Nasri al-Sayegh : Mondo arabo.I gruppi per la “promozione del male e la proibizione del bene”: odiatevi gli uni gli altri


L’odio reciproco fra cristiani e musulmani
Dopo gli eventi del Maspero al Cairo – con la “notte dell’arresto dei copti” per il reato di ‘manifestazione pacifica’, la gara dei mezzi di informazione a criminalizzare i manifestanti, lo schierarsi degli “islamici moderati” con il Supremo Consiglio delle Forze Armate al governo, l’accusa nei confronti dei manifestanti di aver provocato il massacro, la caduta di decine di vittime e di feriti, in misura che si avvicina a quanto avvenne nel “giorno del cammello” per mano dei teppisti di Hosni Mubarak e del suo allievo Habib el-Adly (ministro degli interni dal 1997 al 2011 (N.d.T.) ) – sono emersi numerosi interrogativi sul futuro della rivoluzione democratica in Egitto, sui crescenti pericoli che incombono sul percorso della transizione politica, sulle trappole che minacciano l’unità del popolo egiziano e lo lacerano dividendolo in copti e musulmani.
La rivista egiziana “Rose al-Youssef” è stata l’unica a rompere il silenzio ipocrita ed a rivelare ciò che normalmente viene taciuto, ponendosi le seguenti domande nel suo numero della settimana scorsa: “Musulmani e cristiani si odiano a vicenda?”; “I copti sono giunti alla violenza armata?”; “La protezione americana salverà i copti?”; “L’Egitto è sull’orlo di una guerra civile?”; “Le correnti islamiche vogliono un Egitto senza cristiani?”. La rivista ha concluso il dossier con alcune risposte del romanziere Naguib Mahfouz in scritti come “Rihlat Ibn Fattuma”, “al-Sukkariyya”, ed altri che hanno trattato la questione della società religiosa in Egitto.
Ma prima di entrare in questo mondo della follia, è necessario ricordare gli interrogativi suggeriti dalle miserabili condizioni del clima arabo e della sua crescente religiosità attuale.
In Libano, ad esempio, è giusto chiedersi: cristiani e musulmani si odiano a vicenda? La risposta potrebbe forse essere meno pesante di quanto ci si aspetterebbe dalle dimensioni dell’odio fra sunniti e sciiti, dove il livello di avversione è significativo e potrebbe aver raggiunto il limite del divorzio non dichiarato. Si potrebbero anche avanzare degli interrogativi sulle forme di odio, disprezzo e macchinazione tra molte delle sette libanesi, grandi e piccole; e non serve a niente dichiarare la società libanese estranea all’intolleranza attraverso il logoro ritornello della “convivenza” e della compromessa “unità nazionale”…poiché il Libano popolare ribolle di odio e di intolleranza, sempre di più. La sua unica virtù è che quest’odio è represso e soffocato.
E’ poi possibile trasferire lo stesso interrogativo all’Iraq, fra sunniti, sciiti, cristiani, curdi, ecc.. Ed è possibile convincerci della risposta se trasferiamo tale interrogativo all’Arabia Saudita, dove la “fratellanza tra sunniti e sciiti” è lesa a tal punto che gli sciiti sono accusati di non essere fedeli alla loro patria, dopo essere stati condannati come “rifiutatori” (rafida) in base al credo wahhabita saudita ufficiale (il termine “Rafida”,o  alternativamente “Rawafid”, indica letteralmente i “rifiutatori”, i rinnegati, cioè coloro che hanno rifiutato di riconoscere i califfi succeduti al profeta Muhammad; con questo termine vengono designati gli sciiti negli ambienti sunniti – e in particolare sauditi – più intransigenti (N.d.T.) ).
Ed è inutile rievocare testi ipocriti riguardanti il dialogo islamo-cristiano, o il dialogo islamico tra sunniti e sciiti. Poiché questi testi non riescono a coprire la vergogna dell’odio e del fanatismo.
Il cittadino arabo nasce in case in cui viene inculcata la religione, secondo la guida di istituzioni che sono ripiegate sulla dottrina, e da essa ideologizzate, e che a partire da essa diffondono ciò che divide, che taccia di miscredenza, che ripudia, disprezza, censura, e appartiene al livello della degradazione morale, invocando un patrimonio storico straripante di crimini reciproci. Poi, non appena uscito di casa, il cittadino arabo si sottomette a un’ottantina di canali satellitari islamici e a una ventina di canali cristiani, i quali trasmettono – oltre alle preghiere e alle spiegazioni – quella che si potrebbe chiamare “follia religiosa”.
Le rivoluzioni dei giovani…non hanno religione
Per cominciare, è necessario scagionare la rivoluzione araba democratica dalla macchia del settarismo e del confessionalismo. La generazione dei giovani – i quali sono usciti dalle loro case, dalle loro scuole, dalle loro università e dai loro luoghi di lavoro, oltre che dai mercati della disoccupazione, per demolire i regimi della tirannia, dello sfruttamento, della corruzione e della soppressione – non era contaminata dal settarismo e dal confessionalismo, era esente dalla macchia del razzismo e dell’arroganza, e pura come il suo slogan: libertà, dignità e pane.
Ed è necessario rinnovare la fiducia in questa generazione che si è unita tramite il pensiero e la sofferenza, attraverso reti senza censori, senza leader e senza partiti, senza una religione che prescrivesse comportamenti, senza giurisperiti che impedissero loro ciò che è lecito in nome di ciò che è proibito, e senza seguire gruppi “per la promozione del male e la proibizione del bene” (l’autore qui inverte un precetto islamico che si riassume nell’espressione “prescrivere il bene e proibire il male” [al-amr bi al-ma’ruf wa al-nahy ‘an al-munkar]; questo precetto è divenuto nei secoli, e soprattutto nell’era moderna, un pretesto utilizzato da gruppi religiosi particolarmente intransigenti – come ad esempio i salafiti – per imporre quella che secondo loro è la corretta etica islamica, anche ricorrendo a metodi coercitivi; da qui la scelta dell’autore di indicare tali gruppi come gruppi “per la promozione del male e la proibizione del bene”; in alcuni casi, fra l’altro, il precetto islamico sopracitato è stato tradotto in una vera e propria istituzione statale, come nell’Arabia Saudita di orientamento wahhabita, dove esiste la Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio [hay’at al-amr bi al-ma’ruf wa al-nahy ‘an al-munkar], che di fatto è una polizia religiosa che vigila sul rispetto della legge islamica, ed in particolare sul rispetto del codice di abbigliamento, della separazione tra uomini e donne, ecc. (N.d.T.) ). Questa generazione di giovani, dalla Tunisia a Piazza Tahrir al Cairo, ed alle altre città egiziane, a Deraa ed alle altre città siriane, a Sanaa, Taiz, ed ai luoghi delle tribù armate del coraggio delle armi proibite, in ranghi serrati dietro alle generazioni yemenite di meravigliosa disciplina, alle donne e agli uomini di Piazza della Perla in Bahrein, a Bengasi ed a tutte le sue generazioni, prima che cadessero nellamorsa della NATO e di Bernard-Henri Lévy…Questa generazione di giovani ha prodotto un miracolo, quando ha infranto l’impossibile generato dall’accumularsi della paura, e si è sollevata con i pugni nudi per dire ai governanti: andatevene! Ed alcuni se ne sono andati, mentre altri sono sul punto di farlo…Questa generazione di giovani credeva nella patria, nel popolo e nel futuro. Poiché la libertà non ha religione, il lavoro non ha confessione religiosa, il pane non ha appartenenza settaria.
Ma coloro che sono venuti dopo la generazione dei giovani, e hanno aderito alla rivoluzione senza esserne stati i pionieri o i creatori, hanno portato con sé la loro cultura politica, religiosa e di partito, frapponendola al cammino della rivoluzione senza rinunciare alla loro intolleranza politica, religiosa o salafita.
La necessità di scrivere queste righe per scagionare i giovani della rivoluzione sta nel fatto che alcune élite politiche, intellettuali e mediatiche hanno tentato di prendere in ostaggio la rivoluzione descrivendola ora come uno strumento al servizio di complotti stranieri, ora “islamizzandola”, ora mettendo il conflitto in rapporto con diversi ambienti religiosi e confessionali. La rivoluzione in Bahrein non è sciita nelle sue premesse né nei suoi slogan, ma gli stupidi del fanatismo hanno più volte imposto a questa rivoluzione il marchio dello sciismo, grazie al fatto che gli sciiti iracheni, libanesi e siriani hanno abbracciato la rivoluzione del Bahrein. La stupidità ha raggiunto i suoi massimi livelli (il settarismo ha i suoi stupidi profeti) quando Beirut ha ospitato una conferenza a sostegno della rivolta del Bahrein, con l’appoggio dell’icona degli agenti prezzolati in Iraq, Ahmed Chalabi (già membro dell’Iraqi National Congress, il gruppo di opposizione creato nel 1992 per contribuire a rovesciare Saddam, e abbondantemente finanziato dagli USA; Chalabi fu implicato nella “bufala” delle armi di distruzione di massa irachene (N.d.T.) ). E’ così che la rivoluzione democratica, pacifica ed esente da fanatismo del Bahrein si è ritrovata nella morsa del settarismo – la freccia avvelenata che le autorità del Bahrein hanno scoccato contro il movimento di Piazza della Perla.
Se non fosse stato per l’odio e il fanatismo, non sarebbe avvenuto questo puntuale soffocamento delle rivoluzioni democratiche. E il Bahrein non è un’eccezione alla regola, poiché anche il movimento in Siria era nelle sue premesse e nei suoi fondamenti un movimento popolare giovanile e non settario. Ma malgrado ciò, le autorità hanno insistito sul suo carattere “islamico”, “salafita”, e violento, nonostante l’evidente carattere pacifico impresso nelle origini del movimento. Le esclamazioni “Allahu akbar” (Dio è grande) sono a volte espressione di fanatismo, a volte di dolore, mentre a volte sono indice di patriottismo o di resistenza, come nel caso degli slogan di Hezbollah in Libano.
Religioso non vuol dire patriottico
Ma al fondo delle cose l’interrogativo prende un’altra piega: perché quest’odio? Perché questa violenza settaria? E’ sufficiente dire che il progetto egemonico americano e la politica a lungo termine di Israele puntano a dividere la regione e a frammentarla su base etnica e confessionale? Ciò non significa autoassolversi e gettare la responsabilità sulle spalle di altri? Non significa che ciò che l’Occidente vuole lo realizza a dispetto della nostra volontà e senza il concorso di gruppi arabi? O forse noi siamo strumenti di questi piani?
La ricerca di altre cause è un lavoro faticoso che porta all’autoaccusa, ed a concludere quanto segue: “Le fondamenta dell’integrazione nazionale in Egitto hanno concluso la loro vita virtuale” (Nabil Abdel Fattah, ‘Politiche delle religioni’ [Siyasat al-adyan]); il regime confessionale in Libano istiga alla pratica del fanatismo conferendogli validità permanente e ponendolo nelle categorie della legittimità naturale attraverso l’eterna frase: “Questo è il Libano”. Come a dire che il Libano è settario, e non c’è niente da fare…come se la natura intrinseca delle persone fosse mostruosa e perversa, e la responsabilità di ciò ricadesse su Dio che ci ha creato così. Questa è empietà scientifica ed eresia politica.
La tirannia gioca un ruolo nel sopprimere i legami comuni tra i cittadini, convertendoli in nemici o sudditi. Nel clima di assedio soffocante alle forze del pensiero, della politica e della società, ed ai movimenti della laicità, della democrazia e del liberalismo, e nel clima di egemonia del pensiero unico, del partito unico, del leader unico, e del testo unico, le persone si nascondono nei rifugi della religione e della comunità settaria. Giacché nessun altro rifugio protegge la gente dalla tirannia.
E nel ritorno ai rifugi settari, predomina una gretta cultura religiosa popolare. Nei covi settari il cittadino arabo viene educato in base a una cultura negativa nei confronti dell’altro e del diverso. La religione delle case, dei cenacoli e delle confraternite che praticano i “credenti” differisce dalla religione sociale, dove si impone l’uso di una lingua emendata e ipocrita, che nasconde ciò che è segreto e taciuto.
In Egitto, ad esempio, presso i copti vengono rievocate memorie che suscitano discordia, così come presso i musulmani vengono rievocate narrazioni accusatorie. Ad esempio: “Il papa Shenouda vuole costruire uno Stato copto”; e “Sadat disse in una conferenza che risale agli anni ’60: farò in modo che i copti abbraccino l’Islam o diventino lustrascarpe” (quest’affermazione potrebbe essere completamente inventata); ed altri cliché analoghi che assomigliano a quelli che si scambiano i libanesi allorché si aggrava la loro crisi: “L’Egitto copto contro l’Egitto musulmano”, “La conferenza copta per contrastare la conferenza islamica”, ecc..
Ciò accade mentre predomina una cultura islamica negativa nei confronti dei copti, e un diritto islamico importato dai paesi petroliferi, a cui risponde una cultura che cerca di farsi spalleggiare dall’estero chiedendo protezione al di fuori dell’Egitto. Si possono osservare un gran numero di fenomeni patologici, prodotti da decenni di emarginazione e discriminazione, fra cui l’offesa ai precetti della fede musulmana, la quale a sua volta espone le chiese agli incendi dolosi, alla distruzione e alla denigrazione. Gli atteggiamenti salafiti non sono appannaggio esclusivo di alcuni musulmani, visto che alcuni copti sono altrettanto “salafiti”. L’estremismo infatti evoca un estremismo ancora peggiore.
Queste sedimentazioni, in una società autoritaria ed islamista, rivelano l’assenza di dialogo e la repressione dei risentimenti, così come indicano che il sistema educativo, mediatico e culturale è fallimentare, e produce solo questo fanatismo. Alla luce di questa evidente incompatibilità ci si può aspettare sempre il peggio.
Un po’ di sociologia
Ciascun gruppo ha una personalità duplice. Nessun gruppo, etnico, religioso, confessionale, o partitico, è totalmente monolitico. All’interno di ogni personalità collettiva vi sono due tendenze: la tendenza all’isolamento e la tendenza all’apertura. Esse sono in perpetua lotta. Vince la tendenza all’isolamento quando il gruppo sente di essere circondato da nemici, e quando la società si trova in uno stato di conflitto. La filosofia dell’isolamento si rafforza e si accentua con l’emersione di una minaccia esterna e con la demonizzazione dell’altro e del diverso. Allora prevale il fanatismo, si ricorre alla violenza, e domina l’odio, giungendo in alcuni casi a prender parte alla battaglia sequestrando e uccidendo. Dal canto suo la tendenza all’apertura vince nella società dell’uguaglianza, della giustizia e dell’assenza di discriminazione. In questo caso non è più il gruppo a proteggere, ma lo Stato che regola le azioni della società, e salvaguarda i suoi diritti ed il suo operato, e quello dei gruppi che la compongono. Nello Stato democratico e laico non vi sono più gruppi religiosi che nutrono paure ed incutono timore, ma gruppi politici di opposizione e di governo. Ed i gruppi religiosi si limitano alla pratica liturgica, alla vita spirituale e alle altre azioni che si accordano con la tradizione religiosa, come avviene nei paesi in cui è avvenuta la separazione della religione dallo Stato e dalla politica.
Ma siccome siamo lontani da questo obiettivo, la tensione settaria e confessionale permarrà e si inasprirà a causa della fase di transizione, nella quale i partiti religiosi tentano di islamizzare lo Stato e la società, a fronte di coloro che desiderano far diventare tutti – musulmani, cristiani, curdi, ecc. – una nazione, all’interno di una patria il cui regime politico non pratichi alcuna discriminazione.
I timori per la rivoluzione non derivano dall’assenza di esperienza dei suoi giovani, o dalla molteplicità dei raggruppamenti al suo interno. I timori derivano dalle forze del passato, le quali vogliono delle nazioni imbottite di versetti e precetti sacri – non dei luoghi di fede condivisa – e vincono le loro battaglie con la logica degli istinti religiosi e dell’istigazione delle passioni e dell’odio – non con la logica della ragione civile e democratica.
Gli episodi del Maspero al Cairo hanno aperto la “ferita” degli interrogativi in Egitto. Ma questo paese è stato preceduto dall’Iraq e dal Libano. Quando finirà tutto questo?
Nasri al-Sayegh è un saggista ed analista politico libanese
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

I gruppi per la “promozione del male e la proibizione del bene”: odiatevi gli uni gli altri

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