Speciale donne/ Iran. Storie dal braccio 209

 


Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne raccontiamo cinque storie di prigioniere di coscienza in Iran: Nasrin, Bahareh, Masha, Jila e Shiva. Detenute nel ‘braccio 209’ del carcere di Evin, a Teheran, per aver avuto il coraggio di raccontare le violazioni dei diritti umani nel loro paese. 



di Cecilia Dalla Negra* 


La chiamano “l’Università di Evin”, per il numero di insegnanti e intellettuali dissidenti che vi sono stati rinchiusi nel corso degli anni, per aver osato sfidare il regime in Iran.
È il carcere di Evin, a nord di Teheran, costruito nel 1972 ai piedi dei monti Alborz sotto il regno dello shah Mohamed Reza Palahvi.
Sulla carta doveva essere un centro di detenzione temporaneo per i prigionieri in attesa di giudizio, che sarebbero stati poi dislocati verso altre carceri.
Ma sin dalla rivoluzione del 1979 ha visto passare migliaia di detenuti politici, oppositori e prigionieri di coscienza tra le sue mura.
Diventando tristemente noto per la gestione blindata dell’intelligence iraniana: per le torture, le esecuzioni arbitrarie, i trattamenti inumani e gli abusi sessuali ai danni delle donne.
Perché ci sono anche loro nel ‘wing 209’, il braccio riservato a quelli che in Iran sono chiamati i  prigionieri di coscienza: persone arrestate per aver “attentato alla sicurezza nazionale”, spesso sulla base di accuse inconsistenti e attraverso processo sommari, condannate a scontare anni di detenzione per il loro attivismo nell’ambito dei diritti umani, della libertà di parola, di espressione.
O per aver agito in difesa dei diritti delle donne: come Nasrin, Bahareh, Masha e le altre. Che passeranno anche questa giornata – dedicata all’eliminazione delle forme di violenza contro il genere femminile – in una cella d’isolamento, lontane dalle famiglie e in condizioni di salute precarie, pagando a carissimo prezzo il coraggio che hanno avuto nello sfidare il regime, o una legislazione che in quanto donne le discriminava.
Il coraggio di denunciare abusi, violazioni, assenza di diritti, violenze. O quello di aver fatto il proprio mestiere, ma nel paese sbagliato: è il caso delle tante giornaliste e blogger che, come Shiva e Jila, hanno scritto, raccontato, intervistato.
Premiate in Europa e arrestate in patria, anche solo per aver pubblicato un articolo. 
Nella giornata contro la violenza sulle donne abbiamo scelto di raccontare cinque storie: di donne, coraggio e repressione.

Bahareh Hedayat era una studentessa universitaria a Teheran quando è stata arrestata per aver denunciato le violazioni dei diritti degli studenti in seguito alle elezioni presidenziali iraniane del 2009. Agli impegni di studio aveva scelto di affiancare la militanza femminista, prendendo parte alla campagna “Un milione di firme”, lanciata dell’agosto del 2006 da diverse organizzazioni femminili per chiedere al parlamento iraniano la riforma della legge che discrimina e penalizza le donne. Bahareh, figlia della generazione nata dopo la rivoluzione del ’79, ha rivendicato per se stessa e per il suo paese una libertà di espressione e un’uguaglianza che non le sono state concesse: accusata di “attentato alla sicurezza nazionale” e arrestata molte volte, nel dicembre 2009 è stata condannata a 9 anni e mezzo di reclusione. La sua condanna è una delle più dure mai inflitte a un’attivista per i diritti umani in Iran. Oggi ha 31 anni.

Jila Baniyaghoob è una giornalista. Negli ultimi anni è stata arrestata più volte per aver esercitato il diritto di stampa e di espressione attraverso il suo lavoro di freelance e redattrice-capo del giornale del Centro per i diritti delle Donne Kanoon Zanan Irani. L’ultimo arresto il 2 settembre del 2012, quando è stata condotta nel carcere di Evin per scontare una pena di un anno. Con lei è stato arrestato anche il marito Bahman Ahmadi Amoyee, anche lui giornalista. Nel 2009 l’International Women’s Media Foundation l’ha insignita del premio Courage in Journalism “per aver raccontato senza paura l’oppressione del governo nel suo paese, che l’ha particolarmente colpita in quanto donna”. Nel 2010 ha vinto il Freedom of Speech Award di Reporter senza frontiere. Una volta tornata in libertà, le sarà impedito esercitare la professione giornalistica per i prossimi 30 anni. Oggi ha 39 anni. 
Masha Amrabadi è una giornalista. Arrestata una prima volta nel 2009 per aver dato conto delle manifestazioni che animavano il paese all’indomani delle contestate elezioni presidenziali, è stata in seguito rilasciata. Nel maggio del 2012 è stata nuovamente condotta nel carcere di Evin e condannata a scontare un anno di reclusione per aver “diffuso propaganda contro il sistema attraverso le sue interviste e i suoi articoli”. E per aver cercato di difendere il marito Massoud Bastani, anche lui giornalista e prigioniero politico. Masha oggi ha 27 anni.
Shiva Nazar Ahari, attivista per i diritti umani, blogger e giornalista. Membro del Comitato dei giornalisti per i diritti umani, è stata condannata a scontare una pena di 4 anni per “propaganda anti-regime” e moharebeh, il reato di “guerra contro lo stato e contro dio”, tra i crimini più gravi secondo la legge islamica in vigore in Iran. Nel 2011 è stata insignitadel premio Theodor Haecher per aver “coraggiosamente coperto con le sue attività giornalistiche le violazioni dei diritti umani” nel suo paese. Shiva Nazar Ahari ha 28 anni.

Nasrin Sotoudeh, attivista per i diritti umani, avvocatessa, insignita nel 2012 del premio Sakharov insieme a Jafar Panahi, un riconoscimento assegnato dal Parlamento Europeo a personalità che hanno dedicato la loro vita alla difesa delle libertà individuali e dei diritti umani. Nel settembre di quest’anno è stata convocata nel carcere di Evin per “accertamenti”. Non ne è mai uscita. Condannata a scontare una pena di 6 anni per “propaganda anti-regime” e “attentato alla sicurezza nazionale”, oltre al divieto di esercitare la professione forense per i prossimi 10 anni. In seguito all’inasprimento delle condizioni di detenzione, e al divieto comminato alla figlia dodicenne di lasciare il paese, Nasrin Sotoudeh ha avviato uno sciopero della fame lungo 50 giorni, cui si sono unite altre nove detenute di Evin, tra cui Shiva Nazar Ahari e Bahareh Hedayat.

* si ringrazia Marta Ghezzi.
25 novembre 2012

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