“Noi palestinesi insegniamo la vita, signori”: una poesia 'dedicata' ai giornalisti

Angela Zurzolo
 Gaza viene bombardata. Ogni parola, un morto. Ma Rafeef Ziadah, portavoce della coalizione, è costretta a migliorare il suo inglese e a combattere la stanchezza affinché il giorno dopo la sua “p” non si trasformi in “b” e i “Palestinesi” non diventino “Balestinesi” di fronte ai media internazionali.
Sorridere. Adattare i suoni alle immagini, contare le parole, rientrare nei tempi televisivi, tagliare i discorsi, ripetere la risoluzione delle Nazioni Unite.
Le bombe su Gaza non sono zeri e virgole su un pezzo di carta ma non c'è altro da fare. Ci si deve adattare al mezzo, se si vuole comunicare un'ingiustizia al mondo.
Ricordare di fare le pause, non pronunciare la parola "occupazione" o "apartheid", e assecondare le censure, arrivare ad un compromesso con i giornalisti, misurarsi con l'impossibilità di spiegare veramente cosa significhi subire il bombardamento. Per poi sentirsi dire con sufficienza da una giornalista: “Signora Ziadah, non crede che tutto si risolverebbe più facilmente se smetteste di insegnare ai vostri figli ad odiare?”.
“Noi insegniamo la vita, signori”, la risposta è nella poesia dell'attivista Rafeef Ziadah, che ricorda quel giorno e rivive, interpretandola di fronte ad una telecamera a Londra, la rabbia per l'ottusità dei suoi interlocutori e per il massacro televisivo subito.
“Ho cercato dentro di me la forza per essere paziente ma la pazienza non riusciva a stare sulla punta della mia lingua, mentre le bombe cadevano sopra Gaza. La pazienza mi aveva appena abbandonata”, racconta.
“Noi insegniamo la vita, signori. Rafeef, ricorda di sorridere. Pausa. Noi insegniamo la vita, signori. Noi palestinesi insegniamo la vita”, la realtà incomunicabile è tutta in una frase. La lezione dei palestinesi è sotto gli occhi di tutti ma qualcuno continua a non voler recepire.
“Dopo che hanno occupato anche l'ultimo cielo, noi insegniamo la vita. Dopo che hanno costruito i loro insediamenti e il loro muro dell'apartheid, dopo che hanno occupato l'ultimo cielo, noi insegniamo la vita, signori”.
Nessuno però vuole realtà scomode. “Dacci solo una storia, una storia umana, questa non è politica. Vogliamo solo raccontare alla gente di te e della tua gente. Così, dacci una storia umana. Non menzionare le parole 'apartheid' o 'occupazione'. Devi aiutarmi, come giornalista ad aiutarti a raccontare la tua storia che non è politica”, le imbarazzanti quanto frequenti richieste dei media internazionali che vogliono spostare l'ago della bilancia da una condanna aperta e ferma alla politica ad una più generica quanto innocua storia di comune 'pietà'.
Rafeef non ci sta. Come far rientrare in 1200 parole tutti i morti? Come raccontare di una donna che ha bisogno di essere curata a Gaza, le cui ossa rotte non sono bastate a coprire il corpo del figlio?
“Oggi il mio corpo è un massacro televisivo fatto per stare sulle immagini e sui suoni e dietro alle limitazioni della parola per smuovere qualcosa in coloro che rimangono insensibili al sangue dei terroristi”, recita la donna.
L'ipocrisia esasperante, la mediocrità: nessuno condanna apertamente. Nessuno parla di occupazione. Ma tutti sono 'dispiaciuti' per l'assedio a Gaza.
“Non sono due parti uguali, occupante e occupato, e cento morti, e duecento morti e un milione di morti e tra crimine di guerra e massacro, io avevo parole e sorrisi non 'esotici', un sorriso non terrorista. E io ho contato, ho ricontato, cento morti, duecento morti, un milione di morti. C'è nessuno là fuori? C'è nessuno che voglia ascoltare?”.
Distratti per colpa, per inadempienza o per ottusità, i giornali internazionali sono lo specchio di una società mediocre, lontana dalle persone e dai fatti.
“Desideravo solo andare in ogni campo di rifugiati da ogni bambino e coprire le loro orecchie. Non devono ascoltare il suono dei bombardamenti per il resto della loro vita come me”, recita esasperata.
Poi, la verità che è concesso dire solamente all'arte: “Lasciatemi dire che la vostra risoluzione delle Nazioni Unite non ha fatto niente per questo”.
“Nessun video, nessuna immagine, nessun video, li riporterà in vita. Nessun video imprimerà questo: noi insegniamo la vita, gente. Noi insegniamo la vita, signori. Noi palestinesi ci svegliamo ogni mattina per insegnare al resto del mondo la vita, signori”.
26 gennaio 2012

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