Zvi Bar’el : i partner ideali di Israele sono a Gaza


Il portento sta nel modo in cui Israele divide il conflitto con i palestinesi in campi di battaglia separati per evitare una soluzione diplomatica complessiva – scrive l’analista israeliano Zvi Bar’el
***
E’ un piacere fare affari con la Jihad islamica. Loro sparano razzi Grad, Israele risponde con le bombe, l’Egitto media colloqui indiretti, si fissa un cessate il fuoco e tutti sono soddisfatti. Israele ancora una volta mostra il suo “potere deterrente” (che, in primo luogo, non ha impedito alla Jihad Islamica di lanciare i razzi). La Jihad islamica dimostra la sua capacità di sfidare Hamas, e ad Hamas è concesso lo status di “adulto responsabile”. Nel frattempo, il presidente palestinese Mahmoud Abbas non deve intervenire, e può continuare a svolgere il ruolo del disperato, mentre l’Egitto ancora una volta dimostra la sua autorità come amministratore del condominio.
Questo è il tipo di scontro che Israele preferisce. Non richiede estenuanti trattative né un mutuo riconoscimento; il cessate il fuoco non richiede il ritiro dai Territori, il prezzo richiesto a Israele è relativamente basso, le potenze straniere non intervengono, gli equilibri di forza non sono minacciati, e anche lo stravagante Ministero degli affari strategici non è preoccupato.
Il portento sta nel modo in cui Israele divide il conflitto con i palestinesi in campi di battaglia separati per evitare una soluzione diplomatica complessiva. Fino a sei anni fa, Israele doveva confrontarsi con l’Autorità Nazionale Palestinese, che controllava entrambe le parti della Palestina – Gaza e la Cisgiordania. Ma i risultati delle elezioni del gennaio 2006 nei Territori portarono Hamas al potere e diedero a Israele il pretesto per privare l’ANP della sua rappresentatività. Le due parti dello Stato palestinese divennero entità indipendenti, e così facendo realizzarono il desiderio di Israele di applicare il principio del divide et impera.
Questo principio ha dato ad Hamas il diritto di veto su ogni mossa diplomatica compiuta da Abbas, mentre la mancanza di controllo su Gaza da parte di Abbas ha rischiato di rendere qualsiasi accordo con lui inutile dal punto di vista della sicurezza. Israele non poteva rinunciare a un simile “dono”, così ogni tentativo palestinese di serrare i ranghi è andato incontro non solo a divergenze interne, ma anche alla minaccia israeliana – accompagnata dalle pressioni americane – di isolare l’ANP e perfino di imporre sanzioni contro di essa.
Così Hamas è divenuto un “partner indispensabile” nella campagna volta a silurare il processo negoziale. Esso è stato anche trasformato in una potente componente politica, per quanto riguardava Israele. Senza Hamas come partner nel processo, Mahmoud Abbas non ha un accordo di sicurezza complessivo da proporre a Israele; con Hamas nel processo, Israele non è disposta a sedersi al tavolo dei negoziati. Così il “processo politico” può proseguire in eterno senza giungere ad alcuna soluzione.
E’ stato così fino a quando non è divenuto chiaro (e non per la prima volta) che quando era necessario – sia per stabilire un cessate il fuoco e rabbonire gli israeliani nel sud, sia per riottenere un soldato rapito – Hamas poteva essere un ottimo partner. E la vita è molto più conveniente quando c’è un partner responsabile – un partner che non sia soltanto ideologico, ma che sappia anche essere politico, esattamente come il partner israeliano.
Ma un attimo prima che Hamas seguisse le orme di Fatah, e da organizzazione terroristica divenisse un soggetto politico accettabile, rovinando in questo modo il calcolo israeliano, un altro gruppo doveva essere rafforzato affinché ricoprisse il ruolo di Hamas nei confronti dell’ANP. Questo gruppo è la Jihad islamica; e così, a patto che la Jihad islamica non rispetti Hamas, Israele può avere entrambe le cose: può attribuire ad Hamas la responsabilità di quello che sta accadendo a Gaza, ed allo stesso tempo rafforzare la Jihad islamica colpendo la Striscia.
Il risultato è che la Jihad islamica, e non Hamas, sta negoziando con Israele in Egitto; tutto a un tratto anch’essa è un partner. Questo confronto è stato erroneamente definito come “asimmetrico”, ma in realtà è un confronto molto simmetrico, nel quale Israele non ha alcuna risposta militare completa alla Jihad islamica, e deve posizionarsi su un piano di parità per quanto riguarda il mediatore egiziano. Non è meno vulnerabile dell’organizzazione che sta combattendo, e il potenziale danno strategico di questo confronto non è diverso da una guerra tra eserciti.
La logica politica vorrebbe che si tornasse al punto di partenza, rendendo possibile all’ANP costituire un governo di unità nazionale riconosciuto da Israele, e riconoscendo uno Stato palestinese responsabile per qualsiasi richiesta o rivendicazione. Ma la logica politica contraddice la “logica politica” di Israele, che aspira a un processo politico senza fine anche a costo di intermittenti scontri a fuoco e di alcuni morti ogni anno. Di fronte a questa “logica politica”, la politica non ha rimedio.
Zvi Bar’el è un analista politico israeliano; scrive abitualmente sul quotidiano “Haaretz”
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

Commenti

Post popolari in questo blog

Hilo Glazer : Nelle Prealpi italiane, gli israeliani stanno creando una comunità di espatriati. Iniziative simili non sono così rare

Mappa della Cisgiordania e suddivisione in zone anno 2016

Né Ashkenaziti né Sefarditi: gli Ebrei italiani sono un mistero - JoiMag

Betlemme : il Muro e la colonizzazione. Testimonianze