Risuona in questi giorni, proclamata o solo suggerita, la tesi secondo cui i valori dell’ebraismo entrarono molto tempo fa in sintesi più vaste e furono perciò superati. Diffuso quanto paradossale verdetto quello che fa del monoteismo ebraico il balbettio dell’espressione cristiana di spirito e verità. Come se l’ebreo fosse dunque un fossile la cui stessa sopravvivenza mette in discussione il fondamento del cristianesimo.
E a ben guardare si dovrebbe capovolgere la prospettiva. L’ebraismo ha de-sacralizzato il mondo, nel senso che ha tolto la magia, ha rotto con l’idolatria. Perciò l’ebreo resta estraneo ad ogni riemergere offensivo del numinoso e del sacro. Il monoteismo ebraico distrugge numi e dèi mitici. Il Dio di Israele non è né la sommità né l’unificazione di una specie – è Altro, è l’assolutamente Altro.
Rispetto al divino che quegli dèi incarnano, rispetto al cedimento cristiano verso l’immanenza delle immagini, verso il sacro che si spazializza, l’ebraismo potrebbe persino assomigliare all’ateismo. Non è questo forse il rischio che si deve correre? Certamente sì. Il monoteismo ebraico richiede di intendere Dio da lontano, di cercarlo a partire dall’ateismo, di invocarlo a partire dalla separazione. Dubbio, solitudine, rivolta devono già essere attraversati. Come ha scritto Levinas: «il Dio per adulti si manifesta nel vuoto di un cielo infantile».
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