Cinzia Nachira :Antonio Cassese e la tragedia del popolo palestinese
Sulla Repubblica dell’8 agosto è stato pubblicato un lungo articolo di Antonio Cassese, il giudice che oggi presiede il tribunale speciale in Libano per l’assassinio nel 2005 dell’allora primo ministro Rafik Hariri. L’articolo analizza le possibilità e le conseguenze della richiesta di riconoscimento della Palestina come membro effettivo delle Nazioni Unite avanzata di recente dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
La tesi sostenuta da Cassese si fonda su quattro assunzioni:
1. La richiesta dell’Autorità palestinese di riconoscere lo «Stato della Palestina» come membro effettivo delle Nazioni Unite deve riguardare soltanto la Cisgiordania, che ha le condizioni per passare dallo status di «entità» a quello di «Stato»;
2. Tale richiesta dovrebbe essere l’ennesimo tentativo di indurre Israele ad aprire un tavolo negoziale attendibile;
3. Anche se la richiesta dovesse cadere nel nulla -- gli Stati Uniti potrebbero usare il loro diritto di veto per contrastare una decisione non gradita a Israele -- il prestigio di Mahmud Abbas e dall’Autorità palestinese aumenteranno, sia pure nell’ipotesi che soltanto alcuni Stati membri delle Nazioni Unite si schierassero a favore della Cisgiordania come Stato palestinese;
4. Questo potrà accadere se Mahmud Abbas sarà disponibile ad abbandonare al suo destino la Striscia di Gaza, in quanto «governo di fatto» del movimento Hamas.
L’insieme di queste tesi è discutibile e in larga parte da respingere perché cariche di abbagli e di contraddizioni di fatto. L’abbaglio più grave è assumere che lo Stato palestinese sia territorialmente limitato alla Cisgiordania e, fatto ancora più grave, ignorare che il popolo palestinese è diviso, non per sua scelta ma per «occupazione bellica», tra la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme est e gran parte dei territori occupati dallo Stato di Israele, senza tacere dei milioni di profughi palestinesi tuttora in esilio. Peraltro, come ammette sbadatamente lo stesso Cassese, l’Autorità palestinese dispone soltanto del controllo della popolazione che abita in Cisgiordania, ma non certo del territorio che è in larga parte illegalmente colonizzato da oltre mezzo milione di coloni ebreo-israeliani. Il vero, gravissimo ostacolo a qualsivoglia progetto negoziale sono appunto le colonie ebraiche e, con esse, gli oltre cento check-points che sono controllati dall’esercito israeliano e che impediscono la circolazione dei palestinesi anche all’interno della Cisgiordania. E non andrebbe dimenticato il Muro di separazione unilaterale che Israele continua a costruire dal 2002, incurante del parere che nel luglio 2004 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha emesso dichiarandolo “contrario al diritto internazionale”. Tutto questo viene incredibilmente taciuto dall’autorevole giurista Antonio Cassese.
L’Autorità palestinese ha potuto sviluppare a partire dal 1994, anno della sua istituzione, una parvenza di amministrazione statale grazie agli aiuti internazionali. Ma non sono state create le condizioni per poter costruire un’economia vitale e indipendente. Un esempio concreto è rappresentato dalle barriere doganali che non esistono o, meglio, coincidono con quelle israeliane presso i porti delle città israeliane o all’aeroporto di Tel Aviv. Lo Stato di Israele, quindi, controlla le importazioni e le esportazioni da e per la Cisgiordania mentre ammonta a milioni di dollari la somma che Israele trattiene nelle sue casse per ritorsione e che invece dovrebbe essere versata nelle casse dell’ANP. Questo non è uno Stato, direbbe Primo Levi, che già nel 1987 denunciava la cecità della direzione politica israeliana relativamente al concetto di «pace in cambio di territori». A partire dal 1974 questa proposta è stata ripetuta più volte dalle autorità palestinesi ed è stata sempre rifiutata dai governi israeliani.
Ma ciò che ancor più colpisce nelle analisi di Cassese è il giudizio sprezzante su Gaza e l’idea di come Mahmud Abbas dovrebbe «regolare» il conflitto interno che dal 2007 ha dato vita a due governi diversi a Gaza e in Cisgiordania. Le elezioni del gennaio 2006 furono vinte da Hamas non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania. Quelle elezioni furono attentamente monitorate da delegazioni internazionali, quella statunitense compresa, e nessun osservatore ebbe dubbi sulla trasparenza del processo elettorale. È certo che Hamas aveva ottenuto il consenso della maggioranza del popolo palestinese senza frodi e senza “furti”. Questo merita di essere sottolineato con vigore anche se si può ritenere che il governo di Hamas non sia il miglior governo possibile per la popolazione della Striscia di Gaza.
Ma non si può tacere che a partire dal 2007 la Striscia di Gaza è sottoposta ad un embargo strettissimo, decretato da Israele e avallato dalla cosiddetta comunità internazionale. L’alibi per questo assedio di tipo medievale è la decina di rudimentali razzi Qassam lanciati in territorio israeliano da parte di Hamas nell’arco di una decina di anni e che non hanno provocato più di una decina di vittime israeliane.
La realtà è che si tratta di una punizione collettiva contro la popolazione civile di Gaza -- un milione e seicentomila persone -- per aver “votato male” nel gennaio 2006. Ma la vendetta israeliana non si limita all’embargo di ogni tipo di merci e di generi di prima necessità che ha già mietuto moltissime vittime. Tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009 l’attacco militare deliberato dallo Stato di Israele -- l’operazione «Piombo fuso» -- ha provocato oltre 1400 vittime, in maggioranza civili inermi, che non avevano vie di fuga. Questa azione bellica non solo non ha determinato, come speravano gli israeliani, una rivolta della popolazione di Gaza contro Hamas, ma nel lungo periodo ne ha accresciuto il consenso. Inoltre, l’aggressione del 2008/2009 ha anche modificato la percezione dello Stato di Israele da parte dell’opinione pubblica mondiale che ne ha severamente criticato i bombardamenti indiscriminati.Tacendo su tutto questo e ignorando i cambiamenti in corso nel Maghreb e in Medio Oriente, Cassese sembra consigliare a Mahmud Abbas di interrompere il dialogo con Hamas iniziato nell’aprile scorso e che ha già portato a un primo accordo di massima circa un governo di unità nazionale. È difficile credere che Cassese ignori che questo dialogo è in corso e che esso risponde alla fondamentale richiesta dei giovani palestinesi che nei mesi scorsi hanno unito le loro proteste a quelle degli altri Paesi arabi in rivolta: la fine della divisione nazionale. Cassese con il suo ragionamento semplicistico segue le orme del più classico colonialismo, bianco e razzista: dire alle vittime ciò che devono fare per compiacere i propri carnefici e per ottenere una parvenza di indipendenza. L’articolo di Cassese è insensato perché vorrebbe “ri-confezionare” una proposta inaccettabile per i palestinesi. In altre parole, vorrebbe che Mahmud Abbas abbandonasse il dialogo con Hamas per ottenere una finzione di Stato e dare soddisfazione completa delle pretese israeliane. Se ciò che auspica Cassese dovesse per caso verificarsi, senza dubbio Israele “cederebbe” alla richiesta palestinese del suo riconoscimento presso le Nazioni Unite. Ma è chiaro che anche qui Cassese si inganna. In primis, non si è accorto che Hamas, molto pragmaticamente, non si sta opponendo all’iniziativa dell’ANP. Per un verso, la posizione di Hamas si spiega con la difficoltà che avrebbe a sostenere l’opposizione ad una iniziativa che comunque è ben accetta dalla grande maggioranza dei palestinesi. Per un altro verso, la “neutralità” è l’ennesima dimostrazione che Hamas accetta l’esistenza di Israele: si tratta quindi di una smentita clamorosa della tesi sostenuta da Cassese secondo la quale Hamas sarebbe allineato sulle posizioni dell’Iran e della Siria e punterebbe alla distruzione di Israele.
L’iniziativa dell’ANP ha avuto delle ricadute inaspettate nella società israeliana. Nel luglio scorso sia a Gerusalemme, sia a Tel Aviv si sono svolte massicce manifestazioni: migliaia di persone, palestinesi ed ebrei insieme, reclamavano l’indipendenza per i palestinesi. Queste manifestazioni sono state importanti per due motivi. Anzitutto, chiedere l’indipendenza è cosa assai diversa dal rituale «due Stati per due popoli», poiché significa rimettere in discussione la divisione del territorio palestinese oggi del tutto condizionata dalla colonizzazione ebraica. In secondo luogo, queste manifestazioni non potranno che saldarsi con la protesta sociale che sta dilagando in Israele. Le rivendicazioni dei giovani israeliani hanno una richiesta di fondo: aumentare gli alloggi e ridurre il caro-affitti nelle maggiori città israeliane (Gerusalemme-Ovest, Tel Aviv e Haifa, anzitutto). La risposta del governo di estrema destra è stata la decisione di costruire centinaia di nuove unità abitative nelle colonie che soffocano Gerusalemme Est. Questa soluzione è decisamente avversata da coloro che presidiano giorno e notte da oltre un mese i quartieri centrali e periferici di Gerusalemme e di Tel Aviv. I giovani israeliani, oramai da lungo tempo, non intendono vivere nelle colonie, aspirando a una «normalità» che è loro negata dallo stato di guerra permanente imposto dalle scelte espansionistiche dei loro governi.Anche questi aspetti sono del tutto taciuti – forse ignorati ? -- da Antonio Cassese, che con disinvoltura costruisce i suoi ragionamenti solo ed esclusivamente sull’assunto che i palestinesi dovranno adeguarsi alle imposizioni israeliane e dei paesi occidentali. Cassese commette infine un errore ancora più grave nel sottovalutare, tacendolo, il ruolo che in questa fase hanno i cambiamenti politici in corso e che stanno ridisegnando il volto del Mediterraneo. A Cassese è sfuggito che gli Stati Uniti hanno abbandonato di fatto uno ad uno i dittatori arabi, dichiarandosi «al fianco» della Primavera araba. Questo potrebbe pesare sulle scelte statunitensi in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, spingendo l’amministrazione Obama a non avvalersi del diritto di veto. Ciò non significa sostenere che gli Stati Uniti intendano mettere in discussione l’alleanza strategica con Israele. E tuttavia, come già avvenuto altre volte nel recente passato, non sempre gli interessi statunitensi e quelli israeliani coincidono del tutto e quindi gli Stati Uniti fanno pressione perché Israele accetti le loro decisioni. E che l’amministrazione Obama sia entrata in “conflitto” con il governo estremista di Benyamin Netanyahu nel corso degli ultimi mesi è cosa nota. Inoltre, gli Stati Uniti hanno la necessità di «gestire» la nuova situazione mediorientale perché non sfugga loro di mano e questa «gestibilità» potrebbe anche passare attraverso la riuscita dell’iniziativa palestinese nell’ambito delle Nazioni Unite.
Non è possibile prevedere ciò che avverrà a settembre in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite e ancor meno nel Consiglio di Sicurezza, ma c’è da sperare che i palestinesi non diano il minimo ascolto a idee come quelle di Antonio Cassese. Per il bene di tutti.
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