Carlo Strenger: perché la destra resterà al potere in Israele






1  Sintesi personale






Il New York Times ha pubblicato un editoriale dove esprime la preoccupazione che Israele possa distanziarsi dai principi liberali democratici su cui si fonda. Naturalmente, ebrei gruppi di destra, sia in Israele che negli Stati Uniti, hanno fatto notare che il NYT è anti-Israele e ,conseguentemente, si può semplicemente ignorare quello che scrive .
Il problema è che non solo il NYT ha questa opinione . Diplomatici occidentali e opinion leader, molti dei quali sono veri amici di Israele, esprimono le stesse preoccupazioni e alcuni di loro lo fanno con grande dolore. Più volte hanno espresso il timore di far incontrare i politici israeliani con la classe politica dei loro rispettivi paesi per evitare un ulteriore peggioramento dell' l'immagine di Israele.Purtroppo posso solo essere d'accordo con loro. Nelle mie conversazioni con molti dei politici di Israele sono profondamente impressionato (e angosciato ) per la loro totale mancanza di comprensione e interesse del mondo in generale. Alcuni di loro vivono in un universo biblico ben lontano da una Realpolitik basata su valori democratici o liberali. Per altri ancora l'universo è definito dal partito che li sceglie per la prossima Knesset.La mentalità della classe politica sembra riflettere una tendenza generale in Israele. . La maggior parte degli israeliani oggi definiscono la loro identità in termini religiosi, etnici o nazionalistici, la loro adesione ai valori democratici liberali è spesso debole e, in molti casi, inesistente . Una spiegazione è data dal cambiamento demografico : la popolazione ultra-ortodossa o nazional-religiosa è in crescita a causa del tasso di natalità elevato e una gran parte di immigrati ,provenienti dall'ex Unione Sovietica ,non hanno una tradizione di democrazia liberale.Ma io non credo che solo questa sia la spiegazione . La psicologia esistenziale ha dimostrato in decine di paesi che le persone che devono affrontare una minaccia esistenziale tendono a spostarsi a destra politicamente, diventano meno tolleranti nei confronti di coloro che hanno opinioni religiose e politiche diverse
Israele è sempre stato sotto pressione, ma è gradualmente la situazione è degenerata dopo la seconda Intifada, la cui natura traumatica è sottovalutata da molti commentatori. la vittoria di Hamas , il lancio di razzi da Gaza, la seconda guerra in Libano hanno reso gli israeliani profondamente diffidenti nei confronti dei palestinesi in particolare e degli arabi in generale. La maggior parte degli Israeliani ha sviluppato un'allergia verso il termine "pace". Ritengono che Israele dovrà lottare per la sua esistenza per i prossimi decenni e solo la vigilanza , non la diplomazia e la flessibilità, ne permetterà la sopravvivenza
Come risultato gli israeliani non utilizzano il termine "primavera araba" , ma guardano con profonda paura e angoscia le sollevazioni delle piazze arabe. Essi non si fidano dei Fratelli Musulmani,sono profondamente preoccupati per l'orribile guerra civile in Siria e hanno paura che gli Hezbollah, ad un certo punto, possano decidere di lanciare razzi (circa cinquantamila ) contro di loro . Su tutto questo aleggia la possibilità del nucleare iraniano.Le pressioni psicologiche che spingono tutti gli esseri umani a destra continuano ad essere molto elevate in Israele e non se ne vede la fine . L'analisi spassionata porta ad una chiara conclusione: data l'instabilità del Medio Oriente, non ci sarà alcun governo di centro sinistra in Israele per il prossimo futuro. Israele manterrà la destra al potere. Io non conosco nessun analista politico che pensi che Netanyahu non sarà il prossimo primo ministro. Egli continuerà la sua politica a favore degli ultra-ortodossi e dei coloni nazional-religiosi, non solo perché pensa che siano i suoi partner a lungo termine, ma perché ritiene che uno Stato palestinese sia un pericolo esistenziale per Israele e si augura che, mantenendo lo status quo e l'espansione degli insediamenti, i palestinesi dovranno accontentarsi del poco disponibile .Netanyahu non si oppone alla democrazia liberale, ma è disposto a minarla pur di rimanere al potere. Ad alcuni dei suoi partner della coalizione importano poco i valori liberali e democratici e sono ben disposti a sacrificarli pur di annettere la Cisgiordania senza concedere ai palestinesi la cittadinanza, mentre altre addirittura vogliono che Israele diventi una teocrazia.
In queste condizioni la domanda è: cosa possiamo fare noi che ci preoccupano per la democrazia liberale, sia all'interno di Israele sia all'estero ? Penso che abbiamo bisogno di riorganizzarsi. C'è poca speranza di convincere gli israeliani a muoversi verso il compromesso storico con i palestinesi nel prossimo futuro. Tutto ciò che possiamo fare, per il momento, è quello di difendere le strutture della società civile e democratica emersa nei primi decenni della storia di Israele: i suoi magistrati, l' università, i mezzi di comunicazione indipendenti (nella misura in cui non sono portavoce dello Stato e finanziati da miliardari stranieri) e la sua linfa artistica.
La buona notizia è che fino ad oggi queste strutture hanno dimostrato notevoli capacità di recupero, anche di fronte all'assalto legislativo da parte della coalizione Netanyahu. Forse così gli israeliani potranno essere più aperti a una merce diventata molto rara: la speranza

ARTICOLO IN INGLESE
Why Israel’s Right will stay in power
There is little use in trying to convince Israelis to move towards historical compromise with the Palestinians in the near future: they will not buy it.

Over the last weekend the New York Times published an editorial entitled “Israel’s embattled democracy” that expresses concern that Israel may be distancing itself from the liberal democratic principles on which it was founded. Of course, Jewish right-wing groups, both in Israel and the US, will point out that the NYT is anti-Israel, and that therefore we can simply disregard what they say.

The problem is that the NYT is by far not alone. I regularly meet with Western diplomats and opinion leaders, many of who are genuine friends of Israel. Most of them express the same concerns as the NYT; some of them do so with great pain, because they genuinely love the country. Time and again I hear that they are trying to bring Israeli politicians to meet with their respective countries’ political class, but are afraid to do so, because they feel that Israel’s political representatives will only worsen Israel’s image. 
Unfortunately I can only agree with them. In my conversations with many of Israel’s politicians I am profoundly impressed (and distressed) by their total lack of understanding of the world at large and an equally total lack of interest in it. Some of them live in a universe that is much more defined by Biblical stories than by either Realpolitik or liberal democratic values. For others again the universe is defined by the party center that elects them to realistic spots for the next Knesset.
The political class’s mentality seems to reflect a general trend in Israel. The NYT editorial quotes experts who say that Israel’s demographic shift has led to the point where a majority of Israelis no longer trust the values and institutions of democracy. Akiva Eldar’s insightful article in the National Interest and recent polls by the Israel Democracy institute underscore this point powerfully. The majority of Israelis nowadays define their identities in religious, ethnic or nationalistic terms, and their adherence to liberal democratic values is often weak and, in many cases, non-existent.
How has this come about? Part of the explanation is indeed, as the NYT and Akiva Eldar point out, a function of demographic shifts. The proportion of the population that is ultra-orthodox or national-religious grows because of their high birthrates, and a large proportion of immigrants from the former Soviet Union have not been raised in a tradition of liberal democracy.
  But I do not believe that this is the whole story. Experimental existential psychology has shown in dozens of countries that people who are faced with existential threat tend to move to the right politically, become less tolerant and more judgmental towards those with other religious and political views.
Israel has always been under such pressure, but since the turn of the century things have taken a turn for the worse. The series of events began with the watershed of the second intifada whose traumatic nature is underestimated by many commentators. Then Hamas won the 2006 election in the Palestinian Authority, followed by the de facto partition of the PA, with Hamas ruling Gaza, not to mention the continuous shelling of southern Israel from the Strip. Add to this the Second Lebanon War, which effectively shut down the north for six weeks. This chain of events has made Israelis deeply distrustful of Palestinians in particular and Arabs in general.
The picture is glum: this century’s first decade has made a mockery of the promise of Israel’s left that peace was possible. In fact most Israelis have developed an allergy towards the term “peace.” They believe that Israel is placed in a really bad neighborhood; that it will have to fend for its existence for decades to come; that might and vigilance rather than diplomacy and flexibility will keep us all alive here.
As a result Israelis do not use the term “Arab Spring” at all. They look with deep fear and distress at the upheavals around the country. They do not trust the Muslim Brotherhood, which has taken charge in Egypt, they are profoundly worried about the horrible civil war in Syria and they are afraid that Hezbollah will, at some point, fire its huge arsenal (estimated to contain fifty thousand rockets) into Israel’s population. And beyond all this hovers the possibility of Iran going nuclear.
The psychological pressures that push all human beings to the right continue to be very high in Israel, and there is no end in sight. An increasing number of commentators believe that Syria is likely not to survive Assad’s fall as a nation state. The ensuing chaos is likely to further destabilize the region, and it will take a long time for the dust to settle and for a new order to emerge.
A cool, dispassionate analysis leads to a clear conclusion: given the Middle East’s instability, there will be no center-left government in Israel for the foreseeable future. Israelis will keep the right in power. I don’t know of any political analyst who thinks that Netanyahu will not be the next prime minister.
He will continue catering to the ultra-orthodox and the national-religious settlers, not only because he thinks they are his long-term partners. He also believes that a viable Palestinian state is an existential danger for Israel, and hopes that by maintaining the status quo and expanding the settlements, he will get them to the point of settling for less.
Netanyahu is not opposed to liberal democracy, but he is willing for it to take some hits to stay in power. Some of his coalition partners care little for liberal democratic values, and they are quite willing to sacrifice it for the sake of annexing the West Bank in the long run, because they will not give Palestinians citizenship, while others quite explicitly call for Israel to become a theocracy.
Under these conditions the question is: what can those of us who do care about liberal democracy, whether inside Israel or among Israel’s many friends abroad do?  I think we need to regroup. There is little use in trying to convince Israelis to move towards historical compromise with the Palestinians in the near future: they will not buy it.
All we can do, for the time being, is to defend the structures of civil society and the liberal-democratic institutions that emerged in the first decades of Israel’s history: its judiciary, academia, independent media (to the extent they are not mouthpieces of the government funded by foreign billionaires) and its art scene.
The good news is that so far these structures have proven remarkably resilient, even in the face of the legislative onslaught by the current Netanyahu coalition. If we hang on long enough for the region to gradually calm down (and this could take a long time), Israelis may once again be more open for a commodity that has been very scarce for more than a decade: hope.



                                              ALLEGATI















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