunto un compromesso da qualche parte nel mezzo. Ciò che tu proponi è di offrire tutto, ancor prima che siano iniziati i negoziati.” 
“Questo è vero quando si vende un cavallo,” risposi, “non quando si vuole ottenere una pace storica.” 
Contrariamente all’apparenza, Eshkol era un tipo veramente molto tenace. Tutto ciò era mascherato da una disposizione amichevole, un senso yiddish dello humor e una sintassi che inchiodava al muro gli stenografi della Knesset. Aveva dedicato tutta la sua vita alla creazione di insediamenti ebraici e ora tutto quello che poteva vedere era una vasta distesa che poteva venire utilizzata per nuove colonie. 
Nei successivi mesi e anni, ho fatto decine di interventi alla Knesset (oltre agli articoli su “Haolam Hazeh”) a sostegno dell’idea di uno Stato palestinese nei territori appena occupati. In uno dei miei discorsi riferii di aver parlato con tutti i leader di spicco nella West Bank e nella Striscia di Gaza, compresi coloro che erano noti come “simpatizzanti della Giordania”, e che tutti mi avevano detto di preferire uno Stato palestinese alla restaurazione della sovranità giordana. Sia Dayan che Eshkol respinsero tutto ciò, ma Eshkol inviò il suo consigliere per i territori occupati, Moshe Sassoon, per pormi domande in privato a proposito delle mie informazioni. Il 13 agosto 1969, Sassoon scrisse una relazione al Primo Ministro (una copia della quale per me) nella quale confermava che le sue informazioni personali erano identiche alle mie. 
Con mia piacevole sorpresa, mi resi conto di avere un buon numero di sostenitori nell’alto comando dell’esercito. 
I generali, è stato detto, combattono sempre l’ultima guerra. Nelle loro menti alberga anche l’ultima pace. Nel 1956, il presidente Eisenhower e i leader dell’Unione Sovietica avevano costretto Ben-Gurion a restituire all’Egitto tutti i territori occupati durante la guerra del Sinai. Ora tutti si aspettavano la stessa cosa. Di fronte a questa possibilità, molti generali preferivano l’idea di uno Stato palestinese demilitarizzato accanto a Israele alla prospettiva di restituire i territori alla Giordania, uno stato molto più grande che poteva servire come zona di raccolta per gli eserciti della Giordania, Siria, Iraq e Arabia Saudita. Nei sondaggi di opinione, il sostegno all’idea di uno Stato palestinese accanto a Israele raggiunse un sorprendente 37%. 
Tale fase passò in fretta. Gli Stati Uniti che, alla vigilia della guerra, avevano informato segretamente il nostro governo che non si sarebbero opposti a un attacco israeliano, ora nulla fecero per costringere Israele a ritirarsi. A poco a poco, la leadership israeliana venne a conoscenza dell’assenza totale di una pressione internazionale perché venisse restituito alcunché. Inoltre, i “tre no” adottati nel settembre del 1967 a Khartoum dal vertice dei leader arabi umiliati (“Non c’è pace, né riconoscimento, né negoziati”), fece il gioco degli annessionisti israeliani. 
Gruppi di persone del movimento dei kibbutz già sciamavano nella West Bank alla ricerca di posizioni favorevoli. Le trovarono nella Valle del Giordano – pianeggiante, adatta ai trattori e irrigata dal fiume. Subito dopo la guerra, un numero enorme di profughi della guerra del 1948 vennero cacciati dai campi profughi di Jericho vicini al fiume. La spinta alla colonizzazione che doveva cambiare completamente la mappa era in cammino. 
Quasi automaticamente, vennero eseguite azioni di pulizia etnica. Fu impossibile accertare chi avesse dato gli ordini. Evidentemente, vennero trasmessi oralmente. Al di sopra del tutto si librava lo spirito di Moshe Dayan. 
Subito dopo la battaglia, venne da me lo scrittore Amos Kenan. Era in uno stato di shock, mi raccontò di essere appena stato testimone dell’espulsione di migliaia di abitanti da tre villaggi dell’area di Latrun. Gli chiesi di sedersi e di scrivere un rapporto di ciò che aveva visto. Era un documento rivoltante. Mi recai all’istante al villaggio di Imwass (forse la biblica Emmaus) e vidi i bulldozer che spianavano casa dopo casa. Quando tentai di fare delle foto, i soldati mi costrinsero ad andarmene. 
                                
                       Imwass prima della trasformazione nel Parco Canada


Da lì mi precipitai alla Knesset e distribuii copie del rapporto a diversi ministri, compreso Begin e i ministri del Mapam, come pure agli assistenti del Primo Ministro. Non servì a nulla. I lavori erano terminati prima ancora che qualcuno potesse intervenire. Oggi il “Parco Canada” ricopre quell’area. 
A quel tempo tutti credevano ancora che ci sarebbe stata una forte pressione su Israele perché restituisse i territori che aveva conquistato. I villaggi di Latrun formavano una specie di protuberanza nella Linea Verde che dominava la strada principale tra Tel Aviv e Gerusalemme. Per questo motivo, qualcuno decise di creare un fatto compiuto che avrebbe rimosso le sollecitazioni a restituire questa zona. 
Quasi allo stesso tempo, mi venne riferito che l’esercito aveva cominciato a distruggere la città di Qalqilya. Dalle vicinanze di questa città, l’artiglieria giordana aveva cercato di bombardare Tel Aviv, a 25 chilometri di distanza. Mi affrettai a recarmi costì e vidi che un quartiere era già quasi demolito. Ancora una volta andai alla Knesset, al fine di indurre il Primo Ministro e gli altri ministri ad interferire. E infatti, le demolizioni vennero interrotte e le case già distrutte ricostruite. Non so esattamente che ruolo giocò il mio intervento al riguardo, ma da allora, ogni volta che passo da quelle parti provo una sensazione di soddisfazione. (Anche se Qalqilya è ormai isolata da quell’assurdo muro.)
                         
                                               Distruzioni a Qalqilya
 Poco dopo, arrivò nel mio ufficio un soldato in evidente stato di esaurimento nervoso. Mi raccontò che ogni notte i profughi cercavano di attraversare il Giordano per tornare nelle loro case, e l’ordine era di ucciderli sul posto, donne e bambini inclusi. Scrissi una lunga lettera al Capo di Stato Maggiore, Yitzhak Rabin e, in data 29 ottobre 1967, ricevetti una risposta dal suo capo ufficio, Shmuel Gat, che sosteneva che l’esercito aveva esaminato la questione e “tratto le conclusioni che si potevano trarre”. Per quanto mi consta, il massacro sistematico venne interrotto.
                              

                                                   Ritorno dei profughi
 (Qualche giorno fa ho incontrato di nuovo quel soldato: Suonava il flauto in strada). 
Il primo giorno di combattimenti, si trattava di una guerra difensiva. Dayan dichiarò che non avevamo intenzioni di conquista. Anche tutti gli israeliani la pensavano così. Un giorno dopo, la battaglia ebbe termine e la guerra diventò di conquista e di annessione. Del tutto intossicato dalle visioni bibliche, l’inondazione di “album della vittoria”, le nuove canzoni patriottiche e gli slogan messianici, il pubblico prese il sopravvento. Il governo di Eshkol, che dapprima aveva deciso ufficialmente di negoziare la restituzione dei Territori, lasciò perdere quando si rese conto che non ce n’era la necessità. 
Subito dopo, in un articolo raccontai una storia sul come catturare le scimmie. Si appende una bottiglia al ramo di un albero e vi si mette dentro un frutto. La scimmia mette la mano nella bottiglia, s’impadronisce del frutto e cerca di tirarlo fuori, ma il pugno che racchiude il frutto è troppo grande. Così viene catturata. Naturalmente, potrebbe ottenerlo in qualsiasi momento lasciando andare il frutto, ma, desiderandolo ardentemente, non è capace di farlo. Allo stesso modo, mantenendo la presa sui territori occupati, eravamo ostaggi della nostra stessa avidità. 
Dopo la guerra, il professor Yeshayahu (Isaia) Leibowitz, un ebreo ortodosso, previde che l’occupazione avrebbe corrotto noi e ci avrebbe trasformati in un popolo di “agenti dei servizi segreti e dirigenti di manodopera straniera”. (Lo chiamai “il terzo profeta Isaia”, il che lo fece andare fuori di sé. Disse che un profeta dà voce alle parole di Dio, mentre lui parlava il linguaggio della logica.) 
In retrospettiva, sembrava che l’intero scenario fosse il lavoro di un regista di talento – l’ansia, il crescendo della paura, la vittoria miracolosa. Questo aiuta a spiegare quello che ne è venuto dopo. 
Nella leggenda di Faust, Mefistofele ripaga l’anima del dotto medico con ogni immaginabile tipo di piacere. Qualcosa di simile successe a noi nel giugno 1967. La catena degli avvenimenti diretta da un ente superiore, una tentazione deliberatamente messaci davanti al fine di sottoporci alla prova. Quello che sembrava un dono di Dio, era in realtà una tentazione di Satana, un tentativo di comperare la nostra anima. 
Ha avuto successo? Israele ha perso la sua anima? 
Mi auguro di no. Spero che ora l’intossicazione stia finalmente svanendo. Molte cose dette e scritte questa settimana sembrano indicarlo. 
Quarant’anni dopo l’avvenimento, la questione è ancora aperta. 
(Parte di questo articolo è stato pubblicato su American-Jewish magazine Tikkun.) 
(tradotto da mariano mingarelli)


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