A GAZA NON SI ENTRA. E NON SOLO PER COLPA DELL’ASSEDIO. di Germano Monti

   Il nostro tentativo di garantire una presenza al processo contro gli assassini di Vik non è andato a buon fine. Quello che è avvenuto nell’aula del tribunale militare di Gaza lo conosciamo solo grazie alle cronache di Michele Giorgio sul Manifesto ed al racconto di Gilberto Pagani, l’avvocato della famiglia Arrigoni, che ha potuto assistere all’udienza, sia pure da semplice spettatore, perché il tribunale militare ha respinto la costituzione di parte civile della famiglia di Vik.
E’ interessante riflettere sui motivi della nostra mancata partecipazione all’udienza. Se il pretestuoso diniego delle autorità egiziane a concederci il passaggio attraverso il valico di Rafah era un’eventualità ben presente, bisogna dire con franchezza che tutto ci saremmo aspettati, tranne che un analogo divieto arrivasse dalle autorità palestinesi di Gaza, cioè da Hamas. Già, perché è successo esattamente questo: chi governa Gaza ci ha fatto sapere che, indipendentemente dalla strada da noi scelta, avrebbero accettato la nostra presenza a Gaza solo se fossimo stati autorizzati dal governo del Cairo. Sembra un po’ la storia di quel vecchio film, “Comma 22”, ma senza nulla di umoristico.
Bisogna interrogarsi sul significato politico di un gesto apparentemente insensato: che senso ha, infatti, invitare il mondo a rompere l’assedio cui si è sottoposti, per poi respingere chi – anche correndo qualche rischio – si muove proprio perché non accetta quell’assedio e lo combatte?
Evidentemente, nel campo palestinese, ed a Gaza in particolare, avvengono cose che non conosciamo bene, ed è in questo scenario inedito che è andata a collocarsi anche la vicenda del processo per l’assassinio di Vik.
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Partiamo proprio dal processo: due dei quattro imputati hanno ritrattato le confessioni rilasciate a suo tempo, sostenendo che gli erano state estorte. Fin qui, nulla di strano: un conto è autoesaltarsi con l’immagine del martirio, un altro misurarsi con la concreta prospettiva di penzolare da una forca. Le stranezze sono altre, e tutte riconducibili alla reticenza nel divulgare risultanze che dovrebbero essere pubbliche, quali quelle degli interrogatori e dell’autopsia. Quindi, in oltre cinque mesi, nessun elemento è stato messo a disposizione della famiglia della vittima e dell’informazione. Una domanda sorge spontanea: perché?
Questa reticenza, unita al secco rifiuto di permettere la presenza di osservatori, appare decisamente sospetta. Dato che facciamo politica ed abbiamo poca confidenza con le spy stories, immaginiamo lo scenario politico in cui è venuto a trovarsi questo processo.
La popolarità di Hamas a Gaza è in calo, perché, dopo anni di assedio, la realtà offre agli occhi di tutti – e dei Palestinesi in particolare – l’immagine di un movimento islamico che parla di resistenza all’occupazione, ma non la fa, ed anzi si adopera per tenere a freno ogni “intemperanza”, vale a dire ogni reazione ai quotidiani crimini israeliani. Nella West Bank, Hamas è sostanzialmente inattiva, il suo grande sponsor di Damasco è sotto la pressione del movimento popolare e sempre più isolato anche dai suoi alleati (Iran e Turchia), mentre a rilanciare nel mondo l’attenzione sulla Palestina martoriata è stata – qualunque opinione si abbia in merito – l’iniziativa del Presidente dell’ANP, quell’Abu Mazen fino a ieri considerato poco più che un burattino in mano agli Israeliani ed agli U.S.A.  In breve, ad Hamas resta il controllo della Striscia di Gaza, perdipiù insidiato dalla concorrenza dei gruppi jihadisti e salafiti, che possono fare leva sulla disperazione indotta dall’assenza di prospettive.
In un contesto simile (a cui bisogna aggiungere la rinnovata potenza dei clan, arricchitisi con i commerci clandestini), ad Hamas non rimane che il legame con la Fratellanza Musulmana in Egitto,cosa che comporta, viste le scelte attendiste e moderate di quest’ultima, la necessità assoluta di non irritare la giunta militare del Cairo, con la quale i Fratelli Musulmani – fatte salve le diverse spaccature al loro interno – dialogano e collaborano, astenendosi da qualunque partecipazione a mobilitazioni e proteste. Questo spiega il bassissimo profilo tenuto anche nei confronti del perdurante blocco del valico di Rafah, davanti al quale continuano ad affollarsi ogni giorno centinaia di Palestinesi e attraverso il quale non transitano merci, salvo rarissimi convogli umanitari, dal grande valore simbolico ma assolutamente insufficienti a rispondere ai bisogni di un milione e mezzo di persone. Ecco un primo motivo che chiarisce l’apparentemente assurda decisione di Hamas di aggiungersi al blocco egiziano all’ingresso di stranieri nella Striscia.
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Un secondo motivo è costituito dalla necessità di non scoprire il fianco nei confronti della concorrenza integralista, cercando di toglierle spazio ed argomenti, il che significa una stretta autoritaria all’interno ed una chiusura verso il mondo esterno che va oggettivamente a fare il paio con il blocco egiziano (e con quello israeliano). Non siamo stati certo noi le prime vittime di questa chiusura: già da diversi mesi, infatti, la vita dei pochi Internazionali che continuano ad operare nella Striscia di Gaza si è fatta più difficile, e più asfissiante il controllo esercitato su di loro dalle autorità di Hamas, spesso con l’abusato pretesto di garantire la loro “sicurezza”. Quello che raccontano Internazionali e cooperanti, però, mostra l’immagine di un’entità che sembra rincorrere i salafiti e gli altri integralisti sul loro stesso terreno, atteggiandosi a custode delle tradizioni contro i corrotti costumi occidentali di cui gli stranieri sono portatori.
Non va, inoltre, sottovalutato il potere dei clan, che possono continuare a prosperare fino a quando la chiusura al mondo esterno renderà indispensabili i traffici clandestini attraverso le centinaia di tunnel che passano sotto il confine egiziano. I salafiti sotto processo non sono solo quattro individui, ma anche appartenenti a famiglie/clan, oltre che esponenti di quell’area politica di cui Hamas teme la concorrenza. E’ impossibile predire quale sarà la conclusione del processo: condannando a morte gli imputati, ben sapendo che la famiglia di Vik si opporrebbe all’esecuzione (e questo per la legge islamica è determinante), Hamas salverebbe la faccia e non inasprirebbe ulteriormente il confronto con gli integralisti. Questo è l’esito al momento più probabile, ma la condizione perché sia indolore, o quasi, è  che il clamore attorno al processo sia il più contenuto possibile.
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A pagare il prezzo di questa situazione è sempre la popolazione, soprattutto i giovani, che costituiscono la grande maggioranza e che soffrono più di tutti l’assenza di prospettive e il clima autoritario che si è instaurato a Gaza. Non è certo un caso se ora siano sempre di più quelli, soprattutto giovani, che vogliono abbandonare Gaza per unirsi alla diaspora palestinese in Europa, negli U.S.A. o in America Latina… insomma, ovunque pensino di poter trovare una qualunque possibilità di vita non soffocata dall’occupazione e da un regime che gli appare di giorno in giorno più estraneo ed avverso. E non stupisce il fatto che ad entusiasmarsi per l’iniziativa di Abu Mazen alle Nazioni Unite non siano stati solo gli attivisti ed i simpatizzanti di Fatah, ma Palestinesi di tutti gli orientamenti, dagli islamisti alla sinistra laica e marxista. Lo abbiamo visto con i nostri occhi al Cairo, dove centinaia di Palestinesi hanno dato vita ad un corteo non autorizzato (cosa impensabile ai tempi di Mubarak) da Piazza Tahrir alla sede dell’O.N.U., sfilando nel quartiere delle ambasciate e sventolando, insieme a quelle palestinesi, le bandiere siriane, egiziane, yemenite e della Libia post – Gheddafi. I Palestinesi si sentono parte del vento della Primavera Araba e sperano che quel vento investa anche l’occupazione sionista: Abu Mazen lo ha capito benissimo e, dopo essere stato solidale con i tiranni arabi, da Mubarak a Gheddafi, nel suo discorso all’O.N.U. si è fatto interprete della Primavera, con un’inversione di rotta che ha sorpreso – e galvanizzato – anche i Palestinesi più critici nei suoi confronti.
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Fin qui, l’attualità. Per quel che riguarda il “che fare?”, c’è molto da discutere, perché appare evidente a tutti che lo stallo seguito alla prima ondata rivoluzionaria è destinato a non durare ancora a lungo, e con ogni probabilità sarà proprio la Palestina il detonatore di nuovi sommovimenti. La cieca intransigenza israeliana e lo spettacolo miserabile offerto ai popoli arabi da quell’Obama che si è acconciato al ruolo dello Zio Tom delle lobby sioniste, sono benzina sul fuoco. Sussistono, poi, seri dubbi sulla reale presa nelle società arabe del cosiddetto Islam moderato della dirigenza dei Fratelli Musulmani, che punta all’appeasement con i vecchi poteri e con l’imperialismo occidentale, ma si trova davanti l’ostacolo insormontabile dell’estremismo sionista, indisponibile a qualunque passo indietro. Infine, le giovani generazioni non sembrano affatto attratte dall’Islam politico, né nella versione “moderata” dei Fratelli Musulmani, né, tanto meno, in quella integralista del jihadismo.
E’ molto probabile che, se la Palestina sarà il detonatore, le esplosioni più forti avverranno negli Stati intorno ad Israele e nei quali le rivoluzioni segnano il passo (Egitto e Giordania) o si confrontano con una repressione spietata (Siria). In Egitto la situazione appare evidente anche ad un osservatore sprovveduto: il popolo egiziano non ha nessuna intenzione di accontentarsi dei processi a Mubarak e qualche altro gerarca della vecchia cricca di potere, e nemmeno della drastica diminuzione della presenza poliziesca nelle strade e nella vita delle persone, i risultati più tangibili della rivoluzione del 25 gennaio. Le disuguaglianze sociali e la democrazia incerta, con le leggi speciali ancora in vigore, insieme all’atteggiamento oscillante verso Israele, sono tutti elementi che concorrono a tenere alta la tensione, di cui il sesto attentato consecutivo all’impianto di Al Arish (da cui parte il gasdotto che rifornisce Israele) è solo uno dei segnali.
E’ in questa realtà che dobbiamo collocare la nostra iniziativa, a partire dalla consapevolezza che l’assedio di Gaza continua, nel quadro del lento genocidio dell’intero popolo palestinese. Qualunque sia l’esito dell’iniziativa palestinese all’O.N.U., le condizioni sul terreno potranno mutare solo se il movimento di solidarietà renderà ancora più incisive le sue iniziative per la rottura dell’assedio e per il boicottaggio di Israele.
Germano Monti

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