Israele :L'arma dell'archeologia: Intervista a Mahmoud Hawari

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L'ARMA DELL'ARCHEOLOGIA: Intervista a Mahmoud Hawari
realizzata da Barbara Bertoncin e Enrica Casanova

Anche tra i giovani archeologi israeliani iniziano a sorgere perplessità su un’archeologia che parte dalla narrazione biblica per trovare conferme sul campo; le critiche della Scuola di Copenhagen e il mito di Masada; la speranza che anche i palestinesi si appassionino al loro patrimonio. Intervista a Mahmoud Hawari. 
                                                  

Che cosa significa essere un archeologo in Palestina e che ruolo gioca l’archeologia nell’identità palestinese?
Beh, prima di tutto sono un archeologo, potrei essere un archeologo ovunque nel mondo, in Italia, in Turchia, in Egitto, in Iraq o in Africa. Voglio dire che non mi sono appassionato all’archeologia per ragioni politiche. Fin da quando ero un giovane studente, mi sono sempre interessate le antichità, le vecchie monete, i frammenti di vasi... All’epoca non pensavo nemmeno all’identità o alla politica, all’appartenenza alla terra, al patrimonio culturale o altro. Ero semplicemente interessato all’archeologia, punto. La situazione si è complicata quando mi sono iscritto all’università.Essendo un israeliano-palestinese (sono nato nel 1948 in Israele) ho infatti frequentato un’università ebraica. 
Ecco, per un palestinese studiare archeologia in un’università ebraica rappresenta decisamente una sfida, perché bisogna continuamente scendere a patti con la propaganda sionista. Per esempio, il periodo romano diventa "l’archeologia del popolo ebraico nel periodo romano”, e così per gli altri periodi storici: tutto è concentrato e focalizzato sulla presenza ebraica nell’archeologia. Ecco, questo era molto disturbante. Tanto più che l’archeologia veniva costantemente mescolata con la politica e l’ideologia.Insomma era impossibile studiare l’archeologia come una semplice materia, senza che altre istanze venissero coinvolte.Comunque, ho concluso il mio primo corso di studi e ho conseguito la laurea in archeologia. Avevo anche cominciato il master all’università ebraica, ma ho ben presto realizzato che sarei dovuto andare altrove, soprattutto perché volevo specializzarmi in archeologia islamica.
Così mi sono trasferito a Londra, dove ho ottenuto il master e poi il dottorato.Per venire alla domanda, posso dire, in base all’esperienza che ho vissuto, che essere archeologo, per una persona con il mio retroterra, vuol dire essere costretti a misurarsi con tutta una serie di tematiche, come il rapporto tra l’archeologia e la politica, tra l’archeologia e l’identità, tra l’archeologia e il patrimonio culturale. 
Un archeologo palestinese non può prescindere da questi temi. Se fossi vissuto in altri posti, come in Italia per esempio, dove pure vi sono alcuni aspetti di intreccio tra politica e archeologia, sarebbe stato diverso.

Dicevi che l’archeologia in Israele è diversa dall’archeologia in Palestina. Puoi spiegare?
In effetti siamo di fronte a una doppia realtà. Abbiamo la realtà israeliana, dove gli archeologi operano all’interno della loro realtà politica, geo-politica e ideologica. Mi spiego, lo Stato di Israele è il risultato del movimento sionista: un popolo che cercava un’identità, una terra nazionale, attraverso il processo della colonizzazione ha conquistato -e talvolta comprato- un territorio e, grazie anche alle forze internazionali, ne ha preso il controllo.
In questo scenario l’archeologia ha giocato un ruolo preciso che è differente da quello di molti altri posti nel mondo, forse simile ad altri contesti coloniali. Comunque la sua funzione è diventata quella di fornire radici al popolo ebraico.
L’archeologia è stata, cioè, chiamata a rinforzare le connessioni tra il moderno Stato e l’Israele antico che esiste nelle Scritture.
Era questo il suo ruolo principale. Per ottenere questo obiettivo si è concentrata sui siti menzionati nella narrazione biblica, per poter fornire quei simboli nazionali e per creare una nuova narrazione che legasse gli israeliani di oggi all’antico popolo biblico. Questa si è rivelata, col tempo, un’operazione problematica. A segnalare l’esistenza di incongruenze non siamo stati solo noi archeologi palestinesi. Oggi ci sono anche archeologi israeliani, soprattutto giovani, che riscontrano problemi. E vi sono anche un certo numero di studiosi europei e internazionali, storici della Bibbia, teologi, storici e anche archeologi, che denunciano molti problemi in questa disciplina che si chiama "archeologia biblica”. I primi sono stati un gruppo di teologi, la cosiddetta "Scuola di Copenhagen”.

Che tipo di critiche venivano avanzate dalla Scuola di Copenhagen?
Questi intellettuali facevano parte di una scuola di pensiero che cominciò a criticare l’uso della narrazione biblica come fonte storica. Tra questi, ci sono studiosi come Lemche, Thompson e Keith Whitelam, che è un archeologo britannico. La conclusione delle loro ricerche e riflessioni è che la Bibbia non è mai stata una fonte storica e che non dovrebbe venire usata come tale dall’archeologia. Potrebbe essere usata per inquadrare l’atmosfera di un periodo, ma non certo come fonte storica.
Quando dico "archeologi biblici”, non parlo solo di archeologi israeliani, ma mi riferisco anche a tutti quegli archeologi europei e americani che effettivamente hanno adottato la nozione di archeologia biblica.
Come dicevo, anche tra gli archeologi israeliani si è cominciato a criticare l’archeologia biblica e ad adottare alcune delle idee di questi teologi della Scuola di Copenhagen.

Perché Israele aveva bisogno dell’archeologia biblica?
Era l’unico modo per giustificare il proprio progetto di insediamento coloniale in Palestina. Sin dall’inizio, nel tardo XIX secolo, lo scopo del movimento sionista era di permettere agli ebrei di tornare in Palestina e costruire il loro Stato nazionale e per fare questo erano necessarie delle giustificazioni storiche. Ebbene, l’archeologia ha giocato esattamente questo ruolo: ha fornito giustificazioni per il progetto sionista.
Ormai, per tanti studiosi di tutto il mondo, l’archeologia biblica è considerata parziale e poco oggettiva, perché in archeologia noi esploriamo, facciamo ricerche, lavoriamo sul campo e poi analizziamo i risultati traendone le conclusioni. Siamo aiutati dalle fonti storiche. Mentre nell’archeologia biblica, si prendono le fonti storiche e si cerca di adattarle ai risultati dello scavo. Cioè gli archeologi biblici partono da una teoria e cercano le prove che la confermino.

Lei sostiene che Masada è uno degli esempi più significativi di questo approccio...

Di Masada abbiamo non solo la fonte biblica, ma anche una fonte romana, Flavio Giuseppe, che ha scritto le sue Historiae della fine del primo secolo dopo Cristo, riportando quello che aveva sentito dire a proposito di Masada e cioè che gli ebrei si erano chiusi dentro una fortezza per difendersi dalla Decima legione romana. Ma si trattava di un mito. L’archeologo che ha scavato il sito, Yigael Yadin, non trovando molte prove a supporto del mito, le ha inventate. Per esempio, gli unici scheletri ritrovati erano quelli di due monaci, mentre si sarebbero dovute rinvenire le ossa di centinaia di migliaia di persone uccise. Insomma, sul campo non sono state trovate prove a supporto di questa storia. Masada è diventata un mito grazie alla costruzione di  prove che si accordassero con le fonti storiche.
La stessa cosa è stata fatta a Gerusalemme. Secondo le narrazioni bibliche, Davide e Salomone costruirono il cosiddetto Primo tempio. Bene, dopo centocinquanta anni di ricerche archeologiche a Gerusalemme non è mai stato trovato nulla, e tuttavia il sito dell’Antica Gerusalemme viene chiamato dagli israeliani la "città di Davide”. Hanno creato una nuova mitologia, come se Gerusalemme fosse esistita ai tempi di Davide e Salomone. Hanno creato un "parco archeologico” che vorrebbero espandere a discapito delle case palestinesi circostanti. L’area è stata subappaltata ad una organizzazione di estrema destra israeliana che attualmente sta scavando sul sito, per cercare la cosiddetta "città di Davide”: così è stata rinominata l’area occupata dal villaggio palestinese di Silwan, che si trova appena fuori dalla città vecchia di Gerusalemme.
Hanno evacuato centinaia di famiglie palestinesi dalle loro case; il tutto con l’appoggio dello Stato di Israele, dell’esercito e della polizia.
Qui abbiamo un esempio molto chiaro di come l’archeologia venga usata non solo per motivi politici ma anche ideologici.
Moltissime famiglie palestinesi sono state allontanate dalla zona ed è già stata pianificata la requisizione di qualcosa come altri ottanta edifici: mille persone perderebbero la loro casa... per creare, in questo modo, "realtà coloniali” sul campo e perseguire una vera pulizia etnica. In questo caso l’archeologia diventa uno strumento nelle mani del colonialismo, a scapito dei palestinesi che vivono in quei luoghi da secoli.

Per i palestinesi l’archeologia è una cosa completamente diversa...
Come palestinesi, in generale, non abbiamo bisogno dell’archeologia per provare che siamo da millenni in Palestina. Le nostre radici in questa terra sono molto profonde, per cui non abbiamo bisogno che l’archeologia fornisca giustificazioni alla nostra presenza qui. Perciò l’archeologia che viene insegnata nelle università palestinesi, e praticata sul campo dal nostro Dipartimento per le Antichità, non ha preclusioni storico-culturali. Noi, in quanto archeologi palestinesi, guardiamo all’archeologia in Palestina nella sua interezza, siamo interessati a tutti i periodi storici: all’età del Bronzo, del Ferro, al periodo Romano, Bizantino e anche all’archeologia islamica, senza particolari preferenze. Pensiamo che la storia del nostro paese ci appartenga dall’alba dei tempi fino ad oggi. All’università di Birzeit insegniamo archeologia con un approccio inclusivo, olistico, cioè guardando all’intero patrimonio del paese, perché tutte le culture hanno contribuito a crearlo: anche la cultura e la storia ebraica fanno parte della nostra.
Questa differenza si riflette anche nel modo in cui lavorano i due Dipartimenti per le Antichità, quello israeliano e quello palestinese. In Israele, sia che si tratti di conservare che di restaurare reperti archeologici, la scelta cade sempre su siti in Israele, sui cosiddetti siti "ebraici”, mentre in Palestina la scelta non si fonda mai su ragioni etniche o sulla predilezione per una cultura.
Per esempio, nell’antico sito di Gerico, dove attualmente sto lavorando, il Dipartimento Palestinese per le Antichità sta facendo degli interventi nel sito di Tell es-Sultan, che data circa diecimila anni, nel palazzo Hisham, che è un palazzo dell’VIII secolo, del primo periodo islamico, e su due sinagoghe, che risalgono una al VI secolo e l’altra al VII secolo, dove è stato restaurato il pavimento a mosaico. Quindi la scelta è, in fondo, tra il lavorare con un approccio scientifico o con un approccio politico-ideologico.
Per questo essere un archeologo palestinese costituisce una grande sfida, per me specialmente, in quanto nato e cresciuto in Israele.

Come influisce su questo il turismo?
Beh, prima di tutto, dopo sessant’anni di esistenza dello Stato di Israele, l’archeologia israeliana ha rafforzato molti miti, come quello della città di Davide, di Masada e di altri siti archeologici collegati con la Bibbia, attualmente soggetti a scavi o accessibili al pubblico, che sono segnalati nelle mappe degli itinerari turistici, nelle guide, nelle brochure e così via.
L’archeologia israeliana ha creato questo corpus mitologico che è stato sfruttato dal turismo. Quindi alle persone che vengono dall’Europa per visitare i siti archeologici verrà proposto il seguente itinerario: arriveranno all’aeroporto di Tel Aviv dopodiché andranno a Gerusalemme, visiteranno la Città vecchia e il Monte del Tempio.
Ora, il "Monte del Tempio” è l’HarHaMoriyah e cioè il sito della Cupola della Roccia della Moschea di al-Aqsa. Là quindi non c’è alcun tempio. Ma i turisti, quando vengono nella Città Vecchia di Gerusalemme, pensano di andare a vedere il Tempio. D’altra parte, le guide turistiche quando li accompagnano spiegano loro: "Questo è il luogo dove sorgeva il Tempio, e quell’edificio, la Cupola della Roccia, è dove si trovava il Sancta Sanctorum e dove Erode ha costruito la sua torre e qui è dove tutti i rituali del tempio venivano compiuti”. Le guide parleranno a lungo del Tempio che fu costruito da Salomone, e poi ricostruito da Erode... e magari, passeggiando, dedicheranno anche qualche parola alla Cupola della Roccia, che è uno degli edifici più belli al mondo.
Io ho ascoltato spesso queste guide turistiche e sono rimasto stupefatto da come -ignorando, o rifiutandosi di vedere ciò che si vede- sia stata creata una vera industria turistica basata sulla mitologia.Tutto questo ricco patrimonio culturale, architettonico, che rappresenta quasi più di mille anni di sviluppo dell’arte e dell’architettura islamica, viene letteralmente ignorato. Nonostante quell’area sia un vero museo d’arte e di architettura islamica, l’ora trascorsa in quella zona si esaurisce a parlare del Tempio. E la stessa cosa accade per il resto dell’itinerario. Perché naturalmente i turisti visiteranno la chiesa del Sacro Sepolcro perché è importante per i cristiani e poi la Chiesa della Natività a Betlemme, e magari poi andranno a Gerico a visitare il Tell es-Sultan dove Giosué circondò la città e fece suonare le trombe che provocarono il crollo delle mura... Un intero itinerario costruito intorno alla narrazione biblica.
La stessa cosa accade quando si va a Megiddo, esistita dall’antica Età del Bronzo fino alla tarda Età del Ferro, un sito archeologico nel nord della Palestina, che viene presentata come la città di Salomone. Ancora una volta, ci troviamo di fronte solo al racconto biblico, non a una ricostruzione scientifica. Dunque l’industria del turismo ruota attorno a siti biblici, se non al 100%, certo in larga parte. Infatti molte compagnie turistiche sono pesantemente coinvolte in quest’operazione ideologica. Naturalmente esiste anche il turismo dei pellegrini cristiani, anch’esso collegato alla narrazione biblica.

Ma il popolo palestinese, date le difficili condizioni in cui vive, si interessa all’archeologia?
No, non c’è molto interesse, soprattutto se paragonato all’interesse che manifesta il popolo israeliano. Sì, certo, abbiamo i nostri intellettuali, ci sono persone interessate all’archeologia, ma la maggior parte dei palestinesi sono troppo occupati con i problemi della loro vita quotidiana.
L’archeologia è sempre stata vista come una disciplina iniziata e sviluppata dagli israeliani, per cui sono sospettosi. Questo atteggiamento risulta molto negativo, in quanto molti palestinesi che vivono in campagna rubano dai siti di antichità perché pensano siano collegati con Israele e gli israeliani.
La propaganda sionista e israeliana è stata così potente che anche i palestinesi hanno cominciato a pensare che la Palestina fosse abitata dagli ebrei e che noi siamo arrivati molto più tardi!
Per questo rubano i reperti, perché fanno parte dell’occupazione e della colonizzazione israeliana. Ed è un problema: noi dobbiamo decostruire tutta questa propaganda sviluppando una forma nuova di consapevolezza: dobbiamo capire che questa è la nostra cultura, il nostro patrimonio culturale, e quindi dobbiamo proteggerlo.
Il nostro lavoro di archeologi, in questo senso, è molto difficile perché dobbiamo convincere le persone della necessità di proteggere un patrimonio culturale che è il nostro e non il loro.
Dunque l’archeologia in Palestina non costituisce sicuramente una priorità, le persone si appassionano di più ad altri progetti. Però le cose stanno cambiando: anche se lentamente sempre più persone stanno diventando consapevoli dell’importanza del loro patrimonio culturale, non solo riguardo all’archeologia. Della nostra cultura fanno parte anche la tessitura e il ricamo, la nostra architettura, la vita nei villaggi, le nostre tradizioni, il nostro paesaggio!
Si tratta quindi di una missione difficile, ma dobbiamo compierla. 
 Mahmoud Hawari,archeologo, insegna presso la facoltà di Studi Orientali dell’Università di Oxford. L’intervista è stata raccolta nell’ambito del ciclo di conferenze organizzato dal Centro Interdipartimentale di Studi Balcanici e Internazionali di Venezia. 

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