Celebrare Israele nella sua interezza di Uri Zaki
30/04/2012
Original Version: Celebrate Israel In Its Entirety
Il giorno dell’indipendenza di Israele, che quest’anno è caduto il 26 aprile, serve a ricordare che Israele si fonda su due pilastri: la creazione di una patria nazionale ebraica, e la fondazione di un regime democratico; quando celebriamo Israele non dobbiamo trascurare la democrazia e coloro che rafforzano il fondamento su cui essa poggia – scrive l’attivista Uri Zaki
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Per me, come per la maggior parte degli israeliani, le due settimane tra la fine della Pasqua e Yom Haatzma’ut, il giorno dell’Indipendenza di Israele, sono un periodo dell’anno in cui grandi concetti si materializzano nella vita quotidiana – la nostra nascita come popolo nell’Esodo, il ricordo degli orrori dell’Olocausto in Yom HaShoah, il ricordo, in Yom Hazikaron (il giorno della Memoria), dei caduti, fino alla celebrazione della fondazione dello Stato di Israele.
La Dichiarazione d’Indipendenza di Israele comprende due pilastri su cui Israele si regge – la creazione di una patria nazionale ebraica, in un regime democratico. In realtà, questo speciale periodo dell’anno può provocare un’attenzione ristretta sul primo pilastro. Ma altrettanto significativo è l’altro pilastro – le basi democratiche di Israele.
Perché una democrazia possa veramente prosperare, alcune condizioni devono essere soddisfatte: la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di riunione – le basi dei diritti civili. Se in primo luogo non riconosciamo che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, come afferma la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la questione delle libertà civili diviene inutile.
Perciò, coloro che sostengono i diritti umani ovunque nel mondo devono essere visti come alleati della democrazia ovunque nel mondo – e Israele, dove una situazione unica di 45 anni di controllo militare su una vasta popolazione civile crea ogni giorno sfide per i diritti umani, non dovrebbe essere un’eccezione.
Vi sono coloro che, in Israele – e anche qui negli Stati Uniti – mirano a mettere a tacere le voci dei difensori israeliani dei diritti umani. In qualche modo, l’idea è che sia meglio avere meno informazione, che non sapere ciò che accade in Cisgiordania e Gaza serva i migliori interessi di Israele. Ma è vero il contrario.
La democrazia non può funzionare in assenza di informazioni – la libertà di parola è priva di significato se non abbiamo i fatti su cui basare i nostri discorsi.
Coloro che documentano ed educano l’opinione pubblica israeliana a proposito delle violazioni dei diritti umani forniscono in tal modo un servizio patriottico. Come israeliani, abbiamo ragione di essere preoccupati anche per le violazioni commesse dai palestinesi, ma sicuramente il nostro dovere primario deve essere quello di determinare fino a che punto noi stessi siamo responsabili di violazioni dei diritti umani.
Il problema è che è sempre doloroso ricevere informazioni negative sul paese che amiamo. Ma quando rimaniamo sordi anche alle critiche fondate, stiamo negando il dibattito democratico che è il fondamento sia della società israeliana che di quella americana.
In realtà, la stessa terminologia con cui discutiamo del conflitto è ancora ferocemente contestata. Perfino il primo ministro Ariel Sharon fu contestato, dai suoi stessi compagni del Likud, quando definì la presenza di Israele in Cisgiordania come una “occupazione”, e “una cosa terribile per Israele e per i palestinesi”.
Negare la natura dell’occupazione non cambia la realtà sul terreno, nella quale 2,5 milioni di palestinesi in Cisgiordania vivono sotto il controllo militare israeliano. Oltre a ciò, lo sfruttamento della terra e delle risorse idriche, l’estesa presenza militare, la rete di strade per soli coloni, e la barriera di separazione, costruita con ben poco riguardo per le proprietà dei palestinesi, significano che ogni giorno gli insediamenti – che sono essi stessi una violazione della diritto internazionale – portano nuove violazioni dei diritti umani.
Senza il lavoro delle organizzazioni dei diritti umani, molti di questi fatti scomparirebbero del tutto dalla scena pubblica. Questo non significa che il problema scompare, naturalmente. Piuttosto continua ad acuirsi, senza alcun controllo da parte dell’opinione pubblica. Solitamente, le organizzazioni dei diritti umani rivelano le storie umane che si nascondono dietro numeri senza volto. Quando il governo israeliano dice che ha eretto una barriera di sicurezza di centinaia di chilometri di lunghezza, cosa significa in realtà per le persone che vivono dall’altra parte di questa barriera? In che modo centinaia di posti di blocco condizionano la vita delle persone reali?
Le sfide alla sicurezza di Israele sono reali. Tutti gli israeliani, me compreso, hanno dolorose esperienze della guerra e del terrorismo. Eppure a volte le politiche del nostro governo sfruttano le nostre legittime preoccupazioni di sicurezza per promuovere obiettivi che non hanno alcun legame con esse, come l’espansione degli insediamenti. E’ qui che l’informazione si rivela cruciale – per consentire a cittadini informati di porre le domande giuste e prendere decisioni a ragion veduta in merito alle politiche del governo.
La democrazia non è facile. Essa richiede un attivo impegno per funzionare correttamente, in modo che i diritti civili siano protetti e il processo politico possa fare progressi nell’interesse di tutti.
Ma questo impegno e questi diritti si trovano su un terreno molto instabile se ci troviamo in un ambiente in cui le informazioni e la tutela dei diritti umani sono questioni di secondaria importanza. Quando celebriamo Israele non dobbiamo trascurare la sua democrazia e coloro che rafforzano il fondamento su cui essa poggia.
Uri Zaki è direttore della sezione americana di B’Tselem, una ONG israeliana che si occupa della violazione dei diritti umani nei Territori occupati
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)
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