A. B. Yehoshua "Perché serve un accordo con Hamas".


Durante la guerra di Indipendenza del 1948 la Giordania bombardò la zona ebraica di Gerusalemme per diversi mesi, pose la città sotto assedio e impedì i rifornimenti di acqua e carburante. Centinaia di civili rimasero uccisi sotto le bombe eppure Israele non definì i giordani «terroristi» e dopo il cessate il fuoco fu avviato un negoziato tra le parti al termine del quale fu firmato un armistizio.

Anche i siriani prima della guerra dei Sei Giorni bombardarono per anni la Galilea settentrionale uccidendo e ferendo molti civili. E un articolo della Costituzione del partito siriano Ba’ath prevede persino la distruzione di Israele. Eppure gli israeliani non hanno mai definito «terroristi» i siriani. Li hanno sempre chiamati «nemici» e negli anni hanno raggiunto vari accordi con loro, fra cui il disimpegno dei rispettivi eserciti dopo la guerra del Kippur.

Gli egiziani guidati da Abdul Nasser proclamarono più volte di volere distruggere Israele, ed era questa la loro intenzione alla vigilia della guerra dei Sei Giorni. Eppure il dittatore egiziano non fu visto come un terrorista ma come un nemico.

Di più. Neppure i nazisti furono definiti terroristi. Commisero indicibili atrocità indossando un’uniforme e sottostando agli ordini di un governo riconosciuto. Sono stati i nemici più brutali nella storia dell’umanità ma non erano terroristi.

È arrivato perciò il momento di smettere di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e di definirlo piuttosto un «nemico». L’uso inflazionato del termine «terrorista», tanto caro al nostro primo ministro, pregiudica infatti la possibilità di raggiungere un qualsiasi accordo a lungo termine con questo acerrimo nemico.
Di più. Neppure i nazisti furono definiti terroristi. Commisero indicibili atrocità indossando un’uniforme e sottostando agli ordini di un governo riconosciuto. Sono stati i nemici più brutali nella storia dell’umanità ma non erano terroristi.

È arrivato perciò il momento di smettere di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e di definirlo piuttosto un «nemico». L’uso inflazionato del termine «terrorista», tanto caro al nostro primo ministro, pregiudica infatti la possibilità di raggiungere un qualsiasi accordo a lungo termine con questo acerrimo nemico.

Oggigiorno Hamas è in controllo di un territorio, possiede un esercito, istituzioni governative, canali radiotelevisivi ed è riconosciuto da numerosi Paesi. Un’organizzazione responsabile di uno Stato dovrebbe essere definita «nemica», non «terroristica».

Ma perché è importante la terminologia? È solo una questione di semantica? Non esattamente. Con un nemico si può infatti instaurare un dialogo e concludere accordi anche parziali mentre tentare di dialogare con «un’organizzazione terroristica» non avrebbe senso e di certo non ci sarebbe nessuna speranza di accordo. Occorre pertanto legittimare il tentativo di stipulare un qualsivoglia accordo diretto con Hamas.

Non dobbiamo infatti dimenticare che i palestinesi saranno per sempre i nostri vicini e se non patteggeremo con loro una separazione ragionevole finiremo inevitabilmente per convivere in uno Stato binazionale, un’eventualità deleteria e pericolosa per entrambe le parti. Un accordo con Hamas è quindi importante non solo per normalizzare la situazione al confine con Gaza ma anche per creare la base di un eventuale Stato palestinese a fianco di quello israeliano.


Il regime di Hamas, eletto dopo l’evacuazione israeliana della Striscia di Gaza, mostra comunque preoccupanti segni di perdita del senso della realtà, di incapacità di comprendere ciò che è possibile e ciò che non è possibile. E le dure reazioni militari di Israele non solo non lo portano a rinsavire ma rafforzano il suo vittimismo aggressivo.

A cosa è dovuta la ferocia e la violenza di Hamas? Il fanatismo religioso è un fenomeno diffuso ma neppure un regime fanatico si esporrebbe alla reazione distruttiva di un esercito come quello israeliano, uno dei più forti al mondo.

Alla base del comportamento di Hamas c’è una contraddizione. Da un lato i suoi leader provano un giustificato senso di eroismo e di audacia per avere allontanato i coloni e l’esercito israeliano da Gaza, dall’altro avvertono una profonda frustrazione dovuta al duro isolamento imposto a una striscia di terra tanto stretta, distaccata non solo da Israele ma soprattutto dai palestinesi in Cisgiordania.

I leader di Hamas, incoraggiati dal successo del ritiro israeliano, ritengono di potere quindi cacciare i «sionisti» da tutti i «territori occupati», o per lo meno di costringerli a rimuovere il blocco. Non avendo fiducia nelle intenzioni di Israele, convinti che la separazione tra Gaza e la Cisgiordania serva gli interessi di quest’ultimo e consapevoli che lo Stato ebraico non tenterà più di riconquistare e di governare la Striscia di Gaza, anziché cercare di risollevare l’economia del territorio, di fermare la violenza, di costruire una vita normale e di convincere gli israeliani a consentire alla popolazione libertà di movimento scelgono la strada che si è dimostrata efficace in passato: una costante aggressione.

Ma nonostante il recente cessate il fuoco le due parti non hanno la sensazione che la spirale di violenza si sia conclusa. Il comportamento di Hamas denota un istinto suicida che, con l’incoraggiamento scellerato dell’Iran, potrebbe portare altra distruzione e morte. Occorre perciò fare uno sforzo per instaurare un vero e proprio dialogo con i suoi leader. E come «un’organizzazione terroristica» quale l’Olp si è trasformata nell’Autorità palestinese così Hamas dovrebbe essere considerata non «un’organizzazione terroristica» ma il rappresentante di un governo con il quale, mediante negoziati diretti, si possa giungere a un accordo basato su quattro principi:


1. L’accettazione da parte di Hamas di una rigorosa supervisione internazionale sullo smantellamento dei lanciarazzi nella Striscia di Gaza.

2. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e l’Egitto.

3. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e Israele per un transito controllato di lavoratori palestinesi.

4. L’apertura graduale di un corridoio sicuro tra Gaza e la Cisgiordania – in base alle norme stabilite a Oslo – perché venga ripristinata l’unità palestinese in vista di un negoziato con Israele.

L’Autorità palestinese non potrebbe infatti completare o concludere un accordo di pace con Israele senza la partecipazione attiva o passiva di Hamas. Una decisione su questioni nazionali di primaria importanza richiede un ampio consenso nazionale, come avviene in molti Paesi, tra i quali Israele.

Il dialogo con Hamas e un graduale ripristino delle sue relazioni con la Cisgiordania sono quindi condizioni essenziali per il raggiungimento di un accordo che preveda due Stati per i due popoli e che porti all’arresto di un’avanzata lenta ma costante verso uno Stato binazionale. È questo ciò che spera la maggioranza della popolazione israeliana.
*************
 STAMPA di oggi, 26/11/2012, a pag. 1-27

Da Arthur Neslen : che c'è di male a parlare con Hamas?

Commenti

Post popolari in questo blog

Hilo Glazer : Nelle Prealpi italiane, gli israeliani stanno creando una comunità di espatriati. Iniziative simili non sono così rare

giorno 79: Betlemme cancella le celebrazioni del Natale mentre Israele continua a bombardare Gaza

La Spoon River degli artisti di Gaza. Scrittori, poeti, pittori: almeno 10 vittime nei raid. Sotto le bombe muore anche la cultura palestinese

JOSEPH KRAUSS Nuove strade aprono la strada alla crescita massiccia degli insediamenti israeliani