Tzahal: silenzi e voci critiche Intervista a Breaking The Silence


Giugno 2004, Tel Aviv, una brigata in congedo inaugura una mostra di foto ed oggetti 1 provenienti da Hebron. Era l’inizio di Breaking the Silence (BTS). Intervistiamo Yehuda Shaul, co-fondatore dell’ONG. BTS sono 800 soldati che hanno compiuto il servizio militare durante o dopo la Seconda Intifada, che effettuano interviste a commilitoni che verificano e pubblicano (100 all’anno) ed attività educative - tour e conferenze, 400 all’anno - il 40% sono dirette a ragazzi/e, nell’anno precedente alla leva.

Chi è Yehuda Shaul?
Sono un ebreo religioso ortodosso, ma quando ero comandante militare a Hebron non mi mettevo la kippá: non volevo che i miei soldati associassero il mio D-o con quello dei coloni. Il mio D-o non lascia Magen David sulle porte di negozi che ha obbligato a chiudere, il mio D-o non sigilla, non rende ‘sterili’ le strade impedendo ai palestinesi di passare e aprire i negozi.
BTS è stata criticata perché protegge l’anonimato delle fonti. Secondo lei, l’accusa è giustificata?
Se i mezzi di comunicazione israeliani facessero il loro mestiere non ci sarebbe bisogno di BTS: purtroppo questo non avviene. Noi giornalisti abbiamo il diritto di tutelare l’anonimato delle fonti. Un terzo di quelli che intervistiamo sono ancora in servizio quando decidono di parlarci, violando le norme militari. Ogni militare, uomo o donna, che ci racconta dei suoi atti durante il servizio militare, deve fare fronte a gravi implicazioni sociali e legali. Abbiamo un progetto in cui i testimoni raccontano le loro esperienze direttamente ed a volto scoperto: http://www.breakingthesilence.org.il/testimonies/videos. Più di 50 soldati hanno già rivelato la loro identità. Portiamo avanti questo lavoro per ridurre al minimo le scappatoie sociali che permettono di non rendersi conto di ciò che davvero avviene nei Territori Occupati.
Cos’è davvero l’occupazione?
In realtà, non si occupa la terra: si occupano le persone. Si mantiene un’intera nazione sotto controllo militare. Questo è indiscutibile. I palestinesi nei Territori Occupati non hanno diritti. Sono spogliati in milioni della loro dignità; un sergente di 19 anni può decidere della loro vita.
“Tzahal 2 utilizza tattiche di autodifesa, gli eccessi sono saltuari”. È d’accordo?
Il problema non è l’esercito ma il compito politico assegnato ai soldati. Non credo che si possano mandare i militari a controllare una nazione per più di quarant’anni pensando che tutto fili liscio. Se da militare sei mandato in una situazione in cui c’è qualcuno che ha dei diritti e qualcuno che non ne ha, non puoi fare il tuo lavoro diversamente. Nessuno dei soldati che ha prestato servizio nei Territori Occupati ha le mani pulite.
Perché svolgete a Hebron gran parte del lavoro per sensibilizzare la società israeliana?
Hebron è l’unico centro palestinese, oltre a Gerusalemme Est, in cui le colonie sono nel centro della città: è una situazione unica. Hebron è un modello dell’occupazione in miniatura; l’hanno trasformata in una città fantasma. Questo tramite tre classiche politiche israeliane. La prima consiste nello ‘sterilizzare’, vale a dire proibire la presenza palestinese; la seconda nelle tattiche militari denominate ‘far sentire la presenza (dell’esercito)’, e cioè intimidire la popolazione, imporre il coprifuoco, etc.; la terza nella connivenza con gli atti violenti dei coloni. Come ben spiega B’Tselem, il risultato è che nel centro città il 42% degli abitanti - 1.014 famiglie 3 - è stato costretto ad andare via. I difensori dello statu quo sostengono che Hebron è un caso estremo. Per noi è un microcosmo di due chilometri quadrati: se cammini per mezza giornata, puoi capire come funziona l’occupazione nel resto della Cisgiordania. Hebron è quindi un punto interrogativo per l’ebraismo del 2011: avere dei legami storici, religiosi e/o nazionali con una terra ti dà il diritto di far questo? Occorre chiedersi se le azioni israeliane si possono percepire come minimamente ebraiche, o no.
C’è un collegamento tra l’ideologia e la pratica della colonizzazione dei Territori Occupati e i protocolli di azione dell’esercito?
Per Bibi [Netanyahu ndr], Lieberman ed i loro sostenitori, il diritto di Israele ad esistere è il diritto ad occupare. Per me è un attacco colossale alla civiltà di Israele: per i nostri governanti, l’unico modo di garantire l’autodeterminazione israeliana è assicurare che i palestinesi non vi accedano. Secondo loro, perché gli ebrei ottengano diritti occorre assicurarsi che chi non è ebreo non ne abbia. Credo che sia un concetto profondamente antisionista. Un’idea sionista potrebbe essere: ‘Siamo stufi che altri ci governino e ci amministrino: vogliamo governarci da noi e plasmare il nostro destino’. A mio avviso rivela passività sostenere: ‘Non ci sono alternative, siamo condannati a vivere così’. Per loro, l’unico modo di vivere qui è assicurarsi che nessun altro possa avere la nostra libertà.
Cosa ha significato Piombo Fuso per l’ethos di Tzahal? Alcuni hanno sostenuto che i rabbini dell’esercito avevano avuto un ruolo nel preparare psicologicamente i soldati. Cosa emerge dalle testimonianze a BTS?
Già solo il permettere che determinato materiale circolasse con il logo, il timbro e la firma del comando è importante. I documenti trovati nella sede del rabbinato militare durante Piombo Fuso segnalano quale fosse l’atmosfera permessa dal comando. Nei volantini distribuiti ai soldati prima dell’operazione si comparavano i palestinesi con i filistei, con moltissimi commenti estremamente razzisti. Si incitava a rimuovere i limiti della vecchia scuola, a ‘togliersi i guanti’. A Gaza abbiamo oltrepassato tutte le linee rosse della prassi militare israeliana fin dal 2002. Ho finito il servizio militare nel 2004 ed ho ascoltato un buon numero di storie orribili di comportamenti di soldati, ma ai primi due che si sono presentati a parlarci dopo Piombo Fuso non riuscivo a credere. Parlavano di un esercito che non conoscevo.
Dopo aver ascoltato 50 militari che non si conoscono, ma che raccontano la stessa storia - 50 persone, di diverse unità, con gradi differenti, intervenuti in diversi momenti dell’operazione, in zone differenti - allora cominci a crederci: protocolli di azione estremamente permissivi, tattiche usate in presenza di popolazione civile, demolizioni di proprietà private senza ragioni operative, tipo di armamento, uso di fosforo bianco, bombardamenti di artiglieria in aree urbane...
BTS è considerata un nemico della società israeliana?
Se non ti piaci, non hai voglia di guardarti allo specchio. BTS offe alla società la possibilità di specchiarsi. Capiamo perché c’è chi si infuria: tocchiamo un argomento estremamente sensibile, dato che l’esercito ha un ruolo importante nella società. La gente ha il diritto di sostenere che per loro devi smettere di dire brutte cose su di loro e sull’esercito. È molto diverso se è il governo a determinare cosa puoi dire e cosa devi tacere.
Esiste un rapporto tra il lavoro di BTS e il fatto che siano presentate proposte di legge 4 per rendere più stretti i controlli e limitare le attività delle ONG?
Probabilmente sì. Ma questo non fa che dimostrare come i nostri parlamentari concepiscono la democrazia. In Israele potevi esprimere le idee più radicali e, fino a tre o quattro anni fa, nessuno ti avrebbe imbrattato la porta di casa con lo spray. Rabin, primo ministro, è stato assassinato, ma non ne era stato responsabile il potere esecutivo. Questo governo, invece, si adopera per distruggere la nostra organizzazione.
Il lavoro di BTS può alimentare reazioni antisemite?
La migliore campagna pubblicitaria per l’antisemitismo è l’occupazione. Non c’è bisogno di BTS per diventare antisemiti. Battendoci contro l’occupazione combattiamo l’antisemitismo; è importante farlo come israeliani. Non è che se non ci fosse l’occupazione non ci sarebbe più antisemitismo, ma la macchina rimarrebbe senza il carburante principale.
La presenza militare israeliana in Cisgiordania c’entra con la ‘sicurezza’?
La questione è un’altra: cosa siamo autorizzati a fare in nome della sicurezza? Sei autorizzato o no a mantenere un’occupazione prolungata su un altro popolo? Viviamo in una cultura per la quale Israele non è in Medio Oriente ma in Europa. Che ritiene che i nostri vicini non sono la Siria o l’Egitto bensì l’Italia o la Francia, che non c’è alcuna necessità di integrarsi, né di essere parte di questa regione. Si tratta di capire, invece, che ci troviamo in Medio Oriente.
Ci sono alternative per proteggere i civili israeliani?
Quando pattugliavo il confine con il Libano, il mio obiettivo era chiaro: proteggere e difendere il confine. Quando pattugliavo Hebron avevo una missione chiara: proteggere e difendere gli abitanti ebrei dell’area. Si percepisce la differenza? Se vuoi discutere di sicurezza devi allontanare mezzo milione di coloni dalla Cisgiordania. I nostri parenti più anziani sono venuti qui come rifugiati. Con questo non voglio assolutamente negare che nel ‘48 Israele abbia commesso azioni orribili. Ma il contesto era quello di una nazione di profughi che lottava per un posto in cui vivere. Al contrario, dal ‘67 ad oggi, Israele insiste nel continuare ad essere un’entità coloniale. Da fuori si tende a guardare alla situazione come a un gioco a somma zero tra israeliani e palestinesi, tra pro- e anti-: o stai da una parte o stai dall’altra. Il modo giusto di pensare al conflitto è un altro: sostenere occupazione e violenza od opporvisi.
BTS si rivolge al pubblico anche fuori da Israele. Qual è il vostro messaggio?
Che come ex soldati, come israeliani e come ebrei abbiamo la responsabilità di comunicare quel che avviene nei Territori Occupati: abbiamo responsabilità civili ed etiche per ciò che si compie in nostro nome. Le comunità ebraiche all’estero hanno da assumere un ruolo positivo ed una responsabilità precisa: denunciare l’occupazione.
Intervista a cura di
Spartaco Bellici

ALLEGATI





LUNEDÌ 9 APRILE 2007  Rompere il silenzio: militari israeliani a Hebron

1Alberto Stabile
La Repubblica - il Venerdì, 18 giugno 2004
«Avevo un amico al quale piaceva sparare gas lacrimogeni inIsraele contro i palestinsi . Senza alcun motivo, quando vedeva un gruppo di ragazzi che stavano sulla strada a chiacchierare, gli sparava contro un candelotto. Gli piaceva vederli scappare e tossire e piangere... Ma io non voglio che tu scappi via davanti a quello che ho fatto». La voce che racconta è quella di un giovane soldato della Brigata Nahal, una delle unità storiche dell'esercito israeliano, che fino a pochi mesi fa prestava il suo servizio militare ad Hebron, la città dei Patriarchi cara alle tre religioni monoteiste, diventata negli anni il simbolo di un conflitto apparentemente irredimibile tra palestinesi e israeliani, alm
eno fino a quando perdurerà l'occupazione
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SITO israeliano E VIDEO QUI
io, soldato IDF ad Hebron  Avihai ha 27 anni e vive a Gerusalemme. È ebreo e cittadino israeliano. Nel 2001 è reclutato nell’esercito del suo Paese, il famoso e temuto Idf (Israeli Defence Force). È il secondo anno della Seconda Intifada e Avihai viene mandato in una delle unità di stanza a South Hebron Hills, nel cuore dei Territori Palestinesi Occupati.Avihai racconta le sue giornate da giovane soldato di stanza ad Hebron: “Nei primi sette mesi di formazione, ci hanno insegnato come sparare, come disperdere la folla, come perquisire una casa. Ma una volta arrivati ad Hebron, capisci di non sapere nemmeno da dove cominciare. E allora, ricevendo pochissimi ordini dall’alto, ti adegui al comportamento dei tuoi commilitoni. Venivamo lasciati per ore e giorni senza fare nulla e allora per combattere la noia prendevamo d’assalto un villaggio. Lanciavamo pietre e piccole granate, devastavamo le case, arrestavamo gli uomini per la strada. Come in un videogame”.

Oppure si divertiva con i compagni a picchiare i fermati: “Una volta abbiamo arrestato un uomo, Fatrinaja, responsabile di aver ucciso alcuni coloni. Lo abbiamo preso a pugni e a calci. Io mi dicevo: è giusto punirlo, ha ammazzato la tua gente. Ma in realtà lo facevamo con tutti. Picchiavamo a sangue e tenevamo chiusi per giorni bambini colpevoli di aver tirato un sasso. A volte arrestavamo persone senza neppure sapere il perché, solo per indebolire la resistenza dei villaggi”.

Il clima di violenza e machismo che si respira a vent’anni nell’esercito ha condotto molti ex soldati a togliersi la vita: il suicidio è la prima causa di morte tra ex militari dell’Idf, uccide più del conflitto israelo-palestinese.

Per Avihai l’angoscia è la stessa. L’orrore delle urla degli uomini palestinesi che picchia nelle caserme e il dolore delle donne a cui devasta la casa gli entrano dentro. Non riesce più a ricacciarli indietro. Finché tre anni fa trova uno strumento di liberazione e espiazione: Breaking The Silence. L’associazione, creata nel 2004 da ex soldati israeliani, è oggi una delle organizzazioni per i diritti umani più nota nel Paese. Negli anni ha raccolto le testimonianze di oltre 700 giovani combattenti, reclutati poco più che ventenni e lanciati in prima linea.

Il bagaglio di violenza che hanno visto e che hanno commesso ha finito per fargli aprire gli occhi sull’occupazione della Cisgiordania e l’assedio di Gaza. E hanno cambiato il loro obiettivo: raccontare all’opinione pubblica israeliana le violenze quotidiane dei coloni e dell’esercito contro il popolo palestinese. “Il nostro primo obiettivo – racconta Avihai all’Alternative Information Center – è stato quello di portare Hebron a Tel Aviv, di far conoscere al cuore del nostro Paese che cos’è la Cisgiordania. Ora l’obiettivo è portare Tel Aviv a Hebron”.

Come? Attraverso visite guidate dagli stessi ex soldati. I tour del Sud della Cisgiordania sono rivolti soprattutto a scuole, gruppi di giovani e studenti prossimi ad entrare nell’esercito: “Prima di indossare la divisa non avevo lontanamente idea di cosa ci fosse al di là del confine con la Palestina – continua Avihai –. Per questo so che molti dei miei concittadini si formano idee e opinioni sull’ignoranza. Li portiamo a South Hebron Hills per mostrargli l’apartheid che abbiamo creato, la sofferenza di cui siamo responsabili”. 

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