Non accusate la Siria – sono i leader libanesi ad essere responsabili degli scontri di Tripoli


26/05/2012
I leader politici libanesi hanno per lungo tempo ritenuto vantaggioso mantenere milizie ben armate a Tripoli perché combattessero per loro conto – scrive il giornalista Patrick Galey
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I combattimenti che hanno avuto luogo nella città settentrionale di Tripoli tra milizie sunnite e alawite sono tra i peggiori a cui il Libano ha assistito da diversi anni a questa parte. E, a testimonianza del loro passato condiviso e del loro intrecciato presente, ogni volta che si parla di sicurezza in Libano, la Siria non tarda a essere coinvolta nel discorso.
Nessuna sorpresa, quindi, che i combattimenti della scorsa settimana a Tripoli siano stati descritti come l’inevitabile frutto della violenza che ha diviso la Siria e che ora si sta riversando in Libano. Questa deduzione logica non è necessariamente sbagliata, data la tutela storica che la Siria ha esercitato sul Libano, e dato che i leader politici del Libano – e, per estensione, la sua gente – sono mortalmente divisi su Bashar al-Assad. Se si chiede agli stessi combattenti, rispondono che le loro azioni derivano dall’amore o dall’odio per il leader siriano.
Non c’è dubbio che l’effetto della sollevazione in Siria si faccia sentire in Libano. Dalle navi piene di armi sequestrate dalle autorità libanesi alle uccisioni transfrontaliere di cittadini, al fatto che la frontiera comune a nord è stata disseminata di mine, la natura dei rapporti siro-libanesi ha già portato a diverse violente ripercussioni all’interno del Libano. Ma con le complesse fratture confessionali, politiche e ideologiche del paese, incolpare la Siria per la morte di almeno nove persone ed il ferimento di oltre 100 a Tripoli, la settimana scorsa, vuol dire ignorare più di tre decenni di rancori nella seconda città del Libano, così come le condizioni che hanno permesso che tali rancori venissero fomentati.
I combattimenti di Tripoli si sono concentrati tra il distretto prevalentemente sunnita di Bab al-Tabbaneh e Jabal Mohsen, che ospita la stessa minoranza alawita a cui appartiene Assad. Questi due quartieri appartengono a quella che una volta era una città relativamente prospera, grazie agli introiti provenienti dal suo porto. Ma quando scoppiò la guerra civile nel 1975, Bab al-Tabbaneh e Jabal Mohsen furono divisi dal conflitto, a seguito di sconvolgimenti politici e fratture ideologiche tra il nazionalismo arabo, l’islamismo, il sindacalismo, la lotta palestinese, e – certamente – la Siria.
Mentre le battaglie per procura continuavano a infuriare, i leader del nord presto compresero il vantaggio di avere milizie ben armate per mantenere Tripoli come una zona di guerra non ufficiale nel corso dei decenni. Alla fine della guerra, la maggior parte delle milizie avrebbero dovuto consegnare le proprie armi. Poche lo hanno fatto, ma un numero ancora inferiore ha mantenuto le proprie armi schierate in prossimità di gruppi rivali come è avvenuto a Tripoli.
Le risultanti esplosioni di violenza sono state attentamente gestite da leader settari e hanno contribuito ad alimentare la vera ragione per cui Tripoli è un focolaio di ostilità. Perché al di là di tutta l’influenza della Siria in Libano, e al di là di un passato di manipolazione politica, la vera causa del violento presente di Tripoli risiede nello spaventoso disinteresse nei confronti della città. Le cifre parlano da sole. Quasi il 40% dei poveri di tutto il Libano vive a Tripoli e nelle aree circostanti. Più della metà degli abitanti di Tripoli sono classificati come “poveri” o “estremamente poveri”. Delle famiglie che vivono nei “punti caldi” di Bab al-Tabbaneh e di Jabal Mohsen, l’82% vive con meno dell’equivalente di 500 dollari al mese. Il tasso di analfabetismo e la disoccupazione in città sono molto al di sopra della media nazionale.
Se è vero che tutte le aree del Libano hanno sofferto negli ultimi decenni, mentre il paese tentava di risollevarsi dalla guerra civile e dai conflitti successivi, gli abitanti di Tripoli hanno vissuto difficoltà particolari. Rispetto ad esempio alla zona sud di Beirut e alle zone meridionali del paese, dove gli abitanti più colpiti dalla guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele hanno visto le loro case ricostruite ed un miglioramento delle infrastrutture, gli abitanti di Tripoli ricevono ben poco in termini di sostegno finanziario da soggetti statali o privati.
Questo non vuol dire che Tripoli sia stata dimenticata dai detentori del potere a Beirut. I partiti sono più che felici di armare i partigiani della zona e di incoraggiarli a “difendere” se stessi contro le sette rivali. Permettere che la miseria continui a distruggere la vita dei residenti è il modo migliore, a quanto pare, per garantire la fedeltà delle milizie. I leader si presentano come salvatori ai loro sostenitori (che gli credono) e fanno affluire armi ed odio nelle zone vulnerabili per fornire una parvenza di sicurezza ai gruppi poveri.
A loro volta, i residenti di Bab al-Tabbaneh e di Jabal Mohsen, grati per il senso di sicurezza che le armi date loro sono in grado di fornire, continuano ad avere ben poco altro da fare al di là di utilizzare tali armi. Essi combattono perché fanno affidamento sull’appoggio nominale di quei politici che pretendono di occuparsi dei loro interessi. Ogni gruppo di combattenti è impegnato a difendere i propri quartieri dagli altri laddove il loro dispiegamento è poco più di un espediente per mantenere il terreno conquistato in decenni di violenza.
La vicinanza dei quartieri rivali di Tripoli è spesso citata come una sorta di metafora del Libano e dei suoi rancori. Ma in realtà, Tripoli è quasi un “unicum” per il modo in cui i suoi cittadini continuano combattimenti iniziati per la prima volta negli anni ‘70. E sono il Libano e il suo negligente establishment politico, non la Siria, che li stanno alimentando.
Patrick Galey è un giornalista residente a Beirut che si occupa di questioni ambientali, sociali e di sicurezza in Libano
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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